Firenze ha un poco invidiabile primato: confrontata con le altre maggiori città italiane, l’area metropolitana fiorentina ha il più alto tasso di motorizzazione a livello nazionale, con 768 auto ogni 1.000 abitanti. Se consideriamo solo il territorio comunale di Firenze, tuttavia, questo tasso scende sotto la media delle grandi città italiane (Fonte: Kyoto Club e CNR-IIA, Rapporto Mobilitaria 2020. https://iia.cnr.it/mobilitaria-2020/). Questi dati indicano evidentemente che abbiamo un problema legato all’eccessivo ricorso alla mobilità privata: più ancora che a livello cittadino, questa tendenza riguarda soprattutto gli abitanti dell’area vasta intorno a Firenze.
La piana fiorentina è attraversata da parte a parte, nelle sue principali direttrici, da binari ferroviari. Dovrebbe quindi essere strategico per Firenze considerare come priorità la creazione di un vero e proprio Servizio Ferroviario Metropolitano (SFM), attraverso il quale sviluppare al meglio una mobilità integrata in tutto il territorio provinciale, con treni frequenti e puntuali che collegano tutte le fermate presenti ad esempio sulle linee tra Firenze ed Empoli, Campi Bisenzio, Prato, Borgo San Lorenzo, Pontassieve. Un servizio che permetta di andare da Campo di Marte a Rifredi in 8 minuti con treni che fermano ogni 5 minuti.
SFM e TAV
L’idea di un Servizio Ferroviario Metropolitano a Firenze è sempre andata di pari passo al progetto del passante ferroviario dell’Alta Velocità.
I due progetti sono, nei fatti, intrinsecamente collegati per motivi strutturali: la rete ferroviaria fiorentina, allo stato attuale, non permette lo sviluppo di un SFM con cadenzamento adeguato fra tutte le stazioni interessate. Lo spostamento dei treni ad Alta Velocità al passante sotterraneo permetterebbe invece, senza grandi interventi sulla rete di superficie, di dedicare alcuni binari ai treni locali.
Già nei primi accordi stipulati fra le Ferrovie, Regione Toscana e Comune di Firenze emergeva chiaramente l’idea, parallelamente alla realizzazione del sottoattraversamento, di sfruttare la maggiore disponibilità di binari in superficie per rinforzare su Firenze le linee ferroviarie locali riattivando vecchie stazioni in disuso e realizzandone nuove. Ciò che non tutti sanno, però, è che è stata la giunta Renzi nel 2011 a chiedere a Ferrovie di stralciare dagli accordi la previsione del SFM, e da questa scelta il Comune di Firenze anche con l’attuale sindaco Nardella non è mai tornata (almeno ufficialmente) indietro.
Che cos’è un Servizio Ferroviario Metropolitano
Un Servizio Ferroviario Metropolitano, come quello realizzabile a Firenze, ha delle caratteristiche precise che lo distinguono sia dalla metropolitana che dal servizio ferroviario regionale:
In Europa sono note l’esperienza della RER parigina, delle S-BHAN tedesche e in Italia il passante ferroviario di Milano e Torino.
Un treno S-BHAN a Berlino.
Le stazioni di Firenze
Il progetto di un Servizio Ferroviario Metropolitano per Firenze dovrebbe prevedere l’utilizzo e il potenziamento di tutte le stazioni ferroviarie del territorio comunale.
Nel piano del nodo dell’Alta Velocità Fiorentina anteriore al 2011 era prevista, insieme alla realizzazione del sottoattraversamento e della “Foster” (Stazione AV Firenze Belfiore), la costruzione o l’ammodernamento delle stazioni: San Salvi, Le Cure, Circondaria, Dalmazia, Perfetti-Ricasoli, Peretola, Quaracchi, Osmannoro.
La rete di stazioni metropolitane di Firenze così come immaginate al 2011. [Fonte: Nostra elaborazione su Piante RFI.]
Fin da subito l’idea di una stazione a San Salvi è stata abbandonata da RFI perché troppo vicina a Firenze Campo di Marte. È stata invece costruita, ma non è mai entrata in funzione, la stazione Perfetti-Ricasoli, in una posizione strategica fra Nuovo Pignone e Nuova Scuola dei Carabinieri. Restano sulla carta Dalmazia, Quaracchi, Campi e Osmannoro, cruciali se si pensa a come il SFM collegherebbe in modo ecologico, conveniente e veloce alcune tra le zone residenziali e produttive principali dell’area metropolitana.
Fondamentale in particolare rimane la costruzione della stazione Circondaria, strettamente legata al completamento della Stazione AV Belfiore e opera necessaria per permettere un collegamento tra treni regionali e locali e Alta Velocità. Arrivando con l’Alta Velocità alla Stazione Belfiore, sarebbe sufficiente salire al piano superiore e prendere un treno regionale per arrivare a Santa Maria Novella, avendo a disposizione un treno ogni 5 minuti, oppure prendere treni per Prato, Pisa o Arezzo. I passeggeri dell’AV diretti a Firenze potrebbero raggiungere il centro storico in un attimo, quelli diretti in Toscana troverebbero coincidenze immediatamente.
Dopo l’accantonamento da parte dell’ex sindaco Renzi nel 2011, tuttavia, la stazione Circondaria non è mai stata costruita ed è sparita per anni dal dibattito sul nodo dell’Alta Velocità: oggi sembra finalmente essere tornata sul tavolo delle trattative tra Comune, Regione e Ferrovie, insieme all’idea di un collegamento veloce tramite People Mover tra Circondaria/Belfiore e la Stazione SMN. Non è stato tuttavia reso ancora pubblico nessun progetto, né per la stazione Circondaria né per l’ipotetico servizio navetta con la Stazione SMN.
La situazione attuale
Al momento le stazioni esistenti nell’area fiorentina sono collegate tramite i treni regionali, con differenze sostanziali fra le varie stazioni. Per esempio, la tratta Rifredi-SMN è pienamente servita con 120 treni regionali al giorno (6 mediamente ogni ora), mentre ci sono solo 16 treni al giorno da Le Piagge e 31 da Castello. E se è vero che ci sono mediamente tre treni l’ora per andare da Campo di Marte a Santa Maria Novella, ci sono meno di 20 treni il giorno che portano da Campo di Marte a Rifredi permettendo di aggirare il centro e collegando due quartieri popolosi.
Per dare un’idea, al momento con i bus (ad es. linea 20) ci vogliono 35-40 minuti per coprire questo tragitto, mentre in treno sono al massimo 10 minuti con fermata a Statuto, dove si può prendere il tram per il centro o per Careggi. Non ultima, resta sottoutilizzata la vecchia linea Faentina che potrebbe servire sia il Mugello che le Cure: al momento sulla linea transita meno di un treno l’ora e nelle ore centrali della mattina non si muove una foglia.
Le nostre proposte
Crediamo fortemente che il Servizio Ferroviario Metropolitano debba essere portato avanti come progetto cardine per una mobilità integrata, che veda treni, bus e tram (insieme alla rete delle piste ciclabili al progetto della bicipolitana ed ai servizi di bike sharing) lavorare tutti insieme con l’obiettivo di ridurre al minimo gli spostamenti con i mezzi motorizzati privati.
Il Servizio Ferroviario Metropolitano è cruciale:
Per questo siamo convinti che il Comune debba fare marcia indietro rispetto alle decisioni del 2011. Parallelamente alla realizzazione del passante AV di Firenze, la stazione Circondaria deve essere portata a termine, perché è uno dei tasselli indispensabili per un servizio Ferroviario Metropolitano.
Inoltre dovrebbe essere subito attivata la stazione di Perfetti-Ricasoli e rafforzato il cadenzamento della linea Faentina, attraverso un treno circolare, con attestamento a Campo di Marte e frequenze ogni 30’.
Nel grafico riportiamo un’ipotesi di massima realizzata a partire dalle analisi prodotte da AMT – Associazione per gli studi sulla Mobilità e i Trasporti in Toscana (ogni eventuale errore è imputabile soltanto a noi). Un progetto preciso avrebbe bisogno di tener conto della riorganizzazione del sistema regionale ma anche questo schema di massima rende chiare le potenzialità del progetto. Si vedono le 5 linee del SFM che collegano tutto il nord della città metropolitana. Questi treni, assieme ai regionali di più lunga percorrenza, garantiscono cadenze molto frequenti, di 5’ nella “cintura” e di 7′ e 30” verso SMN (numeri in rosso). In nero sono invece riportate le cadenze sulle direttrici dei treni regionali, 12′ da SMN a CM. Stessa cadenza fra Empoli e Circondaria.
Fonte: Nostra rielaborazione a partire da materiale AMT.
Sgomenti e inermi di fronte all’invasione dell’Ucraina abbiamo fatto alcune domande a Vanni Pettinà, esperto di guerra fredda, fiorentino ma da anni professore associato presso il Centro de Estudios Históricos del Colegio de México, università di riferimento in Messico per le scienze sociali.
Ecolo’: Ciao Vanni, grazie per la disponibilità a rispondere a queste domande. Sei uno storico delle relazioni internazionali, quindi partiamo da come siamo arrivati qui. Quali sono le radici storiche, politiche ed economiche delle tensioni tra Russia e Ucraina?
Vanni Pettinà: Dunque, io inizierei in modo diverso, dicendo che non esistono ragioni che, in termini di conflitto storico, possano offrire un nesso causale diretto per comprendere l’invasione russa dell’Ucraina. Ci sono ovviamente numerosi errori commessi da Washington, dall’Unione Europea e dalla NATO dopo il collasso dell’URSS, nel dicembre del 91. Potrei citare, per esempio, la shock therapy elaborata dall’economista statunitense Jeffrey Sachs per “aiutare” la Russia a integrarsi nell’economia di mercato, che produsse un impoverimento drammatico del paese con conseguenze sociali devastanti per i cittadini dell’ex URSS. Però, detto questo, non esiste un conflitto “storico” tale da rappresentare un nesso di causalità diretto con l’invasione. L’invasione avviene perché Putin ha deciso che un’Ucraina sovrana e indipendente non è tollerabile nei suoi calcoli strategici, razionali o meno che essi ci appaiano, ed è convinto di avere la forza militare necessaria per piegare il paese. C’è quindi una correlazione ma non una causalità diretta tra gli errori commessi da Europa, Stati Uniti e NATO e l’invasione dell’Ucraina.
Esistono piuttosto narrazioni prodotte dallo stesso Putin che si nutrono di una pseudo-storia, e che vengono usate dalla Russia per giustificare l’invasione. Come storico, sento la necessità di sottolineare che si tratta, appunto, di costruzioni inattendibili. Un esempio: l’annosa questione dell’espansione della NATO che viene indicata da Putin come uno dei motivi per dar avvio all’invasione. Anche se con un po’ di leggerezza l’Alleanza ha messo in effetti in agenda la sua ammissione nel 2008, ma l’Ucraina non appartiene all’alleanza e la sua entrata – come nel caso della Georgia, proprio per evitare un conflitto con la Russia – non era né prossima, né all’ordine del giorno. Inoltre, credo che sia necessario sottolineare che sono stati i paesi dell’ex Patto di Varsavia o della stessa URSS che, dopo l’implosione sovietica, hanno chiesto di entrare nella NATO e nell’EU, in parte anche come conseguenza dei traumi prodotti dalla loro collocazione sotto l’ombrello sovietico durante la Guerra Fredda. La lista potrebbe proseguire e potrebbe includere il fatto che non esiste una violazione storica e sistematica dei diritti della popolazione russoparlante dell’Ucraina. Come dimostra proprio la resistenza in massa contro l’invasione e che ha coinvolto anche cittadini di lingua russa, l’appartenenza culturale non coincide necessariamente con quella nazionale, come vorrebbe la narrazione caldeggiata da Putin. La storiografia più aggiornata che si occupa di storia della Russia ha da tempo sottolineato la necessità di diversificare proprio tra russkij e rossijskij, per definire l’aggettivo russo. Russo-russkij indica l’appartenenza culturale russa, mentre russo-rossijskij indica l’appartenenza allo stato-nazione russo. Si può dunque essere al medesimo tempo russo-russkij e cittadino di un altro stato – in questo caso dello stato-nazione ucraino. Non esiste la contradizione cui si appiglia Putin, che vorrebbe invece cancellare questa importante distinzione facendo coincidere appartenenza culturale con quella nazionale allo stato Russo. Questa coincidenza è un’invenzione, e come tale va criticata.
Ecolo’: Qual è la ragione fondamentale della scelta russa di invadere l’Ucraina?
Vanni Pettinà: Se assumiamo come verosimile il ragionamento di cui sopra, dobbiamo cercare proprio nella volontà di espansione di Putin la causa principale dell’invasione dell’Ucraina. Ora, cosa ci sia dietro questa agenda espansionista è difficile da dire e ci muoviamo nel regno delle ipotesi. La più plausibile, considerando la cultura politica d’appartenenza di Putin (legata ai settori più conservatori dell’ex URSS e al KGB, di cui era agente), è che ritenga che la Russia debba recuperare la posizione geopolitica mantenuta dall’URSS durante la Guerra Fredda. Ucraina ed Europa dell’Est, ma anche le tradizionali zone di influenza sovietiche in Medioriente, come la Siria, sembrerebbero rappresentare una specie di spazio vitale russo che deve essere riacquisito, senza escludere ovviamente il ricorso alla guerra. Anche perché la mancanza di un appeal russo politico-culturale, che invece aveva l’URSS, e dunque di un soft-power effettivo, rende per Mosca la guerra quasi uno strumento inevitabile per riappropriarsi di questo spazio vitale. Ovviamente, la debolezza politica degli Stati Uniti, dopo quasi due decenni di interventi dissennati in Medioriente, e quella della NATO, indebolita dallo stesso Trump durante la sua presidenza, hanno probabilmente convinto Putin che ci fossero le condizioni per un intervento senza reazioni rilevanti da parte di Stati Uniti, Europa e NATO. Ci potrebbe anche essere un calcolo che mira ad alimentare quel nazionalismo irredentista russo, stimolato dagli errori commessi dai Paesi dell’alleanza atlantica dopo il ‘91, che Putin ha cavalcato fin dal suo arrivo al potere e sul quale ha basato le sue fortune politiche.
Ecolo’: Quanto potrebbe durare questa guerra?
Vanni Pettinà: Questo dipende da due variabili fondamentali, credo. La prima è ovviamente la capacità di resistenza delle forze armate ucraine, fattore che a sua volta dipende anche dalla volontà e capacità dell’Europa e degli Stati Uniti di appoggiarle con aiuti militari ed economici. La seconda dipende invece dalla volontà Russa di impiegare livelli di violenza militare crescenti, proprio per stroncare la resistenza ucraina. Ad ogni modo, finita la fase più classica della guerra, quella attuale in cui si stanno fronteggiando due eserciti, mi pare plausibile prevedere la sua prosecuzione su un terreno di conflitto non convenzionale, in cui gli ucraini cercheranno di logorare con la guerriglia le forze armate russe.
Ecolo’: Come potrebbe finire?
Vanni Pettinà: È ovviamente difficile dirlo. Se però consideriamo sia la determinazione Russa nel proseguire il conflitto sia quella ucraina nel resistere, probabilmente lo scenario più plausibile potrebbe essere quello di una partizione del territorio ucraino in due, l’Est in mano alla Russia e l’Ovest sotto il controllo ucraino, probabilmente con Leopoli come nuova capitale.
Ecolo’: Qualcuno ha paventato la possibilità che Putin sia deposto dal suo stesso entourage. È una fantasia occidentale priva di fondamento?
Vanni Pettinà: È una possibilità. Le sanzioni potrebbero indebolire il patto tra oligarchi e Putin e muovere i primi a cercare una soluzione alternativa che permetta loro di non perdere la ricchezza accumulata e la cui salvaguardia, mi pare, sia ormai resa quasi impossibile dalle sanzioni economiche europee e statunitensi che hanno colpito duramente molti dei patrimoni degli oligarchi russi. La difficoltà, in questo caso, è che si tratta di una relaziona asimmetrica in cui sono più gli oligarchi a essere dipendenti dalle concessioni di Putin, non viceversa. Altra possibilità è che la guerra e i suoi costi vengano percepiti come eccessivi dalle stesse forze armate e dagli attori politici che sostengono Putin. Ci sono dei precedenti. Nel 64 Chruščëv venne spodestato dal potere attraverso un putsch di palazzo, proprio perché la sua politica estera, che aveva condotto alla Crisi dei Missili di Cuba nell’ottobre del 62, era stata ritenuta eccessivamente rischiosa e politicamente costosa per l’URSS. Morti e costi economici potrebbero innescare un processo simile, anche se al momento Putin pare essere saldamente al potere, sostenuto anche da una opinione pubblica irretita dalla propaganda e quindi non molto critica verso la guerra in Ucraina.
Ecolo’: Condividi la scelta di fornire armi alla resistenza Ucraina da parte dell’Italia?
Vanni Pettinà: Sì, perché temo che la possibilità di arrivare a un negoziato dipenda proprio dalla capacità di resistenza delle forze armate ucraine. Putin ha come obiettivo la conquista del Paese intero, solo se il costo di questa operazione dovesse divenire troppo alto potrebbe scegliere di negoziare una partizione. E il costo per la Russia dipende direttamente dalle sanzioni ma anche soprattutto dalla capacità di resistenza militare ucraina.
Ecolo’: Come si concilia la fornitura di armi a una delle due parti in guerra con il proseguimento dell’acquisto di gas dalle compagnie russe?
Vanni Pettinà: Male. Si tratta ovviamente del solito problema di mancanza di una visione strategica europea. È da tempo che, non solo il problema dell’Ucraina, ma, più in generale, quello di una Russia più assertiva o di un mondo geopoliticamente meno stabile, a causa dell’erosione dell’egemonia statunitense, sono processi evidenti. La dipendenza energetica europea, e soprattutto tedesca, dalla Russia è solamente un esempio dell’impreparazione europea di fronte alle sfide che il nuovo contesto lancia. Ma è, appunto, solamente una. La mancanza di un debito comune europeo o di un sistema di difesa continentale mi paiono altri elementi che, se la guerra dovesse estendersi, rivelerebbero altri punti altamente critici dell’impreparazione europea.
Ecolo’: Come immagini che cambieranno gli equilibri geopolitici dopo la fine di questo conflitto?
Vanni Pettinà: Paradossalmente, potrebbe cambiare a favore dell’Europa e degli Stati Uniti. La Russia uscirà molto indebolita, economicamente e geopoliticamente da questo conflitto. Le sanzioni prostreranno l’economia russa e l’immagine del paese ne esce devastata. L’invasione, invece, sta rafforzando la presenza della NATO che, in teoria, l’invasione voleva giustamente limitare. Anche l’Unione Europea sembra essersi di colpo svegliata. Finalmente si parla di una politica di difesa comune e di una politica energetica che la liberi dalla dipendenza dalla Russia. Gli Stati Uniti, inoltre, hanno ridotto grazie alla guerra i danni causati dalla presidenza Trump ma anche dai clamorosi errori commessi durante i decenni di arroganza unilaterale. Le ferite non sono ovviamente rimarginate, ma gli errori russi mi pare che aiutino Biden a tappare, almeno in parte, quelli statunitensi. Dal punto di vista sia russo che degli equilibri europei mi pare che il cambiamento più significativo sia la decisione tedesca di tornare a investire sulla propria forza militare. Va ricordato che l’intera architettura del sistema di sicurezza costruito dalla Russia dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale verteva proprio sul perno di una Germania demilitarizzata. Con questa invasione Putin è riuscito a rendere vana la morte di 26 milioni di russi durante la Seconda guerra mondiale, un numero che aveva in qualche modo legittimato le richieste sovietiche di disarmo tedesco.
Anche la Cina non mi pare esca bene dal conflitto, almeno dal punto di vista della sua immagine internazionale. Appoggiare l’invasione di un paese sovrano, anche se nella forma ambigua in cui lo sta facendo, non credo rassicuri i paesi con cui la Cina vuole commerciare e verso cui ambisce ad espandere la sua influenza politica e culturale. L’egemonia si basa anche e soprattutto sul consenso e questa invasione mi pare stia mostrando chi è in grado di generarlo e chi no.
Ecolo’: Qual è stato il ruolo della Cina e come potrebbe cambiare la sua strategia di lungo termine?
Vanni Pettinà: Come dicevo sopra, la Cina poco prima dell’invasione russa ha firmato con Mosca un patto di cooperazione. È evidente che i due paesi condividono un’agenda che mira a rivedere gli equilibri politico-economici su cui si basa l’ordine internazionale attuale. Il punto è che la Cina ha fatto del commercio e dell’integrazione economica due pilastri chiave della sua strategia di espansione globale. La guerra in Ucraina turba il normale operare dell’economia internazionale e quindi va contro la strategia cinese di usare le dinamiche economiche a suo favore. Ma l’appoggio all’invasione danneggia anche l’immagine di attore pacifico che la Cina ha cercato di costruire in questi anni per rassicurare gli interlocutori con cui commercia e intesse relazioni politico-economiche. La Cina è, rispetto alla Russia, un attore molto più integrato nell’economia globale e, dunque, ogni turbamento dell’ordine economico internazionale ha o può avere nel paese asiatico ripercussioni molto problematiche.
Ecolo’: I media occidentali hanno sottolineato che 135 stati hanno votato a favore della risoluzione di condanna alle Nazioni Unite. Tra i 35 paesi astenuti ci sono Cina, India e Pakistan (3 miliardi di persone). Puoi spiegarci perché India e Pakistan hanno votato assieme alla Cina?
Vanni Pettinà: Direi che sono posizioni dettate da convergenze geopolitiche e dal fatto che vi sono interessi economico-politici importanti. L’India, per esempio, mantiene una relazione di vicinanza politico economica con l’URSS fin dai tempi dell’indipendenza e, inoltre, in tempi recenti ha sviluppato importanti relazioni commerciali soprattutto nel settore degli armamenti.
Grazie del tuo tempo!
La foto di copertina è di Sergey Kozlov/EPA-EFE
di Caterina Arciprete
Lo scorso dicembre, l’Americal Political Science Review, un’importante rivista accademica americana, ha pubblicato un articolo dal titolo “Political legitimacy authoritarianism and climate change”. L’autore sostiene che nelle situazioni di emergenza può esservi un conflitto tra: (i) la capacità dello Stato di proteggere il cittadino ed (ii) il mantenimento dei diritti tipici di una democrazia liberale. In tal senso, le limitazioni imposte per fronteggiare la pandemia da Covid-19 rappresentano un esempio illustrativo. L’autore sostiene, poi, che i cambiamenti climatici rappresentano una minaccia di gran lunga peggiore rispetto alla pandemia in quanto metteranno a rischio la vita non solo dei cittadini di oggi, ma anche delle prossime generazioni. Nel futuro, quindi, la necessità di fronteggiare situazioni di emergenza legate ai cambiamenti climatici potrebbe condurre ad uno scenario in cui l’unico Stato in grado di affrontare la crisi climatica è uno Stato autoritario. L’autore conclude dicendo, che se questo non è auspicabile, è purtuttavia una possibilità da non scartare se la posta in gioco è quella di salvare il mondo e le generazioni future.
La domanda che ci poniamo in questo articolo è quindi la seguente: se la crisi climatica conduce ad una situazione di emergenza permanente, siamo disposti ad accettare uno “stato di eccezione”? Ovvero uno Stato in cui sono sospese alcune garanzie costituzionali al fine di rispettare il principio di giustizia intergenerazionale? Cosa ci sta insegnando la gestione della pandemia a tal riguardo?
Può aiutare ad orientarsi nella discussione un breve aneddoto storico citato da Gianfranco Pellegrino per introdurre il tema dello stato di eccezione.
La Mignonette, una piccola imbarcazione da diporto, partì il 19 maggio del 1884 dalla Gran Bretagna alla volta dell’Australia, su incarico di un magnate australiano che l’aveva acquistata. L’equipaggio contava quattro persone. La nave affondò il 5 luglio e i quattro trovarono riparo su una scialuppa. Chi li trasse in salvo tra il 26 e il 27 di luglio, però, trovò solo tre sopravvissuti, che vennero processati per l’uccisione e il cannibalismo del quarto membro dell’equipaggio. La pena di morte venne subito commutata a sei mesi, per effetto dell’opinione pubblica favorevole agli imputati.
Ovviamente questo racconto non corrisponde alla situazione che stiamo vivendo oggi, ma nella sua efferatezza descrive bene la tensione che può venirsi a creare tra necessità di mantenere i principi democratici e la necessità di proteggere i cittadini. L’aneddoto sembra dire che la giustizia “normale” valga in condizioni normali, non in quelle “eccezionali”. L’eccezionalità, dunque, sembrerebbe giustificare l’adozione di regole “diverse”. L’aneddoto dà, inoltre, lo spunto per analizzare alcuni elementi importanti.
La gestione della pandemia ci permette, poi, di provare ad affrontare un’altra tematica: in emergenza pandemica la popolazione ha accettato alcune misure estremamente forti e restrittive come il confinamento e il divieto di aggregazione. Sarebbe dunque disposta a rinunciare a possibilità che oggi reputa scontate (ad esempio la possibilità di mangiare carne da allevamento intensivo) con l’obiettivo di salvaguardare il pianeta e rispettare il principio di giustizia intergenerazionale?
In questo senso, la crisi climatica ha alcune differenze fondamentali con l’emergenza pandemica:
In conclusione, cosa impariamo dalla gestione dell’emergenza pandemica rispetto alla crisi ambientale?
Che trattare la crisi ambientale in ottica emergenziale potrebbe portare a strette autoritarie, minore trasparenza e fretta decisionale (Amnesty) e che ciò si potrebbe ripercuotere sul livello di coesione sociale di una comunità. Come si fa a costruire un consenso politico intorno a misure impopolari quando l’emergenza è ancora scarsamente percepita ed i risultati delle misure saranno apprezzati in misura prevalente dalle future generazioni?
La pandemia mostra che siamo in grado di affrontare delle misure “impopolari” quando ne capiamo il senso profondo, quando sappiamo che siamo dentro un processo “giusto” capace di distribuire i costi in modo equo. La sfida è rendere desiderabile quello che oggi risulta “impopolare”. Non ci sarà nessuna transizione senza che vi siano gli spazi democratici in cui si possa coltivare un consenso intorno alle grandi trasformazioni necessarie.
Anche per questo, il 5 Febbraio a Firenze, c’è stata l’Assemblea Ecologista promossa da Ecolò insieme ad altre importanti realtà ecologiste italiane.
Ecolo’ ha partecipato con grande soddisfazione all’organizzazione della prima Assemblea Ecologista. Nel corso della giornata si sono susseguiti interventi di tutto il mondo ecologista italiano e europeo. Hanno aperto i lavori Vula Tsetsi, segretaria generale dei parlamentari verdi europei a Bruxelles e Rossella Muroni, parlamentare di Facciamo Eco fra le ispiratrici della giornata. Dopo i saluti di Beppe Sala, sindaco di Milano, si sono avvicendati online e in presenza decine di relatori (48). Portatori di esperienze civiche ecologiste nei territori, amministratori locali, animatori di comunità e di movimenti, parlamentari e persone comuni, da Bari al Sud Tirolo, da Roma a Trieste. Impossibile riassumere quanto è stato detto ma la registrazione completa è disponibile all’indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=-g4pF3wcJ1Q
Alcuni partecipanti hanno rilasciato saluti e dichiarazioni prima e dopo il loro intervento:
https://assembleaecologista.org/contributi.php
I partecipanti sono stati tantissimi. Visti i limiti della sala solo 134 hanno potuto partecipare in presenza mentre poco meno di 200 sono stati gli accreditati per partecipare online che hanno seguito via Zoom i lavori.
Grazie alle donazioni di tanti promotori, dei parlamentari di Facciamo Eco, del gruppo Greens/EFA al parlamento Europeo, di Green Italia, di Ambientalmente Lecco e di Ecolo’, l’assemblea ha potuto chiudere il bilancio in attivo (il dettaglio delle spese e delle entrate è disponibile qui: https://www.assembleaecologista.org/rendicontazione_assemblea_ecologista.pdf )
Nel pomeriggio si è svolta l’assemblea dei promotori e di tutti quelli che essendosi accreditati avevano chiesto di partecipare online. Per decisione unanime l’Assemblea Ecologista ha deciso di non sciogliersi e di proseguire il cammino. Il documento conclusivo uscito dall’assemblea è scaricabile qui: https://assembleaecologista.org/ConclusioniAssemblea_bozza.pdf
Abbiamo lasciato l’assemblea con un grande senso di pienezza e la voglia di continuare a dare un contributo verso una proposta ecologista forte, inclusiva e convincente anche nel nostro paese.
Ecco alcune foto dell’assemblea!
di Giovanni Graziani
Al centro dei temi della transizione ecologica vi è, senza dubbio, quello dell’energia. L’energia è alla base di tutte le attività industriali, sociali, di svago e di utilità, ed è uno dei fondamenti necessari per il mantenimento del benessere della società. Allo stesso tempo l’impatto ambientale legato alla sua produzione, distribuzione e utilizzo è tale da necessitare una drastica revisione del sistema energetico nel suo complesso.
In Italia, l’energia consumata proviene ancora per circa l’80% da fonti fossili e per circa il 20% da fonti rinnovabili. Di questa energia solo il 21% è energia elettrica per gli usi finali (dati 2020).
Quando si parla di energia è inoltre utile spiegare come il sistema sia strutturato nelle varie fasi:
Chiarito,come usiamo l’energia, dobbiamo sottolineare che nella discussione sulla decarbonizzazione del sistema energetico, vari studi e scenari puntano sostanzialmente l’attenzione su due aspetti (più uno):
Questo comporta quindi:
Questo passaggio presenta alcune criticità da superare e su cui migliorare, per lo più relative all’intermittenza e non programmabilità della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili e alla conseguente necessità di gestire le differenze tra produzione e consumo attraverso sistemi di accumulo e stoccaggio, insieme alla gestione intelligente dei carichi.
Tra le varie soluzioni che possono essere d’aiuto in questa sfida vi è senza dubbio l’idrogeno, che può giocare un ruolo rilevante e sul quale l’Unione Europea ha presentato obiettivi molto ambiziosi, pubblicando nella sua strategia per l’idrogeno un target di 40 GW di capacità di elettrolizzatori al 2030, la cui capacità mondiale attuale e di 0,3 GW.
L’Italia stessa ha destinato all’idrogeno, all’interno del PNRR, 3,2 miliardi di euro e vorrebbe raggiungere al 2030 circa 5 GW di capacità elettrolitica, in linea con i piani di Francia e Germania. Vediamo meglio quindi come questo potrebbe avvenire.
Nell’obiettivo di spingere la decarbonizzazione verso una maggior produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, si avrà una produzione di energia elettrica che, in alcuni momenti del giorno o dell’anno, sarà superiore alle necessità della domanda. È qui che può diventare interessante utilizzare tale energia elettrica in eccesso in un elettrolizzatore per la generazione di idrogeno, scomponendo le molecole di acqua, trasformandola quindi in energia chimica che sarà così immagazzinata. Produrre idrogeno può diventare una delle soluzioni più interessanti e praticabili per superare il problema dell’intermittenza delle fonti rinnovabili.
Avremmo così a disposizione un vettore energetico da poter impiegare in diverse applicazioni, grazie alla sua versatilità, in particolare in quei settori per i quali è più difficile immaginare l’elettrificazione: pensiamo al trasporto pesante su terra, all’aviazione, alle grandi navi e alla siderurgia. La ricerca in questi settori è in grande fermento con alcune applicazioni operative interessanti, come il treno a celle combustibile, alimentate a idrogeno, prodotto dalla Alstom, funzionante sulle linee tedesche e in arrivo anche in Italia entro il 2023 (https://www.alstom.com/it/press-releases-news/2020/11/alstom-fornira-i-primi-treni-idrogeno-italia). Nel settore aereo, Airbus sta progettando alcuni velivoli alimentati a idrogeno che potrebbero, stando alle loro dichiarazioni, entrare in commercio nel 2035.
Altrettanto importanti possono essere le applicazioni nella siderurgia, comparto industriale altamente inquinante ma strategico (come spesso le cronache di Taranto ci hanno ricordato). Qui l’idrogeno può essere utilizzato al posto del carbone nella reazione di riduzione degli ossidi ferrosi in ferro metallico.
Al di là delle possibili applicazioni, al giorno d’oggi il problema però è che quasi la totalità dell’idrogeno prodotto a livello mondiale proviene da fonti fossili (idrogeno grigio), attraverso un processo di reforming dal metano (reazione chimica ad alta temperatura tra vapore acqueo e metano che ha come prodotti idrogeno gassoso e ossidi di carbonio) o da carbone. Questo avviene per motivi essenzialmente economici: costa infatti circa 1-2 dollari al kg, rispetto ai 3-7 dollari al kg per l’idrogeno verde prodotto da rinnovabili. La sfida sarà quella di perfezionare la tecnologia e aumentare in modo consistente la grandezza degli elettrolizzatori che, insieme al calo dei costi dell’elettricità da rinnovabile, permetterà di produrre idrogeno verde a prezzi competitivi.
Per completezza di analisi, esiste anche una via intermedia, il cosiddetto idrogeno blu, strada fortemente spinta dall’industria legata ai fossili perché consentirebbe di produrre idrogeno dal metano in modo “relativamente pulito” separando la CO2 e confinandola all’interno dei giacimenti di gas esauriti.
In conclusione, possiamo dire che l’idrogeno può avere un ruolo importante nella transizione del sistema energetico verso la decarbonizzazione, solamente se connesso allo spostamento della produzione di energia elettrica verso le rinnovabili. Tale obiettivo deve essere primario e porterà maggiori benefici in senso assoluto, lasciando all’idrogeno un ruolo chiave nei settori hard-to-abate (“difficili da abbattere”), ma comunque di nicchia rispetto all’elettrificazione diretta.
Per descrivere il ruolo dell’idrogeno nella transizione energetica Giulio Mattioli, esperto in decarbonizzazione dei trasporti e ricercatore dell’Università di Dortmund, usa una metafora:
L’idrogeno è come lo champagne e andrebbe trattato come tale: un prodotto energivoro, adatto e utile solo a settori di nicchia.
Elemento chiave dei progetti finanziati dai fondi europei per la ‘ripresa’ dovrebbe essere la sostenibilità, sia ambientale che sociale. Questo, lo sappiamo bene, è quello che ci chiede l’Unione Europea.
Ma a questo come risponde la Regione Toscana?
Se sarà approvata la proposta di legge attualmente in discussione in Consiglio regionale (PdL 92/2022), per la modifica delle norme regionali sul governo del territorio e sulle valutazioni ambientali (LR 65/2014 e LR 10/2010), promossa da un gruppo di consiglieri del Partito Democratico, l’incredibile risposta sarà quella della cancellazione della necessità di procedere a valutazione ambientale strategica e valutazione di impatto ambientale per le varianti dei piani urbanistici che risultino connesse ai fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Si eliminano inoltre tutte le procedure di partecipazione pubblica.
Si tratta evidentemente di una deregolamentazione delle varianti urbanistiche che si muove nella direzione opposta rispetto alle indicazioni europee e che può arrecare gravi danni al nostro territorio, al nostro ambiente, al nostro paesaggio.
Per Ecoló si tratta di una proposta sconcertante e inaccettabile, in aperto contrasto con le normative nazionali (D.lgs 152/2006 e succ. mod e integr. – Codice dell’Ambiente) ed europee, oltre che regionali vigenti fino ad oggi, in tema di valutazione di impatto.
A livello nazionale già sono state introdotte norme che abbreviano e facilitano il percorso delle opere connesse al PNRR, che possono consentire la realizzazione delle opere entro i tempi necessari. Eliminare la valutazione degli impatti ambientali non vuol dire voler favorire l’applicazione del PNRR, ma vuol dire voler aprire le porte ad una realizzazione di un PNRR privo di strategia e sostenibilità, finalizzato non ad un corretto e virtuoso utilizzo dei fondi per migliorare la nostra società, ma ad un semplice reperimento e distribuzione di fondi scollegati da una visione lungimirante e tali quindi da poter andare a sostenere anche opere potenzialmente dannose per il territorio, l’ambiente tutti noi.
E’ questa la Toscana che vuole il Partito Democratico?
Ecolo’: per prima cosa grazie per la disponibilità a raccontarci cos’è Marea Ecologista! Ti conosciamo bene per la tua attività come verde prima e poi come una delle figure più influenti in Italia sui temi dell’economia circolare. Vuoi raccontarci qualcosa in più di te? Qual è il percorso di vita che ti ha portato a lanciare il progetto Marea Ecologista?
Rossano Ercolini: Non c’è dubbio che il movimento rifiuti zero nella sua articolazione che coinvolge comitati, associazioni, ma anche 330 comuni italiani e numerose imprese innovative rappresenti uno dei pochi esempi vincenti di scenari ambientalisti materializzati in “buone pratiche”. Ma questo risultato per estendersi e divenire irreversibile deve confrontarsi con le problematiche più complessive legate alla “crisi ecologica globale” sempre più drammatica. Per questo qualsiasi movimento che si occupa di tematiche ambientali non può non porsi il problema della “governance” e cioè di come rispondere in termini operativi e progettuali alla sfida della transizione- rivoluzione ecologica. In altri termini è ineludibile da parte della politica porre al centro quale “madre di tutte le questioni” la “questione ambientale”. E poiché le forze politiche tradizionali (ma anche i 5 stelle al di là di meritevoli eccezioni di singoli deputati/senatori) nei fatti dimostrano di “rimuovere” tale centralità occorre porre all’ordine del giorno l’obiettivo di una “costituente ecologista” che rappresenti una sorta di “sbocco al mare” per tutti quei percorsi, piccoli e grandi che dai territori invocano una svolta ecologica;
Siamo ad un BIVIO. Non esiste un PIANO B: o sapremo imboccare la via di una pacificazione con il Pianeta o il nostro modello di “civilizzazione” collasserà innescando una sorta di lunga “agonia” di un sistema che continua a trattare il Pianeta come una specie di supermercato da cui prelevare senza sosta. Non a caso le nuovissime generazioni hanno ben percepito la sfida radicale in atto attraverso il movimento di Greta e dei Fridays for Future. Ovviamente ci sono ancora margini importanti per fornire risposte positive, ma non abbiamo troppo tempo per farlo.
Ecolo’: In questi anni come si è mossa Zero Waste Italia? Quali sono i risultati di cui sei più orgoglioso realizzati a livello locale e nazionale? C’è qualcosa che, invece, tornando indietro faresti diversamente?
RE: Zero Waste è un movimento di successo. Basti pensare che alla sua nascita nel 2003 la raccolta differenziata arrivava al 17% su scala nazionale mentre oggi supera il 63%. Questi risultati che non sono certo tutti ascrivibili al nostro movimento non sarebbero stati nemmeno immaginabili senza il lavoro immane di disseminazione di trasferimento delle conoscenze dal basso svolto da Zero Waste che rappresenta davvero un esempio concreto di “scienza dei cittadini” e di “apprendimento dal basso”. La sconfitta dell’inceneritore di Case Passerini di Sesto Fiorentino rappresenta davvero una pietra miliare di questo percorso. Certo si può fare sempre meglio, ma se mi guardo indietro dico che non solo non abbiamo fatto errori significativi, ma addirittura in certi momenti abbiamo saputo “camminare sull’acqua” connettendo il NO ad inceneritori e discariche con i SI’ a concrete soluzioni di riduzione, riuso riciclo degli scarti;
Ecolo’: L’IPCC, il gruppo di scienziati che lavora per l’ONU sui cambiamenti climatici, ha dato più volte l’allarme lanciando di recente l’ultima chiamata per salvare l’ecosistema globale. Quali pensi che siano le azioni prioritarie che l’Europa e l’Italia dovrebbero compiere?
RE: Certamente la sfida più importante della transizione ecologica è quella di passare da un modello lineare dissipativo ed insostenibile (estrazione, produzione, distribuzione, consumo e smaltimento) ad un modello circolare basato sul rispetto dei cicli e dei tempi di rigenerazione naturali. Anche dal punto di vista geopolitico la sfida è passare da un modello basato sullo sfruttamento degli idrocarburi ad un modello tecnologico avanzatissimo basato sui “nuovi materiali rappresentati dalle terre rare” attualmente concentrate nelle mani della Cina (al 90% della commercializzazione) proprio nell’era che gli analisti chiamano della “raw material scarcity” e cioè della scarsità delle materie prime indotte dalla competizione globale dei colossi dell’economia mondiale (non solo USA ed Europa ma soprattutto Cina, India, Indonesia, Brasile ecc). La sfida anche in termini sociali può essere vinta considerando i “vecchi rifiuti” (pensiamo ai Rifiuti elettrici ed Elettronici) quali “miniere urbane” da cui estrarre preziose materie prime sempre più introvabili in natura;
Ecolo’: Il Governo Draghi ha per la prima volta un ministro per la Transizione Ecologica. Una svolta nella definizione di un ministero che, per essere efficace, non può chiaramente occuparsi solo di ambiente. Pensi che il Governo stia mantenendo le aspettative? C’è qualcosa che si poteva fare o fare meglio?
RE: Il Governo Draghi non si muove in questa direzione. In particolare il Ministro della Transizione Ecologica Cingolani non solo appare inadeguato ed anche estremisticamente aggressivo nei confronti dell’ecologismo ma risulta deliberatamente ostaggio delle lobby del petrolio e della parte più arretrata di Confindustria assumendone spesso le fraseologie e i simboli. Aver rispolverato la “necessità” del nucleare non solo è un’offesa a tutto il popolo italiano che con il referendum ha seppellito quello scenario ma appare “fuori tempo” visto che per esempio la Germania sta smantellando le proprie centrali. Quali priorità? Mettere a sistema l’economia circolare finanziandola non con gli spiccioli del PNRR, ma in modo massiccio con la prospettiva strategica di una riconversione della nostra industria manifatturiera che ha bisogno come il pane di materie prime da estrarre dagli scarti e da sottrarre alle speculazioni in atto sul mercato energetico e delle materie prime;
Ecolo’: Parliamo di Marea Ecologista. Per noi ecologismo non significa solo de-carbonizzare il sistema produttivo o ridurre i rifiuti, crediamo che ecologia voglia dire anche valorizzazione delle diversità e quindi protezione dei più deboli. Sei d’accordo?
RE: Dal punto di vista strategico (vedi il mio ultimo libro IL BIVIO edito da Baldini e Castoldi) la contraddizione principale in atto è rappresentata dai modelli di civilizzazione umani basati su prelievi senza limiti e i cicli naturali dai quali è dato prelevare rispettandone però i tempi di rigenerazione. Quindi si potrebbe dire che la contraddizione principale di questo passaggio storico è tra UOMO E NATURA. Questo non significa che all’interno di questa contraddizione principale non ne risiedano altre a partire da quella “sociale”. Temi come il riscaldamento globale o della desertificazione dei suoli non solo muovono dalla contraddizione principale di cui prima, ma innescano anche migrazioni bibliche legate all’impoverimento di masse crescenti di popolazione. Con la pandemia (che l’ONU dichiara essere l’effetto dei livelli di coartazione della biodiversità) questo processo si è addirittura accelerato. Difesa dell’ambiente e lotta per la giustizia sociale sono inscindibili;
Ecolo’: Il 27 novembre vi siete trovati a Firenze, presto vi incontrerete a Milano, cosa ci dobbiamo aspettare da Marea Ecologista?
RE: Dopo il riuscito incontro del 27 novembre appare sempre più urgente costruire uno spazio aperto in cui far convergere tutte le energie ecologiste senza settarismo ma con instancabile spirito inclusivo. Non si tratta di affermare in modo surrettizio “paternità” e merito, ma semmai fornire “dispositivi” dove questo processo possa avvenire soprattutto dal basso. Ecco il senso della proposta avanzata da Zero waste di una Costituente Ecologista dove ogni soggetto piccolo o grande possa avere piena “cittadinanza” e valorizzazione. Sono sicuro che anche la imminente assemblea di Facciamo Eco (www.assembleaecologista.org n.d.r.) andrà in questa direzione. Ne attendiamo i risultati per sviluppare insieme a tutti i partecipanti gli sviluppi.
Ecolo’: Anche noi siamo convinti che in Italia manchi una rappresentanza adeguata della visione ecologista nel panorama politico. Il grande tema che vediamo per i prossimi mesi è come sia possibile mettere attorno a un tavolo tutto l’ecologismo politico per costruire una lista in grado di rappresentare gli ecologisti in parlamento. Avete in mente una road map? Chi sono i soggetti con cui immaginate di avviare un confronto?
RE: In questo senso la Road Map immaginata attraverso la proposta di Costituente Ecologista come già detto si intreccia con quanto avverrà anche dal lavoro di tanti altri soggetti locali e nazionali. Guai a chiudere! Il “gioco comunicativo” deve prevedere orizzonti apertissimi ed inclusivi. Ovviamente basati su progetti e proposte programmatiche condivise. Zero Waste chiede a tutti i soggetti in gioco di assumere in modo ufficiale la strategia rifiuti zero. Rifiuti Zero, dal canto suo si impegna a portare i propri contributi anche su altri aspetti della “questione ambientale” che come sappiamo non può essere ridotta a somma seriale di “questioni settoriali” (approccio sistemico);
Ecolo’: Conosci, come noi, aspetti non edificanti della storia dell’ecologismo politico in Italia. Noi abbiamo spesso avuto l’impressione che all’interno della Federazione dei Verdi mancasse una massa critica di persone tale da rendere possibile una dialettica interna e un ricambio di dirigenza. Vedi anche tu questo problema? Pensi che sia una caratteristica inevitabile dei piccoli partiti? Hai in mente dei meccanismi in grado di disinnescare questi circoli viziosi?
RE: I Verdi italiani, soprattutto nella seconda parte degli anni ’90 si sono trasformati da realtà in “movimento” con buone capacità di rigenerazione in “ceto cristallizzato” e giocato in funzione delle mire di visibilità e di carriera di singole personalità. Ciò ha portato per esempio gli assessori regionali verdi (vedi la Toscana) a sostenere la fallimentare politica della “termovalorizzazione” poi sconfitta dal movimento Rifiuti Zero. Per evitare questa degenerazione occorre curare i sistemi di trasparenza e di selezione soprattutto dei gruppi dirigenti e delle candidature. Occorre innanzitutto legare questi alle capacità dimostrate, agli obiettivi e alle vittorie raggiunte, ai livelli di effettiva promozione di cittadinanza attiva innescati. Non è tollerabile che l’ecologismo da necessità politica divenga una sorta di autobus su cui far salire improvvisazione, carrierismo, sete di potere. Anche la formazione diviene parte prioritaria di questo approccio teso ad “estrarre” il meglio dai soggetti sociali disponibili ed interessati alla Rivoluzione Ecologica;
Ecolo’: Noi consideriamo che un partito ecologista italiano debba nascere necessariamente all’interno della cornice del Partito Verde Europeo. Tu sei in contatto con i Verdi Europei? Come vedono la vostra iniziativa?
RE: In realtà i miei contatti con il partito Verde europeo si riducono a momenti sporadici di confronto e sono mediati per esempio dalla collaborazione con la parlamentare Eleonora Evi con la quale Zero Waste si è spesso positivamente rapportata sui temi del PNRR e del principio “Non arrecare pericoli significativi all’Economia Circolare”. Sono stato poi invitato due volte a far parte di forum dai livelli europei del Partito Verde che mi sembra stia seguendo con attenzione ciò che sta avvenendo in Italia probabilmente per evitare gli errori del passato che vedono in Italia percentuali molto basse per il soggetto politico ecologista a differenza di ciò che mediamente avviene nell’Europa continentale.
Per quanto mi riguarda ritengo che anche proprio dal punto di vista di Zero Waste il confronto positivo con una forza che è al governo per esempio in Germania sia un fatto stimolante che debba spingere tutti a muoversi nel solco di una collaborazione che connetta i livelli locali con quelli globali europei e comunque fuori da schemi autoreferenziali e localistici.
Ecolo’: Nel ringraziarti per la tua attenzione cogliamo l’occasione per invitarti il 5 Febbraio a Firenze per la nostra Assemblea Ecologista, un tentativo molto simile al vostro che parla al mondo delle associazioni e delle liste civiche ma con cui forse vi farà piacere confrontarvi alla ricerca di una sintesi.
di Irene Fattacciu
Da anni la narrazione delle migrazioni verso la Fortezza Europa si muove tra la retorica della sicurezza e dell’invasione da una parte, e quella dell’emergenza umanitaria dall’altra. Il cambiamento climatico è la crisi che caratterizza questa fase storica, e se oggi solo lo 0,8% delle terre emerse presenta temperature così elevate da essere considerato inabitabile, nel 2070 questa percentuale potrebbe salire fino al 19%. I fenomeni migratori per cause ambientali sono già una realtà e si stima che entro il 2050 coinvolgeranno centinaia di milioni di persone. In capo a trent’anni, insomma, una persona su quarantacinque nel mondo potrebbe essere un “migrante ambientale”.
Ma chi sono i migranti ambientali? L’International Organisation for Migration li descrive come coloro che “a causa di improvvisi o graduali cambiamenti nell’ambiente che influenzano negativamente le loro condizioni di vita, sono obbligati a lasciare le proprie case, o scelgono di farlo, temporaneamente o permanentemente, e che si muovono all’interno del proprio paese o oltrepassando i confini nazionali”. La definizione ruota intorno a due elementi chiave, la volontarietà e la geografia della migrazione. Le situazioni dove la decisione o la necessità di spostarsi sono riconducibili a cause ambientali sono varie, pertanto si distingue fra migrazioni temporanee causate da disastri naturali o provocati dall’uomo (environmental emergency migrants), e definitive a seguito del deterioramento delle condizioni ambientali (environmental forced migrants). Infine, una terza causa è data dalla scelta di migrare in risposta a problemi ambientali che non permettono più di sostentarsi attraverso le risorse disponibili (environmentally-driven migrants).
Un altro termine coniato già negli anni Settanta e che spesso viene utilizzato dai media e nei dibattiti è “rifugiato ambientale”, dove la scelta terminologica ha il preciso intento di richiamare una serie di diritti che hanno a che fare con quello di asilo. Dal punto di vista del diritto internazionale non ne esiste una definizione consolidata, e la Convezione di Ginevra sui rifugiati non include, tra le situazioni che determinano lo status di rifugiato, riferimenti riconducibili a condizioni ambientali. Neanche le migrazioni ambientali forzate trovano ancora un adeguato riconoscimento giuridico nella legge internazionale e nei singoli ordinamenti statuali, anche a causa delle titubanze dei Governi. Il riconoscimento di un rapporto univoco tra trasformazioni ambientali, catastrofi naturali e rifugiati ambientali obbligherebbe infatti ad accoglierli all’interno dei territori nazionali. Nonostante ciò, le cose stanno iniziando a cambiare. La Commissione europea ha iniziato affrontando il tema nel Green Deal, e anche l’Italia nei decreti sicurezza approvati il 18 dicembre 2020 ha appena ridisegnato il permesso di soggiorno per calamità naturale: il diritto alla protezione umanitaria verrà concesso non solo per calamità “eccezionale e contingente”, bensì anche per una grave situazione dal punto di vista ambientale nel paese d’origine.
Aldilà del riconoscimento giuridico, è importante però tentare di guardare alle migrazioni ambientali come fenomeno complesso, all’origine delle quali c’è una molteplicità di cause. Il cambiamento climatico ha effetti diretti e indiretti, ma l’inquinamento, la degradazione delle terre, il sovrasfruttamento delle risorse naturali, la deforestazione e la perdita degli habitat interagiscono con molti altri aspetti sociali ed economici. Si tratta insomma di un “moltiplicatore di minacce” che amplifica le vulnerabilità preesistenti – individui, comunità o paesi già fragili dal punto di vista dello sviluppo economico, sociale e politico-istituzionale. In questa situazione non è sempre possibile distinguere gli effetti delle crisi ambientali da quelli delle crisi economiche, sociali o dai conflitti che costringono milioni di persone ad abbandonare le proprie case.
L’interazione tra cambiamento climatico e conflitti sociali è evidente, per esempio, nella regione del Sahel, da cui arriva quasi il 38% dei migranti giunti via mare in Italia negli ultimi quattro anni. L’area sta sperimentando un significativo aumento della popolazione, ma a causa della desertificazione la produttività del suolo è crollata e il sistema agricolo è entrato in crisi. Anche i flussi migratori provenienti da Bangladesh, Costa d’Avorio, Guinea e Pakistan – tra i paesi più colpiti dalle conseguenze del cambiamento climatico – sono notevolmente aumentati negli ultimi anni e rappresentano un ulteriore 30% dei migranti che giungono in Italia.
Questo è un classico esempio che viene citato per farci vedere che le migrazioni ambientali sono qualcosa che ci riguarda. Ed è vero, ci riguardano, ma non soltanto perché determinano e interagiscono con le rotte migratorie internazionali. Concentrati sul nostro ombelico e impegnati a guardare da lontano questa gigantesca marea che cresce, perdiamo di vista la fisionomia di tali movimenti. Ma si sa, il diavolo è nei dettagli, e così ci sfugge il fatto che nel futuro parlare di migrazioni ambientali non sarà più una questione di disperati e fragili che si mettono in cammino o sui barconi tentando di arrivare a casa nostra. Degli oltre ottantadue milioni di persone che nel mondo sono state costrette a fuggire e lasciare le proprie case nel 2021, 40,5 milioni sono sfollati interni, ossia si sono mossi all’interno dei confini nazionali. Di questi, 9 milioni sono fuggiti da conflitti e violenze e ben 30.7 milioni sono stati costretti a scappare per via dei disastri naturali.
Le migrazioni interne partono da aree con minore disponibilità idrica e produttività delle colture, oppure da zone che saranno colpite dall’innalzamento del livello del mare e altre calamità, per finire verso aree urbane e peri-urbane. A livello globale le aree più colpite nei prossimi decenni saranno l’Africa subsahariana, l’Asia meridionale e l’America Latina, ma in Europa sarà la fascia mediterranea. In Europa è infatti a rischio desertificazione l’8% del territorio, ma la percentuale sale fino al 20% per l’Italia. Il cambiamento climatico insomma è già in atto, e da una parte i suoi effetti colpiscono maggiormente le comunità più vulnerabili, dall’altra peggiorano situazioni di povertà e ingiustizia sociale. Una situazione ancor più grave quando queste persone si trovano a vivere in paesi meno sviluppati, ma che riguarda tutti. Grandi processi migratori avranno luogo a tutte le latitudini, e in ogni territorio ci saranno zone inabitabili.
Si tratta di prepararsi a gestire questi cambiamenti, non solo attraverso la mitigazione attesa dagli accordi e dagli impegni sul taglio delle emissioni, bensì anche attraverso interventi adattivi. Ci sono stati progressi significativi nello sviluppo di politiche nazionali e regionali sulle migrazioni legate all’ambiente, ma c’è ancora molto da fare. A tutti i livelli è evidente come un cambiamento sistemico sia l’unica strada percorribile. Per quanto riguarda i paesi del Sud globale, è necessario superare l’impostazione delle iniziative messe in campo finora da Banca mondiale e UE con il coinvolgimento del settore privato, in quanto rappresentano una continuazione di politiche agrarie neoliberiste che riescono a mantenere in funzione il sistema di commercio e approvvigionamento internazionale, ma che in ultima istanza finiscono – a causa della dipendenza da crediti, tecnologia e assistenza – per espellere altre persone dalle zone rurali.
A livello interno, i flussi verso le aree urbane rappresentano un ulteriore punto nevralgico per elaborare un piano d’azione, mitigazione e adattamento. La rapida e incontrollata crescita delle città non solo aumenta il rischio di ulteriori disastri e dislocazioni, ma creerà un esercito – di oltre due miliardi di persone entro il 2030, il 40% dei residenti urbani – in condizioni di vita estremamente precarie nelle megalopoli dei Paesi più poveri del Pianeta, una vera e propria bomba sociale. Servono interventi di carattere sia infrastrutturale che socio-economico, che guardino alla pianificazione territoriale anche delle aree di destinazione, agendo attraverso misure di protezione sociale e favorendo la diversificazione dei mezzi di sostentamento, al fine di aiutare le persone ad adattarsi alle trasformazioni che investono il luogo dove si trovano o in alternativa a muoversi in sicurezza e dignità.
Tutti gli ecologisti italiani hanno un obiettivo comune: essere rappresentati nel prossimo parlamento da un drappello nutrito di ecologisti preparati e determinati a costringere il governo che verrà ad avviare una seria ed equa transizione ecologica.
Chiunque voglia provare a contribuire a raggiungere questo obiettivo deve tenere in considerazione quattro questioni fondamentali:
1) Un partito verde in Italia c’è, anzi ce ne sono due visto che in Sud Tirolo i Grüne – Verdi – Vërc godono di ottima salute. Europa Verde-Verdi rappresenta una tradizione politica ecologista importante, ma occorre riconoscere che non è mai riuscito a superare la soglia dell’irrilevanza politica nell’ultimo decennio. Malgrado la domanda di ecologia in politica sia enormemente cresciuta negli ultimi anni, spingendo a ottimi risultati i partiti verdi in buona parte d’Europa, i verdi italiani non sono riusciti a convincere gli elettori. Ma il dato più significativo è che i verdi sono assenti dalle istituzioni sul nostro territorio, come mostra la mappa in fondo all’articolo riferita alle amministrative 2017-21, negli ultimi cinque anni sono riusciti a presentarsi alle elezioni solo in pochi casi e raramente a superare la soglia del 3%.
2) Al cammino difficile della Federazione dei Verdi, corrisponde una sostanziale diaspora degli ecologisti. Buona parte degli ecologisti italiani o non ha mai fatto parte della Federazione dei Verdi o se n’è allontanata. Centinaia di liste ambientaliste ed ecologiste costellano il tessuto politico italiano, una miriade di nodi sconnessi che non hanno una rappresentanza a livello nazionale. L’associazione Ecolo’ è un esempio di questa diaspora essendo nata due anni fa da uno dei tanti commissariamenti che hanno caratterizzato la storia dei verdi dell’ultimo decennio. Gli ecologisti ci sono, ma sono dispersi. Purtroppo, malgrado le numerose dichiarazioni di intenti, la Federazione dei Verdi non ha mai voluto (o non è in grado) realmente avviare un processo di allargamento e inclusione in grado di unificarli.
3) Non solo gli ecologisti ci sono nelle liste civiche, nei comitati e nelle associazioni, ma la bella scoperta del 2020 è stata che ci sono anche deputati che, seppure non eletti in un partito verde, sono determinati a rappresentare la visione ecologista in parlamento. Facciamo Eco è stato uno strumento di rappresentanza per tanti di noi dentro il parlamento ed è stato un pungolo importante al governo Draghi in questi mesi. Cinque deputati che hanno seguito la linea di un appoggio critico all’esecutivo, critica che è culminata con l’annuncio della sfiducia al ministro Cingolani da parte di Rossella Muroni durante la discussione della legge di bilancio.
4) C’è un’altra bella novità: qualcosa si è messo in moto! Si moltiplicano in questi mesi le assemblee, i forum, gli incontri che hanno l’obiettivo di dare futuro politico alla visione ecologista anche in Italia. Alleanza per la Transizione Ecologica, fra i cui fondatori spicca il nome di Edo Ronchi, ha mosso i primi passi lo scorso Dicembre, Rossano Ercolini e Zero Waste Italia hanno lanciato un appello all’unità degli ecologisti, realtà nazionali come Italia in Comune, Green Italia e l’associazione Laudato Si’, insieme a tante realtà politiche territoriali, si sono mostrate interessate a un processo di rappresentanza politica della visione ecologista. Una parte degli eletti 5Stelle al Parlamento Europeo ha aderito al partito degli European Greens.
Questa la situazione. Come si mettono insieme tutti questi pezzi per raggiungere l’obiettivo? Aderendo all’organizzazione di Assemblea Ecologista a Firenze il 5 Febbraio abbiamo fatto una scommessa.
Crediamo che l’elemento che manca oggi sia un coordinamento orizzontale che favorisca la collaborazione di tutti gli ecologisti: verdi storici, amministratori locali, liste civiche, parlamentari, associazioni e ecologisti dispersi.
A questo processo sono invitati tutti coloro che si riconoscono nel manifesto dei Verdi Europei – che saranno presenti all’incontro del 5 febbraio con Vula Tsetsi, segretaria generale dei deputati al parlamento Europeo – e nell’obiettivo di costruire una lista unitaria degli ecologisti per le prossime elezioni parlamentari.
Siamo convinti che non dobbiamo avere la pretesa di federare gli ecologisti italiani in un soggetto unico. Vogliamo molto più modestamente coordinarli attorno a un obiettivo di medio termine fondamentale: avere rappresentanti credibili della nostra visione nel prossimo parlamento.
Chiamiamolo coordinamento ecologista, chiamiamola confederazione verde, non importa il nome, ma importa che ci proviamo. Abbiamo di fronte una sfida da cui dipende il futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti, non è più il tempo del tatticismo politico, è il tempo di rimboccarsi le maniche.
La mappa rappresenta dati ottenuti consultando corriere.it e repubblica.it disponibili qui Eventuali imprecisioni sono da imputare a noi.
di Guido Scoccianti
L’agricoltura si è trasformata con l’evoluzione della società umana e questa ha potuto evolversi – in buona parte – grazie alle innovazioni nelle attività agricole. E’ evidente quindi come oggi, di fronte ad un mondo per molti aspetti nuovo, sia dal punto di vista sociale che ambientale, non possiamo pensare che l’agricoltura possa continuare ad essere gestita, in modo efficace ed adatto alle nuove necessità, senza modifiche sostanziali.
L’agricoltura è, in primis, ‘cibo’ che giunge tutti i giorni sulle nostre tavole ed è quindi elemento fondamentale di sussistenza e di equità.
Inoltre è evidentemente ‘salute’, perché da cosa mangiamo possono derivare importanti effetti positivi o negativi sul nostro benessere, sulla nostra vita.
Ma l’agricoltura è anche ‘clima’. Le emissioni dovute all’agricoltura, in particolare quelle collegate agli allevamenti di bestiame e all’uso di fertilizzanti, costituiscono il 10% delle emissioni europee di gas climalteranti. A questa quota andrebbero però aggiunte le emissioni dovute alla produzione dei mangimi importati da paesi extraeuropei per i nostri allevamenti, nonché il consumo di suoli capaci di immagazzinare CO2 – come le torbiere – , così come i consumi di energia diretti ed indiretti. Il fattore di gran lunga più importante (circa il 70% del totale) è dato dagli allevamenti animali a causa del processo di fermentazione a livello dell’apparato digerente degli animali stessi e a livello dei liquami derivati, sia che siano essi stoccati ovvero depositati sui suoli agricoli. Inoltre l’agricoltura, oltre ad essere uno degli ambiti di maggior impatto sul clima, è allo stesso tempo uno dei settori più esposti ai danni causati dai cambiamenti climatici.
Inoltre l’agricoltura è ‘biodiversità’. A causa del suo ruolo nel degrado e consumo di suolo, nella semplificazione degli ecosistemi, nella dispersione di sostanze tossiche, nel consumo di acqua, ed a seguito della sua azione, nel complesso, di ‘competizione’ per le risorse rispetto alle forme di vita vegetali ed animali selvatiche, l’agricoltura costituisce il primo fattore quanto ad impatto sulla diversità biologica in Europa (European Environment Agency – State of nature in the EU, 2020). Dalla conservazione della biodiversità in realtà l’agricoltura avrebbe non da perdere ma molto da guadagnare. Si pensi in tal senso alla possibilità di attingere a quella ricchezza genetica, oggi sempre più affievolentesi, che ci può fornire nuove risorse capaci di affrontare in modo più efficace future mutate situazioni ambientali, malattie ed altre situazioni di difficoltà. Ed un altro chiaro esempio di quanto la biodiversità non è antagonista ma sinergica con l’agricoltura è dato dall’attuale crisi degli insetti impollinatori, che, se non controvertita, rischia di mettere in ginocchio gran parte della nostra produzione agricola.
E, certamente, l’agricoltura è ‘economia’. E questo non solo per quanto riguarda tutta la catena produttiva e distributiva del cibo e connesse attività, con conseguente enorme indotto sia a livello di cifre complessive che di posti di lavoro, ma anche per quanto riguarda la destinazione dei fondi pubblici. Basti pensare che la PAC (Politica Agricola Comune) rappresenta oltre un terzo dell’intero budget dell’Unione Europea (oltre 400 miliardi di euro).
Tenendo tutto questo in considerazione, quello di cui abbiamo oggi bisogno è un’agricoltura sempre più sostenibile dal punto di vista ambientale, di minor impatto sul clima, più amica della biodiversità, più equa dal punto di vista sociale.
La Commissione Europea nel 2020 ha varato una nuova Strategia europea sull’agricoltura per il 2030, la Farm to Fork, che contiene importanti indicazioni in questo senso con una serie di obiettivi volti ad assicurare una migliore qualità della nostra produzione agricola insieme ad una sua maggiore sostenibilità ambientale. Si va da un aumento ad almeno il 25% del territorio agricolo gestito secondo i canoni dell’agricoltura biologica, alla destinazione del 10% delle superfici al mantenimento di ‘infrastrutture verdi’ ed elementi caratteristici del paesaggio agricolo tradizionale (in correlazione con la Strategia europea per la Biodiversità), dalla riduzione del 50% dell’utilizzo dei pesticidi ad una diminuzione dell’uso degli antibiotici negli allevamenti, dallo sviluppo della bioeconomia circolare in ambito agricolo all’utilizzo di fonti rinnovabili, dalla difesa del suolo e la riduzione di almeno il 20% nell’uso dei fertilizzanti entro il 2030 ad una serie di azioni volte a modificare la dieta dei cittadini europei verso una diminuzione dell’uso della carne ed uno spostamento verso prodotti ecosostenibili.
Si tratta di obiettivi importanti, anche se su alcuni aspetti si sarebbe dovuto osare di più, come sulla riduzione dei pesticidi o anche sul ridimensionamento del settore zootecnico che, come si è detto, ha un enorme impatto sul clima e attualmente ha dimensioni senza dubbio non sostenibili, con il 68% della superficie agricola destinato alla produzione animale (dati Eurostat 2019).
Tuttavia, la nuova Politica Agricola Comune recentemente approvata dal Parlamento Europeo ha, in parte, già tradito le indicazioni, contenute nella Strategia mantenendo un quadro che sostanzialmente permette la conservazione della situazione in essere, annacquando gli obiettivi e continuando a sostenere l’agricoltura e la zootecnia agroindustriale piuttosto che spostare l’ago della bilancia verso la produzione ecosostenibile e di qualità (sia dal punto di vista alimentare che ambientale e climatico).
A questo punto la partita, fondamentale per il nostro futuro, è passata nelle mani degli Stati membri, che devono elaborare i Piani Strategici Nazionali e con essi gli Eco-schemi, che dovrebbero guidare le future politiche agricole e, cosa di non poca importanza, la destinazione dei fondi, evidentemente cruciale se si vuole spostare l’equilibrio da pratiche che danneggiano l’ambiente a pratiche agricole virtuose sia dal punto di vista ambientale che degli equilibri socioeconomici delle zone rurali.
Purtroppo, dai primi segnali, gli Stati membri, piuttosto che recuperare ciò che la PAC aveva dimenticato della Strategia, stanno confermando il mantenimento della ‘vecchia’ agricoltura. Un dossier curato da WWF, European Environment Bureau e BirdLife International, pubblicato nel novembre 2021, evidenzia come, dall’analisi delle bozze (ancora preliminari) dei Piani Strategici Nazionali di 21 Stati europei, solo il 19% degli eco-schemi proposti ha una probabilità di raggiungere gli obiettivi ambientali dichiarati, il 40% per poter essere efficaci necessiterebbe di modifiche sostanziali, il 41% risulta completamente disallineato rispetto agli obiettivi di tutela dell’ambiente e contrasto ai cambiamenti climatici.
In questa direzione sembra purtroppo muoversi anche l’Italia, a giudicare da quanto al momento proposto, e, se non verranno apportate sostanziali modifiche alla bozza di Piano attuale. Il risultato sarà un falso green-washing e non una vera innovazione della nostra agricoltura.
Una ampissima coalizione di Associazioni, lanciata inizialmente da Associazione Medici per l’Ambiente, AIAB, Associazione Agricoltura Biodinamica, FAI, Federbio, Legambiente, LIPU, Pronatura e WWF, ma oggi allargatasi a ben 89 soggetti associativi, ha lanciato un manifesto con proposte e indicazioni perché il Piano Strategico Nazionale italiano possa davvero andare nella direzione di un’agricoltura sostenibile sia da un punto di vista ambientale che sociale, attenta al clima, capace di sostenere l’agricoltura sociale e le comunità rurali. Il manifesto è scaricabile, insieme a molta altra documentazione utile, sul sito della coalizione (https://www.cambiamoagricoltura.it).
Proposte come queste saranno ascoltate?
Vorrà il Governo Italiano creare le basi per una agricoltura nuova, biodiversa e sociodiversa, oppure tutto continuerà immutato all’insegna del ‘business as usual’?