Transizione ecologica, accordi di Pargi, Green New Deal, tagli delle emissioni e neutralità carbonica: è difficile districarsi in temi che sembrano riservati agli “addetti ai lavori”, ma che in realtà ci riguardano da molto vicino. Per questo abbiamo pensato che l’estate potrebbe essere un buon momento per “rimetterci in pari” ed abbiamo chiesto ad alcuni ecologisti esperti di consigliarci i libri da mettere in valigia per conoscere meglio le problematiche più urgenti che il nostro Pianeta sta affrontando, così come le possibili risposte da adottare per proteggerlo ed assicurarci un futuro migliore di quello che purtroppo va delineandosi. Ecologia vuol dir anche valorizzare le diversità. E’ stato bello scoprire che nessuno dei sei esperti intervistati ha consigliato lo stesso libro… Buona lettura!
Giovanni Graziani, ingegnere ambientale, consulente in tema di servizi ambientali e di sostenibilità per le imprese, energie rinnovabili ed efficienza energetica, membro dell’Ufficio di Presidenza di Green Italia. Ecco i suo consigli:
Silvia Pettinicchio, esperta di marketing e docente all’università, già co-portavoce nazionale di Europa Verde ci consiglia:
Elisa Meloni, ecologista e attivista di Volt Italia, dipendente dell’Università di Firenze si occupa di progetti di ricerca finanziati dall’Unione Europea in tema di ambiente:
Andres Lasso, biologo, giardiniere, già candidato sindaco a Firenze per la Federazione dei Verdi:
Infine Gaia Pedrolli, fisica, insegnante, autrice di libri di cucina ed attivista di Extinction Rebellion ed EcoLobby ci consiglia tre libri:
Foto di copertina: Christine Vaufrey
Un anno e mezzo fa abbiamo intervistato Jouni Kantola, giornalista fiorentino-finlandese, riguardo all’elezione di Sanna Marin. Oggi, dopo due anni di governo e in concomitanza con la svolta storica della richiesta di ingresso della Finlandia nella NATO, l’abbiamo ricontattato per chiedergli della svolta nella politica di difesa della Finlandia.
ECOLO’: Per prima cosa, come giudichi questi quasi due anni e mezzo di governo della premier finlandese?
E’ difficile giudicare l’operato della premier finlandese e paragonare il lavoro del suo governo a quello dei governi precedenti a causa della pandemia: Marin ha iniziato il suo mandato come primo ministro pochi mesi prima del primo lockdown. Di conseguenza la quasi totalità del suo tempo come primo ministro è stata dedicata all’emergenza sanitaria. C’è poco di “normale” in questo e di paragonabile al lavoro dei suoi predecessori. Detto ciò, Marin ha dimostrato una leadership forte e ha guadagnato un buon consenso fra i cittadini. La disoccupazione è ai minimi storici e l’interesse internazionale nei confronti della Finlandia è tendenzialmente alto, paradossalmente anche grazie alla sua indiscutibilmente bella presenza.
ECOLO’: Parlando del motivo fondamentale di questa seconda intervista, come pensi che stia gestendo l’evoluzione del posizionamento del tuo paese nel panorama geopolitico attuale?
A mio parere la sta gestendo bene. In Finlandia nella politica estera il presidente della repubblica ha un ruolo importante e Marin ha gestito il cambiamento del nostro posizionamento geopolitico insieme con il presidente Niinistö e con il parlamento. E’ curioso che questo modello di gestione degli affari esteri abbia molto a che vedere con “finlandizzazione”, cioè la condizione di neutralità del paese necessaria per mantenere l’indipendenza nei confronti della Russia. Il garante dei nostri rapporti con la Russia dopo la seconda guerra mondiale è stato tradizionalmente il presidente della repubblica, una specie di “uomo approvato” da parte della Russia.
ECOLO’: Non pensi che invece che rafforzare la NATO sarebbe preferibile una forza di difesa europea, scelta che consentirebbe anche di ridurre invece che aumentare le spese militari nel continente?
No, non lo penso. La guerra d’invasione da parte dei russi in Ucraina ha rimosso ogni dubbio riguardo a cosa sia capace la Russia e, dall’altro lato, quale è il destino di un paese che non fa parte dell’alleanza NATO. Rimane solo. Noi finlandesi abbiamo già combattuto contro la Russia da soli nella seconda guerra mondiale e sinceramente se dovesse capitare di affrontare nuovamente la Russia in guerra non mi dispiacerebbe trovare qualche italiano, spagnolo, norvegese, inglese, danese etc accanto ad aiutarci. La NATO è la risposta concreta e credibile che esiste già. Sono a favore di rafforzare una difesa europea in linea con il peso economico dell’UE, però oggi, con Putin che si muove in questo modo, abbiamo bisogno di più garanzie immediate.
ECOLO’: Cosa ti aspetti che succederà ora in Finlandia, sul suo confine est e nella NATO?
Spero niente. L’obiettivo della Finlandia con l’ingresso nella NATO è il mantenimento dello status quo o il limitare al massimo possibili evoluzioni. Vogliamo mantenere la nostra democrazia, istituzioni e cultura e vediamo nella NATO il garante di questo. Non temiamo l’invasione da parte degli svedesi, tedeschi oppure americani, con cui condividiamo anche un patrimonio di valori comuni, istituzioni e idee. La nostra unica minaccia è la Russia. I russi possono essere dei grandi bugiardi, come abbiamo visto, e si ragiona male con uno Zar lanciato verso l’invasione. Ma i russi capiscono la forza: c’è un proverbio russo che si traduce “Prova con la baionetta. Se fosse morbido, spingi, se invece fosse duro, girati e vai via”. Ci tengo a dire che mia nonna dovette lasciare la sua bellissima casa di legno sulla riva del lago Laatokka in Carelia dopo la seconda guerra mondiale insieme a oltre 400.000 altri finlandesi. Dietro alle sue spalle, i russi si accomodarono in casa sua. Abbiamo una memoria. Possono passare tanti anni di pace, ma prima o poi partono all’attacco. Finché non fanno i conti con il loro passato e finché non osano chiedere la democrazia, giustizia, diritti civili e la verità, non ci possiamo fidare. Occorre prendere delle precauzioni.
Presi dall’entusiasmo per l’elezione di Sanna Marin in Finlandia abbiamo intervistato Jouni Kantola, giornalista fiorentino-finlandese e co-amministratore di Berta Film, un’azienda produttrice e distributrice di film documentari e fiction.
ECOLO’ : In Italia ci facciamo spesso prendere da ubriacature di entusiasmo esterofilo, Zapatero, Hollande, Tsipras, che effetto ti fa vedere oggi tanto entusiasmo sulla stampa italiana riguardo alla nuova premier del tuo paese?
Jouni Kantola: L’entusiasmo riguardo al governo finlandese, una coalizione dove i cinque partiti della maggioranza sono tutti guidati da donne, quattro delle quali sotto i 35 anni di età, è stato un entusiasmo mondiale, penso che l’Italia non potesse mancare all’appello. È importante però capire e riconoscere che non si tratta di una messinscena populista: la parità di genere in Finlandia viene da lontano. Nel 1906, la Finlandia fu il secondo paese nel mondo dopo l’Australia a introdurre il suffragio alle donne. La generazione detta ‘millenials’, di cui fanno parte le quattro donne che attualmente guidano i partiti del governo finlandese, è cresciuta con la Presidente Tarja Halonen, che fu la prima donna a ricoprire questa carica dal 2000 al 2012. La parità di genere in Finlandia è nei fatti. C’è un consenso diffuso in Finlandia sul fatto che che Sanna Marin e le sue colleghe ministre occupino le loro cariche politiche non perché sono donne, ma perché sono le persone più qualificate che la nazione ha a disposizione al momento.
ECOLO’ : Vuoi raccontarci qualcosa di Sanna Marin? Come è arrivata così giovane a fare la premier?
Sanna Marin è qualificata, tosta e intelligente. Ha una laurea in scienze dell’amministrazione e ha militato nei giovani del Partito Socialdemocratico Finlandese. Nel 2012 è stata eletta nel Consiglio comunale di Tampere, la terza città Finlandese. Come presidentessa del Consiglio comunale di Tampere dimostra le sue capacità di dirigere gruppi politici, talvolta molto discordanti, arrivando a risultati concreti e comprensibili per i cittadini. Alcune di queste sedute del Consiglio comunale, trasmesse live via internet, diventano virali e aumentano la sua visibilità nazionale. Membro del parlamento finlandese dal 2015 e ministro dei trasporti e delle telecomunicazioni della Finlandia dal 2019, aveva già ricoperto il ruolo di primo ministro durante la malattia del ex-presidente Antti Rinne. Nella vita privata è sposata con un figlio; è cresciuta come figlia di una coppia gay, ovvero due mamme. Nella sua infanzia ha subito una povertà insolita nel contesto finlandese e di conseguenza ha una particolare attenzione riguardo a questioni di povertà. Sulla mappa politica destra-sinistra, Sanna Martin è sulla sinistra anche all’interno del suo stesso partito dei Socialdemocratici.
ECOLO’ : Cosa ti aspetti che possa fare Sanna Marin, al di là del potere simbolico del suo successo, per migliorare la situazione della Finlandia?
JK: Lei deve governare e garantire che il programma di governo sia realizzato, è questo il suo mestiere. La sfida è notevole, perché un pezzo fondamentale del suo governo, il Partito di Centro Finlandese, è in contrapposizione con gli altri elementi della coalizione sulle politiche ambientali e sul mercato di lavoro. Inoltre, eredita una difficile situazione nel mercato di lavoro dal governo precedente di centrodestra, dove i lavoratori hanno dovuto affrontare molti sacrifici. Il programma di governo c’è però, ed è firmato da tutta la coalizione. Lei può essere la garante di questo programma, dovrà riuscire a fare in modo che i voti dei cittadini alle elezioni di Aprile 2019 si traducano in atti.
ECOLO’ : La Finlandia ambisce a emissioni nette zero di C02 entro il 2035, credi che l’impegno del nuovo governo sui temi ecologisti sia credibile?
JK: La Finlandia può sfruttare dei sink biosferici importanti grazie al suo patrimonio forestale che la favorisce nel tentativo di emissioni nette zero, però per arrivare a tale scopo entro 2035, dovremmo vedere cambiamenti radicali subito e su tutti i settori chiave della società: industria, logistica e produzione del riscaldamento ed energia elettrica. Il cambiamento non è stato avviato ancora e perciò le dichiarazioni del governo al giorno di oggi non sono credibili. Detto questo, le elezioni erano ad Aprile 2019 e il termine del governo scade Aprile 2023. Il saldo totale di questa ambizione va visto al termine del mandato, ma è certamente urgente che questo governo passi all’azione.
ECOLO’ : Pensi che il ruolo della donna sia così diverso nella società finlandese rispetto a quella italiana? Oltre a motivi culturali, credi che ci sia qualcosa che le istituzioni potrebbero fare?
JK: L’occupazione femminile in Italia è intorno al50%, penultimo posto in Europa. In Finlandia l’occupazione femminile è intorno al 70%, in crescita. Credo che ci sia l’imbarazzo della scelta fra le politiche che le istituzioni potrebbero mettere in atto per migliorare la parità di genere in questo paese, ma non sono esperto di questa materia. Certamente la gestione dei figli nella coppia e il sostegno reciproco che la società può garantire per entrambi i sessi per evitare l’emarginazione a causa della maternità è fondamentale. Le istituzioni però non esistono in astratto, ma riflettono la cultura e valori del paese. Ecco perché non si scappa: in un contesto in cui la donna non è considerata degna di rappresentare Dio o di partecipare alla massoneria, dove vogliamo andare? Non credo che sia un caso che uno dei fenomeni culturali più importanti di questo decennio – #metoo – ha avuto molta meno visibilità in Italia rispetto a tanti altri paesi dell’Occidente. L’Italia è talmente “sottosviluppata” in materia di pari opportunità che la gente non ha nemmeno capito le sfumature e l’importanza del messaggio #metoo. Si tratta di un contesto troppo distante da quel movimento, qua si sta ancora aspettando di conoscere le prime ortopediche e preti donna. In Finlandia i mezzi di comunicazione di massa sono passati alla lingua genere neutro e monitorano che nelle notizie si dia rappresentanza in pari misura per entrambi i sessi.
ECOLO’ : Come italiani viviamo sempre il complesso di essere culturalmente arretrati rispetto ai paesi scandinavi. Tralasciando il cibo e il vino, c’è qualcosa in cui ti pare che il nostro paese riesca a fare meglio rispetto alla Finlandia?
JK: Io adoro l’Italia e ho scelto di vivere e far crescere i miei figli qua invece che in Finlandia. Credo che questa scelta abbia a che vedere con la qualità di vita, che non si riduce ai soli parametri di indicatori statistici. Italia e Grecia hanno contribuito alla cultura di questo continente in tale misura che possono camminare testa alta ancora a lungo; nonostante le tante difficoltà che ci sono nel paese, bisogna ricordare che ci sono anche tanti centri di eccellenza, innovazione e creatività. Mi rattrista però vedere l’Italia sprecare le sue risorse – come donne, giovani, ricchezze naturali – grazie ai tanti corrotti, vecchi bunga bunga e l’illusione dell’ ‘uomo forte’. Stento a paragonare i due paesi tra di loro, perché le variabili sono troppe e si cade facilmente nella trappola dei luoghi comuni. Però posso dire che in Italia la rete ferroviaria è più avanzata che in Finlandia, dove alta velocità vera non esiste. Avete una cultura urbana squisita con delle città una più bella dell’altra a dimensione umana – grazie all’architettura dei secoli passati. Credo che nella robotica siate avanti e chiaramente nei tradizionali settori italiani come la moda e gastronomia. C’è poi una condivisione intergenerazionale bella in Italia, coi nonni onnipresenti. Noi Finlandesi siamo sparpagliati ovunque nel paese e come si lascia il nido materno all’età di diciott’anni, i legami familiari si rompono spesso troppo bruscamente.
ECOLO’ : grazie mille Jouni per il tuo tempo!
Abbiamo incontrato Beatrice e Michele, due fra i fondatori e leader di Ultima Generazione, un gruppo di attivisti ecologisti convinti che serva creare un’avanguardia consapevole, disposta a rischiare il proprio benessere e la propria libertà, per innescare il cambiamento necessario. Michele è fra gli arrestati in Aprile a seguito di una manifestazione di fronte a un Eni store a Roma.
Ecoló: Ciao, ci parlate un po’ di voi e di come siete arrivati in Ultima Generazione?
Michele: Non so quanto è importante chi sono: una persona abbastanza comune, ho studiato filosofia e insegnato nelle scuole. Gli ultimi mesi li ho passati in montagna, con degli amici, a costruire una comunità agricola. L’esperienza in montagna mi ha aiutato a concentrarmi sul necessario. Sotto il monte Rosa, in montagna, con il freddo, si fa una vita basata sulle necessità in cui si taglia tutto quello che non è strettamente necessario. Ma mentre ero lì, pur nel posto più bello del mondo, continuavo a vedere i segni di come stiamo mandando tutto a puttane, le nostre speranze, quelle delle prossime generazioni, lo vedevo nei boschi conciati male, negli alberi ammalati. Mi sono reso conto che per me quel posto bellissimo non sarebbe potuto essere “casa” finché non avessi affrontato il problema. Così ho rinunciato ad altre ambizioni, come quella di fare un dottorato, e ho co-fondato Ultima Generazione. Ora vivo a Roma perché qui c’è il governo e ci sono le persone con cui dobbiamo parlare.
Beatrice: io ho 29 anni e sono una veterinaria, mi sono laureata nel 2018 e ho conosciuto Extinction Rebellion (XR) nel 2019 quando ho iniziato a realizzare che non avrei potuto avere una vita normale. La mia vita ha avuto un’accelerazione l’anno scorso, dopo la prima ondata del Covid. A quei tempi avevo deciso di iscrivermi ad una scuola di specializzazione. Per la paura di affrontare il futuro mi stavo aggrappando al modello classico in cui cerchi un lavoro un po’ più stabile per avere uno stipendio un po’ più alto. Ma la situazione era diventata ridicola perché stavo facendo una vita assurda: lavoravo 10 ore al giorno per pagare la scuola di specializzazione, solo nei ritagli di tempo riuscivo ad occuparmi di XR, il tutto forse per riuscire un domani ad avere una vita leggermente migliore. Quando siamo andati in montagna, mi sono liberata di tutto ciò che non era essenziale e ho iniziato a liberarmi dalle ansie che sono in realtà autocostruite e non ci permettono di vedere e dare priorità a ciò che è importante ed essenziale.
Ecoló: Nella nostra percezione il vostro movimento è quasi sovrapponibile a Extinction Rebellion, cosa distingue Ultima Generazione e XR?
Michele: Ultima Generazione nasce dentro XR. Il 60% di noi sono stati o sono ancora parte di XR. Dentro XR abbiamo sentito l’esigenza di avere maggiore autonomia nelle strutture organizzative e operative. Ma non solo: con il tempo sono emerse anche delle priorità e una visione differenti rispetto al progetto di XR. C’è stata, quindi, la necessità di creare un’identità differente, questo è avvenuto circa un mese e mezzo fa.
Ecoló: L’esigenza, quindi, è quella di avere strumenti differenti?
Michele: Ci sono due questioni fondamentali. Per prima cosa c’è un tema organizzativo. XR ha una struttura molto decentralizzata e orizzontale. Questo approccio ha dei pregi, ma rende difficile creare un’unità in grado di sostenere un piano strategico comune. Esiste un rischio di frammentazione e dispersione sul territorio che noi vogliamo evitare. Ci ispiriamo al funzionamento delle campagne elettorali americane, dove c’è un nucleo centrale di poche persone e tante persone che si attivano seguendo indicazioni chiare e semplici. Per esempio, guardiamo con interesse alla prima campagna elettorale di Bernie Sanders in cui 10 persone hanno mobilitato e dato direttive molto chiare a centomila persone. Persone che avevano istruzioni. Questo è il tipo di modello che vorremmo seguire.
C’è poi un aspetto culturale. XR ha fatto un lavoro eccezionale recuperando la modalità della disobbedienza civile e l’ha veicolata a migliaia di persone. Però bisogna anche ammettere che le pratiche di XR in molti casi si fa fatica a chiamarle veramente disobbedienza civile. Noi siamo convinti che per mobilitare più persone, che magari abbracceranno modalità di lotta meno radicali, c’è bisogno di una minoranza di persone disposte a tutto e che hanno una visione chiara di qual è il tipo di sacrificio che questo richiede.
Se non mobilitiamo una minoranza di persone che sono disposte al sacrificio, così come successo ai nostri nonni o come succede in tanti luoghi nel sud del mondo dove i movimenti di disobbedienza civile sono in grado di rovesciare dittatori, allora sarà difficile che tantissime persone possano essere ispirate a fare un passo avanti. Questo è quello che stiamo cercando di realizzare con Ultima Generazione e una rete di altri novi movimenti nazionali sparsi per l’Europa.
Ecoló: Hai fatto riferimento ad altri paesi, quindi Ultima Generazione è collegata ad altre realtà nel mondo?
Beatrice: Sì, siamo una rete di 10 movimenti europei, ci chiamiamo A22 perché esistiamo dal mese scorso, Aprile 2022, abbiamo dato vita ad azioni sincrone di disobbedienza civile coordinata e ad oggi condividiamo sia il supporto finanziario che la comunicazione e le richieste, siamo una rete che fornisce supporto.
Ecoló: Avete parlato di strumenti più estremi rispetto a quelli di XR. Il nostro punto di vista è che la non violenza sia un elemento fondante della visione ecologista. Vorremmo chiedervi se condividete questa visione e se all’interno di Ultima Generazione c’è un dibattito riguardo all’utilizzo di strumenti come il sabotaggio.
Michele: Non so se esiste un dibattito, non prendiamo queste decisioni in modo orizzontale. Posso dirti quello che penso io. Su questo riprendo la visione di XR che ha redatto un manuale riguardo la possibilità di danneggiare una proprietà privata. Ci sono regole molto strette che lo prevedono a patto che si prendano una serie di precauzioni: non solo deve essere certo che nessuno si farà male, ma deve anche essere garantito che nessuno si spaventerà.
Beatrice: Ovviamente noi non prendiamo in considerazione né pianifichiamo azioni violente. Per noi la non-violenza è un elemento strategico della nostra azione. Il sabotaggio però può rientrare fra le tattiche non violente. In Germania, ad esempio, ci sono stati attivisti che hanno chiuso, senza danneggiarli, dei rubinetti della rete di petrolio, non so se è sabotaggio, ma sicuramente non è violenza. Non stai nemmeno manomettendo un’infrastruttura in modo permanente. Ma ovviamente che cosa sia violento è anche una valutazione soggettiva, anche un blocco stradale può essere considerato una forma di violenza da parte di qualcuno.
Ecoló: Noi contestiamo ai partiti tradizionali la mancanza di responsabilità verso le comunità che dovrebbero rappresentare. Per noi la relazione dialettica e responsabile fra leadership e comunità è un valore da recuperare. Volete dirci di più su questa idea di modello organizzativo in cui un gruppo ristretto dà direttive? Perché ci vediamo delle criticità.
Michele: È un tema fondamentale. Secondo noi non si può decentralizzare in modo efficace se prima non hai costruito un’organizzazione centrale e un piano. Un’organizzazione basata su molti gruppi autonomi finisce sistematicamente per cadere nel meccanismo del doppio conflitto. Ci si trova in disaccordo su qualcosa, ma non siamo nemmeno d’accordo su chi debba risolvere questo conflitto prendendo una decisione. Questa è un’esperienza raccontata molto efficacemente nel testo “La tirannia dell’assenza di struttura” scritto da Jo Freeman, una femminista e scrittrice americana. I grandi movimenti di resistenza civile non si basavano su assemblee, ma su una leadership. Il problema non è il leader ma quando questi si sconnettono dalla loro comunità. La questione è quindi chi è il leader e se è degno e ha l’umiltà per svolgere quel ruolo. Il ruolo non è fare il leader d’azienda, ma mettere in pratica un piano. Le persone che si avvicinano a Ultima Generazione credono nel progetto e si fidano della leadership e… sorpresa, sorpresa… non hanno voglia di fare 40 assemblee a settimana per definire il progetto. La gente ha voglia di lavorare al progetto. L’idea che “nessuno può dirmi cosa devo fare nel mio spazio” non è un’idea popolare, è un’idea borghese.
Beatrice: vorrei parlare della mia esperienza. Anche XR in realtà ha un modello semi-centralizzato in cui il gruppo strategico ha definito una serie di cose. In Italia non c’è mai stato un gruppo strategico sicuramente anche a causa della pandemia. Noi pensiamo che questa mancanza abbia in parte limitato l’efficacia dell’azione di XR Italia. La sensazione è che ogni gruppo proceda in ordine sparso. Ancora oggi ci troviamo di fronte a questo problema perché, ora che siamo fuori e cerchiamo di lavorare con XR, non riusciamo ad avere un interlocutore che sia in grado di prendere decisioni riguardo ad azioni comuni. Noi abbiamo poco tempo, due anni, e non possiamo aspettare un mese per ogni decisione. Anche se personalmente mi sento scomoda in questa posizione di leadership, devo dire che apprezzo sempre di più i pregi che la nostra organizzazione porta con sé.
È anche importante per me che in questo modo la dinamica di potere è esplicitata. In tutti i movimenti orizzontali il potere di prendere certe decisioni c’è. Anche quando non è esplicitato ed anche quando è esercitato non prendendo una decisione. Non ne faccio una questione di cattiva fede. Ma occorre riconoscere che spesso nelle organizzazioni orizzontali esiste una leadership implicita che prende decisioni senza assumersi la responsabilità del ruolo. Quando ci confrontiamo con tutti i comitati e i collettivi marxisti e di estrema sinistra questo è particolarmente evidente. C’è sempre questo feticismo della decisione collettiva in assemblea e poi nella sostanza ti ritrovi quattro persone, generalmente uomini di mezza età, che parlano 25 minuti a testa e la maggior parte della gente sta zitta. Questo per me non è potere diffuso. È una centralizzazione mascherata che unita alla disorganizzazione finisce anche per essere completamente inconcludente.
Ecoló: Quindi esiste un gruppo strategico. Come funzionate?
Michele: ad oggi siamo quattro. È difficile trovare qualcuno che sia disposto ad assumere un impegno di 12 ore al giorno.
Beatrice: per quanto mi riguarda il mio ruolo nel gruppo strategico è dovuto principalmente alla disponibilità di tempo. Siamo persone che hanno deciso di cancellare la propria vita per dedicarsi a questo.
Ecoló: Come si sostiene economicamente un gruppo di persone che lavorano a tempo pieno come militanti?
Michele: Abbiamo un crowdfunding, la gestione finanziaria è centralizzata fra i 10 movimenti. Inoltre lavoriamo a stretto contatto con finanziatori e influencer. Ci sono sempre più persone che stanno capendo quanto è grave la situazione. Ma viste anche le spese legali che dovremo affrontare ci serve l’aiuto di tutti e invitiamo chi legge a darci una mano (in fondo all’articolo trovate il link).
Ecoló: Vorremmo chiedervi proprio delle vicende giudiziarie che coinvolgono tre di voi di cui sorprendentemente si è parlato pochissimo sui media. Volete spiegarci cosa è successo?
Beatrice: abbiamo fatto una serie di azioni contro l’ENI. Abbiamo iniziato dall’Eur e poi ci siamo spostati verso gli ENI Store sparsi per Roma. Sono azioni di imbrattamento e microdanneggiamento. Questo danneggiamento alla vetrina, ad esempio, è stato fatto in modo simbolico evitando accuratamente una crepa che avrebbe potuto far crollare la vetrina e far male a qualcuno. Un’azione simbolica che vuole mostrare anche la sproporzione fra i danni che possiamo fare a ENI a confronto con i danni che ENI fa a noi.
Michele: Siamo stati arrestati Io, Laura e Chloe, il 20 Aprile. Andremo a processo il 15 Settembre.
Ecoló: Che cosa vi contestano?
Michele: Violenza privata, danneggiamento e possesso illecito di armi. L’unica sensata è la seconda. È vero, c’è stato un danneggiamento. Violenza privata assolutamente no. Armi… non so. Se esci di casa con uno scalpello, scalfisci una vetrina e lo appoggi a terra quando si avvicina qualcuno è un possesso illecito di armi? Vorrei far notare che non è ENI che ci ha denunciato. Il PM ha chiesto l’obbligo di firma tre volte alla settimana ma il giudice ha rifiutato.
Devo anche dire che sono rimasto colpito da quanto il giudice mi ha fatto parlare della crisi climatica: mi sono sentito ascoltato.
Beatrice: l’arresto non è arrivato alla prima azione ma alla quarta. All’inizio ci sono stati solo fermi e denunce. Si è verificato quanto già successo a febbraio quando siamo andati ripetutamente ad imbrattare il ministero della transizione ecologica fino a che le forza dell’ordine hanno reagito. Credo che la frustrazione che innesca la reazione sia in buona misura ottenuta attraverso una ripetizione prolungata dell’azione di protesta.
Michele: Vorrei aggiungere che questa nostra esperienza con l’arresto e il processo è solo un barlume di quello che è per noi la disobbedienza civile. Noi in occidente concepiamo la non violenza come una forma pacifica e difensiva. Non è così. I grandi modelli di disobbedienza civile sono piazza Tahrir e la Marcia dei bambini fra Birmingham e Selma del 1963. Disobbedienza civile non è fare una manifestazione ogni sei mesi e poi tornare nel proprio mondo di privilegi. Avremo bisogno di tante persone che non hanno paura. Le grandi rivoluzioni sono state fatte da persone che erano consapevoli dei rischi che correvano.
I nostri figli in Italia rischiano di morire di fame in ogni caso. E noi stiamo qui a dire a noi stessi che non possiamo rinunciare ai nostri privilegi?
Ultima Generazione ha richieste molto chiare per il governo e per le sue aziende, ma non proponiamo una retorica in cui loro sono cattivi e gli altri sono buoni. Il conflitto è orizzontale. Io sono qui a scagliarmi contro l’opinione pubblica ipocrita della sinistra e degli ambientalisti che fanno una marcia ogni sei mesi. Dovrebbero guardare i propri figli e dire loro: “tu stai per morire e io faccio una marcia ogni sei mesi e firmo le petizioni”. Noi non diciamo “quanto è cattivo Draghi”, noi consideriamo veri assassini delle generazioni future i cittadini e soprattutto quelli politicamente attivi che non prendono sul serio la drammaticità della situazione.
Non stiamo veramente combattendo, sono tutte scuse. Hannah Arendt diceva “ci sono due cose che fai davanti a un genocidio: o ti ribelli o sei complice”.
La maggior parte degli attivisti oggi è complice.
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È possibile sostenere Ultima Generazione con una donazione a questo link: https://www.produzionidalbasso.com/project/ultima-generazione-assemblee-ora/ .
A22 è una rete di movimenti europei diffusa in 10 paesi:
ITALIA https://www.ultima-generazione.com/
INGHILTERRA https://juststopoil.org/
GERMANIA https://letztegeneration.de/
CANADA https://save-old-growth.ca/
AUSTRALIA https://fireproof.news/
STATI UNITI https://www.declareemergency.org/
FRANCIA https://derniererenovation.fr/
SVIZZERA https://renovate-switzerland.ch/
SVEZIA https://www.facebook.com/aterstallvatmarker/
INTERNATIONAL https://scientistrebellion.com/
Simona Larghetti, imprenditrice e cicloattivista ci racconta la strada che dalla sella di una bici l’ha condotta nel consiglio comunale di Bologna.
Ecolo’: Ciao Simona, grazie per la tua disponibilità a rispondere alle nostre domande. Cominciamo da te? Sappiamo che sei nata a Urbino, come sei arrivata a Bologna?
Simona Larghetti: Dopo Urbino sono andata a Roma per fare i provini dell’Accademia Silvio D’Amico, volevo fare l’attrice teatrale. L’impatto da un piccolo paese alla metropoli è stato devastante, mi ha colpito soprattutto la violenza del traffico e l’enorme difficoltà a spostarsi, anche per piccole distanze. Alla fine mi hanno presa all’Accademia Paolo Grassi a Milano, lì ho iniziato ad andare in bici. A Bologna sono arrivata due anni dopo per puro caso, ero rimasta delusa dal mondo del teatro e volevo scappare.l teatro e non sapevo bene cosa fare.
Com’è successo che Bologna ti ha adottata?
Mi sono iscritta all’Università, a Lettere, un po’ perché mi piaceva un po’ perché non sapevo bene cosa fare. Ho incontrato una ragazza del mio paese che faceva parte di un’associazione studentesca che si occupava del recupero di biciclette usate e di campagne contro il furto. Io già andavo in bici, mi sembravano cose bellissime. Sono diventata prima volontaria poi ho iniziato anche a lavorarci, facendo ufficio stampa e organizzazione eventi. Quel lavoretto è diventato la mia vita, e mi appassionava molto di più dello studio, che pure mi piaceva. Mi piaceva la prospettiva anche politica di quello che facevo, sentirmi parte della città e non un’ospite, una parte attiva, che si prende cura e responsabilità di quello che accade nello spazio pubblico.
Vorremmo chiederti del tuo lavoro. Dopo Paolo Pinzuti sei la seconda imprenditrice della bicicletta che intervistiamo. Come succede che una studentessa di lettere diventa imprenditrice?
Ho fatto tanti lavori tra la laurea e l’inizio dell’attività in Velostazione, sempre come dipendente o collaboratrice. Soffrivo moltissimo la mancanza di confronto con chi stava sopra di me, l’obbligo di eseguire delle mansioni senza alcuna possibilità di dare il mio contributo. Mi sembrava un sistema demenziale. Sono figlia di un piccolo imprenditore agricolo, abituata a dare il massimo per qualcosa che ami e che curi. Quando mi sono confrontata con altre persone dell’associazione che nel frattempo avevo fondato, Salvaiciclisti Bologna, aprire una cooperativa è stato quasi naturale. Una dimensione di impresa dove ognuna è nelle condizioni di dare il meglio e di costruire assieme la visione.
L’esperienza delle velostazioni in Italia è lastricata di speranza, successi ma anche tante difficoltà (pensiamo ad esempio all’esperienza di Bari). Cosa manca perché esperienze come è stata la vostra possano diventare una realtà in tutte i piccoli e grandi centri italiani?
Siamo ancora in una fase sperimentale, nonostante l’enorme ritardo. L’uso della bicicletta sta uscendo faticosamente dalla dimensione di emarginazione a chi la usava perché non aveva alternative e per molte sta diventando una scelta di vita. Iniziare a ragionare di servizi su cui investire, sia da parte del pubblico che del privato, non è più utopia, ma ancora l’agenda politica non vede la priorità assoluta di questi interventi: occorre un modello riconosciuto e riconoscibile di Velostazione, perché la riconoscibilità è parte dell’attrattività di un servizio, ma le condizioni della ciclabilità sono ancora molto disomogenee da città a città, ogni amministrazione vuole rinventare la ruota, invece bisogna standardizzare un luogo, magari modulare, e destinare delle risorse pubbliche come si fa per gli altri servizi di trasporto, coinvolgendo anche i privati. Ora invece vediamo solo i due estremi: il servizio standardizzato e assolutamente impersonale di grosse gabbie automatizzate, efficiente ma fallimentare perché non accompagna il servizio con un pensiero sulla città, o gli spazi privati e sociali portati avanti da gruppi di volonterosi, che finiscono per stancarsi e disperdersi dopo un po’. In un servizio pubblico la convenienza economica non c’è, spesso non avanzano neppure i soldi per pagare degli stipendi. Vi immaginate se il trasporto pubblico fosse affidato al volontariato?
Ci racconti della tua militanza come ciclista? Cosa vuol dire essere un’attivista del movimento ciclistico? Quali sono i vostri obiettivi e come contate di raggiungerli?
Attivismo vuol dire non rassegnarsi mai alle cose come stanno. Che non significa combattere contro i mulini a vento, ma trovare sempre la strada per il cambiamento, pure nella tempesta con cui la conservazione ci travolge ogni giorno. Sono sempre stata attratta dalla politica, ho partecipato alle mobilitazioni studentesche già dal liceo, ma non capivo bene come le nostre instanze potessero tradursi in qualcosa di concreto e fattibile che andasse oltre la mera protesta. Nel mondo del cicloattivismo ho trovato da subito la mia dimensione, perché occupare la strada con il proprio corpo, rallentando il traffico nei suoi inutili picchi di velocità, costringendo a guardarsi, a rispettarsi, a volte anche entrando in conflitto, è già un gesto politico. Un gesto che nega il consumismo della fretta, dell’isolamento, della morte delle relazioni sociali tipica della vita dentro l’abitacolo di un auto. La bici è un veicolo che ti costringe a entrare in relazione in modo autentico con il prossimo. Questa concretezza per me è stata la salvezza. Il movimento cicloattivista lotta per città diverse, dove le persone siano al centro. Alcune piccole battaglie sono state vinte: dopo secoli il finanziamento delle reti ciclabili è finalmente affidato al Ministero dei Trasporti e non al Ministero dell’Ambiente, qualche piccola innovazione nel codice della strada, una timida ripresa, almeno in alcune regioni, dell’interesse per il trasporto pubblico. Ma la grande guerra è ancora lontana dall’essere vinta: dobbiamo togliere l’auto privata dal centro del nostro modello di mobilità, smettere di costruire autostrade, di finanziare l’ACI, di finanziare l’acquisto di auto private, e dare quello di cui le persone hanno bisogno: spostarsi, meno e meglio.
Oggi dalla sella di una bici ti sei spostata sullo scranno del consiglio comunale di Bologna. Nel nostro immaginario sei una militante della strada, è difficile immaginarti nei meccanismi dell’amministrazione. Come è stato il passaggio dalla strada al palazzo?
Prima, lavorando in Velostazione e come presidente di Salvaiciclisti, vivevo tutto il giorno in mezzo a persone che la pensano come me, circondata da affetto, condivisione profonda, sintonia in ogni gesto e pensiero. Ora, per lo più, vivo in mezzo a persone che devo costantemente convincere delle mie posizioni, con risultati che a volte sono esaltanti, ma il più delle volte è una lotta. Ogni istante devo considerare le differenze di linguaggio, di galateo, di significato dei gesti e delle parole. La politica è un mondo parallelo, dove le cose non hanno mai un senso in sé, ma sempre in base a un alfabeto di rapporti di forza e di ruoli. La cosa più difficile è stato imparare quell’alfabeto, che sto ancora cercando di decifrare. Per il resto, chi amministra vive le stesse tragedie di tutti: in Comune si subiscono le decisioni della Regione, in Regione ci si lamenta del Governo, al Governo dicono che è colpa dell’Europa. Siamo tutte Davide contro Golia, alla fine anche il più indefesso ambientalista fa qualche compromesso per stare una società civile consumista e autodistruttiva. Cerco di restare lucida mantenendo le stesse abitudini di prima: mi muovo solo in bici o in treno, mangio vegetariano e locale, mi porto la borraccia anche ai convegni, non compro abiti fast fashion, vedo gli amici di sempre. Cerco di mettermi in discussione ogni giorno, chiedendomi se sto facendo davvero tutto il possibile.
La vostra lista ha scelto non solo di partecipare alle elezioni ma anche di partecipare al governo della città. A distanza di qualche mese dall’inizio della consiliatura pensi che sia stata una scommessa vinta?
Non si può dire dopo pochi mesi, potremo dircelo alla fine del mandato. Stiamo imbastendo tanti cantieri importanti: le comunità energetiche, l’obiettivo di Bologna carbon neutral entro il 2030, fare marcia indietro sul consumo di suolo, nuovi parchi e fasce boscate, sostegno alle persone fragili, aumentare le case popolari, i percorsi contro le discriminazioni, e naturalmente gli obiettivi sulla mobilità. Ci sono 32 milioni di Euro sul piatto per il finanziamento della rete ciclabile metropolitana e stiamo riavviando il progetto del Servizio Ferroviario Metropolitano, fermo dal 2013. Per ora il lavoro è trovare fondi, inserire voci di spesa nei bilanci, riorganizzare i settori perché si occupino di questi nuovi temi. Certo, Nessuna di queste cose si fa in sei mesi, ma ogni giorno bisogna aggiungere un pezzettino perché diventino una priorità politica condivisa, non solo da noi amministratori ma soprattutto dalle persone che rappresentiamo. Le due cose vanno assieme.
Sei stata accusata di aver appoggiato un progetto infrastrutturale antiecologico, quello del passante, come rispondi a questa critica?
Già, mentre cerchi di fare delle belle cose, provi a mettere una toppa alle scelte scellerate che sono state fatte nel passato, e non sempre si esce soddisfatte. Il capitolo dell’allargamento del Passante autostradale di Bologna è stato molto doloroso da vivere, entrando nei processi abbiamo trovato accordi già sottoscritti e un iter irreversibile, questo già prima delle elezioni. Si poteva fare senza di noi, senza alcuna compensazione ambientale, lasciando che si concludesse tutto entro il mandato precedente e uscendone con la faccia pulita, ma dal mio punto di vista, ben più responsabili. invece abbiamo voluto rinviare l’iter e includere le compensazioni nell’accordo di coalizione. Secondo qualcuno sarebbe stato meglio, politicamente, non essere coinvolti in quel voto. Io purtroppo sono una persona troppo pragmatica, penso che se c’è modo di migliorare un’opera dannosa, anche se politicamente ci si perde qualcosa, è giusto sporcarsi le mani. Per qualcuno aver ottenuto le fasce boscate e un impianto fotovoltaico capace di fornire energia pulita a 200 famiglie è stato inutile. Per me no, rimango contraria ad ogni autostrada, ma guardo in faccia la realtà e mi rende triste vedere arrivare critiche da gente che usa l’auto ben più di me.
Invece, anche se sono pochi mesi che lavori nell’istituzione comunale, c’è un risultato del quale sei orgogliosa?
La nascita di piazze e strade scolastiche, un risultato che è arrivato dopo anni di richieste, coinvolgimento delle comunità scolastiche, advocacy anche a livello nazionale, ma che si è concretizzato grazie alla convinzione del nostro Sindaco e della nostra Assessora, e che è entrato negli obiettivi di mandato come misura da estendere a tutte le scuole possibili. Spazi accoglienti e senza auto all’entrata e all’uscita da scuola. Perché la città è di tutte.
Dopo i primi lockdown molti amministratori ci hanno detto che “nulla sarebbe stato più come prima” in una narrativa che alludeva alla realizzazione di città più a misura di uomo (in sella o meno ad una bici). Ci pare che contrariamente a quanto stia avvenendo in altre città, come Parigi, in Italia non ci sia nessun cambiamento apprezzabile. Sei d’accordo?
Per Bologna fortunatamente non è così. Gli spostamenti in bici sono aumentati anche del 20/30% su alcune strade dove si sono fatti interventi e stiamo pianificando la città 30, l’abbassamento dei limiti di velocità e con il progetto Area Verde una continuità ciclopedonale tra tutte le aree verdi di Bologna. Il traffico auto è rimasto al di sotto dei livelli pre-covid, anche se purtroppo il trasporto pubblico non si è del tutto ripreso. Certo, a livello nazionale il Governo Draghi sta facendo molte marce indietro, tornando a politiche vecchissime e scoraggianti.
Qual è la singola cosa più importante che vorresti realizzare nei prossimi quattro anni?
Raddoppiare il numero di persone che si spostano in bici ogni giorno. Sembra una mia fissa, ma vuol dire meno incidenti, meno smog, persone più in salute, vuol dire aumentare la felicità collettiva.
Vorremmo farti anche una domanda un po’ più politica e generale. Secondo te cosa manca al movimento ecologista italiano per poter diventare efficace nell’azione come i partiti verdi della Germania o di altri paesi europei?
Purtroppo è semplice rispondere: manca la capacità di lavorare insieme, con meno protagonismo. Ognuno Purtroppo è semplice rispondere: manca la capacità di lavorare insieme, con meno protagonismo. Ognuno cerca il proprio palco e ci si accontenta di una enorme frammentazione. Serve spirito di servizio e pragmatismo.
A febbraio hai partecipato a Assemblea Ecologista a Firenze con un intervento molto applaudito. Cosa ti aspetti che possa diventare Assemblea Ecologista?
Spero che sia una piattaforma per creare un modo di fare politica riconoscibile ed efficace, ovviamente se si vuole essere efficaci bisogna produrre anche risultati misurabili e cambiare il modello di sviluppo. Sono sicura che in giro per l’Italia ci sono tante piccole esperienze che hanno bisogno solo della forza di un gruppo per emergere, come un vero movimento.
Grazie per il tuo tempo!
Il nodo dell’Alta Velocità a Firenze
Da dove nasce l’esigenza di realizzare a Firenze un passante ferroviario dedicato all’Alta Velocità (AV)?
Sulla linea AV Milano-Napoli, il nodo fiorentino rappresenta una strozzatura, dato che non permette la necessaria differenziazione dei traffici tra i treni AV, quelli a lunga percorrenza e regionali. Questa situazione provoca ritardi ai treni AV, soprattutto i molti che si devono fermare alla stazione di testa Santa Maria Novella, e penalizza in particolare i treni regionali che subiscono continui ritardi e cancellazioni perché costretti a dare la precedenza ai treni AV.
A causa della congestione delle linee, inoltre, non è mai stato possibile utilizzare alcuni dei binari che attraversano da parte a parte e in superficie l’area metropolitana di Firenze per creare un vero e proprio Servizio ferroviario metropolitano cadenzato e capillare, sul modello delle S-Bahn tedesche, che integrato al sistema tranviario e dei bus potrebbe costituire una rete di trasporti locali efficiente per gli abitanti di Firenze e di tutta l’area metropolitana (ne abbiamo parlato in questo articolo).
Le scelte progettuali sul passante ferroviario fiorentino dell’Alta Velocità si caratterizzano per due punti fondamentali:
Difficile avere notizie ufficiali recenti sullo stato di avanzamento dei lavori: a maggio 2019 le opere risultavano completate per circa il 50%, con costi complessivi lievitati a 1 miliardo e 612 milioni di euro a fronte di un costo di 797 milioni e 370mila euro per le opere ancora da realizzare (Fonte: Analisi Costi Benefici del sottoattraversamento AV di Firenze, 31/07/2019, disponibile su www.mit.gov.it). Di tutto il progetto, ad oggi risulta ultimato lo ”scavalco” già in esercizio dal 2011 tra Rifredi e Castello (opera che permette ai binari AV di non interferire con i binari esistenti) ed è a buon punto il cantiere della stazione AV, mentre quasi niente è stato ancora fatto per lo scavo dei tunnel (di fatto a Campo di Marte è stato solo completato il “pozzo lancio fresa”, la fresa TBM è stata assemblata ma non ha mai iniziato a scavare).
Sono molti gli ostacoli che negli anni hanno rallentato e bloccato l’avanzamento dei lavori, che avrebbero dovuto concludersi entro il 2015, a partire da varie inchieste giudiziarie tra cui quella iniziata nel 2010 che ha riguardato lo smaltimento delle terre di scavo dei cantieri. Ai numerosi guai giudiziari si è aggiunta anche la grave crisi aziendale della ditta esecutrice dei lavori Nodavia, causata dal fallimento nel 2018 della sua capogruppo Condotte Spa. Nel 2019 l’appalto è stato quindi affidato a Infrarail Firenze Srl, società neo-costituita da RFI proprio allo scopo di portare a termine i lavori del nodo AV fiorentino.
Il Cantiere della nuova Stazione di Firenze Belfiore, nell’area degli Ex-Macelli [fonte: www.ifrfirenze.it]
Oggi ci troviamo a quasi vent’anni dal progetto Foster e l’area degli ex-Macelli di Firenze ospita ancora un cantiere da anni praticamente fermo, una voragine nel centro della città che finora ha inghiottito centinaia di milioni di euro (pagati in autofinanziamento da Rete Ferroviaria Italiana), per una stazione che ancora non ha visto la luce e il cui progetto è stato a più riprese rivisto e messo in discussione dalle stesse Ferrovie dello Stato.
Prima, nel 2011, con un nuovo accordo tra RFI, Regione Toscana, Provincia e Comune di Firenze, è stato eliminato dal progetto il completamento di varie stazioni del Servizio Ferroviario Metropolitano (fra queste ad esempio le stazioni Circondaria e Perfetti-Ricasoli). Il completamento doveva essere a carico di RFI, che ha indennizzato il Comune di Firenze con circa 70 milioni, congelando di fatto il progetto di rafforzamento del Servizio Ferroviario Metropolitano che era strettamente collegato a quello del nodo AV. In particolare è stata stralciata la previsione della stazione Circondaria, che doveva sorgere in superficie in corrispondenza della stazione sotterranea Belfiore e consentire quindi un raccordo tra passeggeri dell’Alta Velocità, dei treni regionali e del servizio metropolitano.
Poi, nel 2016, le Ferrovie hanno addirittura inaspettatamente rimesso in discussione l’intero progetto dell’alta velocità nel nodo fiorentino. Le esperienze delle altre stazioni sotterranee per l’alta velocità realizzate e già in funzione (Bologna, Roma Tiburtina, Torino Porta Susa) avevano infatti dimostrato che la nuova stazione AV avrebbe avuto costi di gestione troppo alti rispetto al volume di passeggeri previsto. Tenendo conto anche dei miglioramenti tecnologici raggiunti negli ultimi anni che hanno permesso una migliore gestione del traffico ferroviario e della volontà espressa da Trenitalia e NTV di continuare ad usare Firenze SMN come stazione principale per i loro treni alta velocità, la stazione Belfiore e il sottoattraversamento sono diventate agli occhi delle Ferrovie due opere su cui non valeva più la pena puntare.
In questo scenario, qual è stata la posizione di Regione Toscana e Comune di Firenze?
La Regione, va detto, ha sempre mantenuto una posizione coerente e prima con Enrico Rossi e poi con Eugenio Giani ha continuato a sostenere la necessità del progetto originario (tunnel per l’alta velocità, stazione sotterranea per treni AV e stazione Circondaria di superficie per treni regionali), vista la necessità di separare grazie ai tunnel il traffico regionale da quello AV.
Più confusa la posizione del Comune di Firenze, con il Sindaco Nardella che ha prima ribadito la necessità di mantenere fede al progetto originario, per poi abbracciare la nuova proposta di Ferrovie secondo cui Santa Maria Novella doveva rimanere il terminale principale per i treni AV, con una nuova stazione Belfiore ridimensionata rispetto al progetto iniziale e con funzione di “hub ferro/gomma” con la presenza di stalli per bus interurbani e turistici e la fermata di alcuni treni alta velocità.
Un importante contributo al dibattito, soprattutto alla luce del dietrofront di Ferrovie, si è aggiunto nel 2019 con la pubblicazione dell’Analisi Costi Benefici del sottoattraversamento AV di Firenze, commissionata dall’allora Ministro dei Trasporti Danilo Toninelli e curata dal gruppo di lavoro guidato dal professor Marco Ponti. L’analisi ha dato un responso sostanzialmente favorevole al completamento delle opere, sostenendo che porterebbe complessivamente benefici maggiori dei costi, consentendo ai treni AV che transitano dal nodo di Firenze di risparmiare tempo, ed ai treni regionali e metropolitani di aumentare la propria offerta in modo significativo. Completare i lavori, inoltre, sarebbe ormai preferibile rispetto all’opzione di abbandonarli, dato anche che in tal caso dovrebbero essere ripristinate tutte le aree attualmente interessate dai cantieri.
Questo non vuol dire tuttavia che dal rapporto sia uscito un giudizio in assoluto positivo per l’opera, e su questo pesa soprattutto il fatto che non sia stato possibile nell’analisi prendere in considerazione vere alternative: le scelte a favore del sottoattraversamento e di ubicare la stazione in una zona relativamente centrale di Firenze infatti hanno di fatto imposto al progetto vincoli determinanti, ad esempio escludendo per la stazione possibili altre localizzazioni come Campo di Marte o l’area a monte di Rifredi che secondo gli stessi autori avrebbero probabilmente dato risultati migliori.
Ponti & C. nel loro rapporto hanno poi evidenziato alcune condizioni fondamentali, senza le quali verrebbe replicato l’attuale assetto del traffico ferroviario sfavorevole per i treni regionali e quindi l’intera opera perderebbe molti dei benefici che ne giustificano l’esistenza: la realizzazione, in corrispondenza della stazione Belfiore, della stazione di superficie Circondaria per treni regionali e metropolitani; la realizzazione di un collegamento tra Belfiore/Circondaria e SMN (tramite tapis roulant o people mover); lo spostamento da SMN a Belfiore di tutti i treni AV che fermano a Firenze, non solo di alcuni di essi.
Le nostre proposte
Stupisce come si parli ancora troppo poco nel dibattito cittadino e regionale di un’opera così importante, nel bene e nel male, come quella del nodo fiorentino dell’Alta Velocità: una grande opera con effetti potenzialmente molto positivi sulla mobilità metropolitana e regionale, rilevante dal punto di vista urbanistico ma anche molto impattante dal punto di vista ambientale.
Da anni ormai sui giornali escono regolarmente dichiarazioni da parte del Comune o della Regione che comunicano l’imminente ripresa dei lavori, ma la project review annunciata fin dal 2016 ad oggi non risulta sia mai stata conclusa né tantomeno pubblicata, quindi rimane un grosso interrogativo: i lavori riprenderanno (se riprenderanno) per realizzare cosa?
Come Ecoló siamo fermamente contrari ad esempio alla proposta presentata nel 2017 da Ferrovie e sostenuta dal Comune di Firenze, di ultimare la stazione Belfiore trasformandola in un centro di smistamento treno/gomma con la fermata solo di alcuni treni AV e gli stalli per bus extraurbani. Si tratta di una proposta incongruente sotto tanti punti di vista. Innanzitutto non esiste nessuna valutazione dell’impatto sul traffico di un hub per gli autobus in una zona così centrale della città. Poi, assecondare le richieste di NTV e Trenitalia continuando ad utilizzare SMN per la maggior parte dei treni Alta Velocità, significherebbe lasciare poche capacità residue per incrementare i servizi regionali e compromettere la possibilità di istituire un vero Servizio Ferroviario Metropolitano. Infine, la proposta non prevede la realizzazione della stazione Circondaria, quindi di un interscambio tra treni regionali e AV/bus extraurbani.
Per fortuna, dalle notizie che riportano gli esiti dei più recenti incontri tra i rappresentanti del Gruppo Ferrovie, il Presidente della Regione Toscana Giani e il Sindaco di Firenze Nardella, sembrerebbe (il condizionale è d’obbligo) che questa posizione sia stata almeno in parte superata e che sia tornata sul tavolo la proposta di realizzare anche la stazione Circondaria per i treni regionali, insieme alla connessione tramite people mover della nuova stazione con SMN.
Dal punto di vista dei cittadini dell’area metropolitana, l’accettabilità di un’opera come quella del nodo fiorentino dell’Alta Velocità, impattante dal punto di vista ambientale e urbanistico, dovrebbe essere misurata tenendo in giusta considerazione le ricadute del progetto a livello locale. Per questo motivo, come Ecoló riteniamo che la realizzazione di un vero e proprio Servizio Ferroviario Metropolitano debba essere inserito come condizione irrinunciabile all’interno degli accordi tra RFI e le amministrazioni locali, qualunque sia la soluzione tecnica adottata (sottoattraversamento o alternativa di superficie) per realizzare il passante AV fiorentino.
In realtà ci chiediamo perché non sia mai stato preso seriamente in considerazione lo studio dell’alternativa di superficie al passante ferroviario AV. Un’opzione che, a lavori ancora da iniziare, avrebbe potuto rappresentare un’alternativa ad un’opera che presenta criticità significative dal punto di vista ambientale (interferenza con la falda, gestione delle terre da scavo) e di sicurezza (stabilità degli edifici sotto cui i tunnel saranno scavati).
D’altra parte però, anche in considerazione dello stato di avanzamento dei lavori, crediamo che la scelta di completare il sottoattraversamento sia da considerarsi ormai preferibile rispetto a rinunciare ad un’opera potenzialmente molto vantaggiosa per migliorare la mobilità ferroviaria regionale e metropolitana, purché:
Siamo convinti che una delle principali soluzioni per migliorare la mobilità a Firenze sia rafforzare i suoi collegamenti via treno, prioritariamente quelli che la connettono al resto dell’area metropolitana e all’intera regione, ed il passante AV di Firenze e le opere connesse potrebbero permettere di fare un grande passo in avanti in questa direzione. Crediamo che senza le due condizioni sopra indicate, tuttavia, venga meno l’unica vera giustificazione, almeno dal punto di vista dei cittadini di Firenze, per realizzarlo: l’opportunità di sviluppare un efficiente servizio di treni metropolitani di cui la città avrebbe urgentemente bisogno.
Firenze ha un poco invidiabile primato: confrontata con le altre maggiori città italiane, l’area metropolitana fiorentina ha il più alto tasso di motorizzazione a livello nazionale, con 768 auto ogni 1.000 abitanti. Se consideriamo solo il territorio comunale di Firenze, tuttavia, questo tasso scende sotto la media delle grandi città italiane (Fonte: Kyoto Club e CNR-IIA, Rapporto Mobilitaria 2020. https://iia.cnr.it/mobilitaria-2020/). Questi dati indicano evidentemente che abbiamo un problema legato all’eccessivo ricorso alla mobilità privata: più ancora che a livello cittadino, questa tendenza riguarda soprattutto gli abitanti dell’area vasta intorno a Firenze.
La piana fiorentina è attraversata da parte a parte, nelle sue principali direttrici, da binari ferroviari. Dovrebbe quindi essere strategico per Firenze considerare come priorità la creazione di un vero e proprio Servizio Ferroviario Metropolitano (SFM), attraverso il quale sviluppare al meglio una mobilità integrata in tutto il territorio provinciale, con treni frequenti e puntuali che collegano tutte le fermate presenti ad esempio sulle linee tra Firenze ed Empoli, Campi Bisenzio, Prato, Borgo San Lorenzo, Pontassieve. Un servizio che permetta di andare da Campo di Marte a Rifredi in 8 minuti con treni che fermano ogni 5 minuti.
SFM e TAV
L’idea di un Servizio Ferroviario Metropolitano a Firenze è sempre andata di pari passo al progetto del passante ferroviario dell’Alta Velocità.
I due progetti sono, nei fatti, intrinsecamente collegati per motivi strutturali: la rete ferroviaria fiorentina, allo stato attuale, non permette lo sviluppo di un SFM con cadenzamento adeguato fra tutte le stazioni interessate. Lo spostamento dei treni ad Alta Velocità al passante sotterraneo permetterebbe invece, senza grandi interventi sulla rete di superficie, di dedicare alcuni binari ai treni locali.
Già nei primi accordi stipulati fra le Ferrovie, Regione Toscana e Comune di Firenze emergeva chiaramente l’idea, parallelamente alla realizzazione del sottoattraversamento, di sfruttare la maggiore disponibilità di binari in superficie per rinforzare su Firenze le linee ferroviarie locali riattivando vecchie stazioni in disuso e realizzandone nuove. Ciò che non tutti sanno, però, è che è stata la giunta Renzi nel 2011 a chiedere a Ferrovie di stralciare dagli accordi la previsione del SFM, e da questa scelta il Comune di Firenze anche con l’attuale sindaco Nardella non è mai tornata (almeno ufficialmente) indietro.
Che cos’è un Servizio Ferroviario Metropolitano
Un Servizio Ferroviario Metropolitano, come quello realizzabile a Firenze, ha delle caratteristiche precise che lo distinguono sia dalla metropolitana che dal servizio ferroviario regionale:
In Europa sono note l’esperienza della RER parigina, delle S-BHAN tedesche e in Italia il passante ferroviario di Milano e Torino.
Un treno S-BHAN a Berlino.
Le stazioni di Firenze
Il progetto di un Servizio Ferroviario Metropolitano per Firenze dovrebbe prevedere l’utilizzo e il potenziamento di tutte le stazioni ferroviarie del territorio comunale.
Nel piano del nodo dell’Alta Velocità Fiorentina anteriore al 2011 era prevista, insieme alla realizzazione del sottoattraversamento e della “Foster” (Stazione AV Firenze Belfiore), la costruzione o l’ammodernamento delle stazioni: San Salvi, Le Cure, Circondaria, Dalmazia, Perfetti-Ricasoli, Peretola, Quaracchi, Osmannoro.
La rete di stazioni metropolitane di Firenze così come immaginate al 2011. [Fonte: Nostra elaborazione su Piante RFI.]
Fin da subito l’idea di una stazione a San Salvi è stata abbandonata da RFI perché troppo vicina a Firenze Campo di Marte. È stata invece costruita, ma non è mai entrata in funzione, la stazione Perfetti-Ricasoli, in una posizione strategica fra Nuovo Pignone e Nuova Scuola dei Carabinieri. Restano sulla carta Dalmazia, Quaracchi, Campi e Osmannoro, cruciali se si pensa a come il SFM collegherebbe in modo ecologico, conveniente e veloce alcune tra le zone residenziali e produttive principali dell’area metropolitana.
Fondamentale in particolare rimane la costruzione della stazione Circondaria, strettamente legata al completamento della Stazione AV Belfiore e opera necessaria per permettere un collegamento tra treni regionali e locali e Alta Velocità. Arrivando con l’Alta Velocità alla Stazione Belfiore, sarebbe sufficiente salire al piano superiore e prendere un treno regionale per arrivare a Santa Maria Novella, avendo a disposizione un treno ogni 5 minuti, oppure prendere treni per Prato, Pisa o Arezzo. I passeggeri dell’AV diretti a Firenze potrebbero raggiungere il centro storico in un attimo, quelli diretti in Toscana troverebbero coincidenze immediatamente.
Dopo l’accantonamento da parte dell’ex sindaco Renzi nel 2011, tuttavia, la stazione Circondaria non è mai stata costruita ed è sparita per anni dal dibattito sul nodo dell’Alta Velocità: oggi sembra finalmente essere tornata sul tavolo delle trattative tra Comune, Regione e Ferrovie, insieme all’idea di un collegamento veloce tramite People Mover tra Circondaria/Belfiore e la Stazione SMN. Non è stato tuttavia reso ancora pubblico nessun progetto, né per la stazione Circondaria né per l’ipotetico servizio navetta con la Stazione SMN.
La situazione attuale
Al momento le stazioni esistenti nell’area fiorentina sono collegate tramite i treni regionali, con differenze sostanziali fra le varie stazioni. Per esempio, la tratta Rifredi-SMN è pienamente servita con 120 treni regionali al giorno (6 mediamente ogni ora), mentre ci sono solo 16 treni al giorno da Le Piagge e 31 da Castello. E se è vero che ci sono mediamente tre treni l’ora per andare da Campo di Marte a Santa Maria Novella, ci sono meno di 20 treni il giorno che portano da Campo di Marte a Rifredi permettendo di aggirare il centro e collegando due quartieri popolosi.
Per dare un’idea, al momento con i bus (ad es. linea 20) ci vogliono 35-40 minuti per coprire questo tragitto, mentre in treno sono al massimo 10 minuti con fermata a Statuto, dove si può prendere il tram per il centro o per Careggi. Non ultima, resta sottoutilizzata la vecchia linea Faentina che potrebbe servire sia il Mugello che le Cure: al momento sulla linea transita meno di un treno l’ora e nelle ore centrali della mattina non si muove una foglia.
Le nostre proposte
Crediamo fortemente che il Servizio Ferroviario Metropolitano debba essere portato avanti come progetto cardine per una mobilità integrata, che veda treni, bus e tram (insieme alla rete delle piste ciclabili al progetto della bicipolitana ed ai servizi di bike sharing) lavorare tutti insieme con l’obiettivo di ridurre al minimo gli spostamenti con i mezzi motorizzati privati.
Il Servizio Ferroviario Metropolitano è cruciale:
Per questo siamo convinti che il Comune debba fare marcia indietro rispetto alle decisioni del 2011. Parallelamente alla realizzazione del passante AV di Firenze, la stazione Circondaria deve essere portata a termine, perché è uno dei tasselli indispensabili per un servizio Ferroviario Metropolitano.
Inoltre dovrebbe essere subito attivata la stazione di Perfetti-Ricasoli e rafforzato il cadenzamento della linea Faentina, attraverso un treno circolare, con attestamento a Campo di Marte e frequenze ogni 30’.
Nel grafico riportiamo un’ipotesi di massima realizzata a partire dalle analisi prodotte da AMT – Associazione per gli studi sulla Mobilità e i Trasporti in Toscana (ogni eventuale errore è imputabile soltanto a noi). Un progetto preciso avrebbe bisogno di tener conto della riorganizzazione del sistema regionale ma anche questo schema di massima rende chiare le potenzialità del progetto. Si vedono le 5 linee del SFM che collegano tutto il nord della città metropolitana. Questi treni, assieme ai regionali di più lunga percorrenza, garantiscono cadenze molto frequenti, di 5’ nella “cintura” e di 7′ e 30” verso SMN (numeri in rosso). In nero sono invece riportate le cadenze sulle direttrici dei treni regionali, 12′ da SMN a CM. Stessa cadenza fra Empoli e Circondaria.
Fonte: Nostra rielaborazione a partire da materiale AMT.
Sgomenti e inermi di fronte all’invasione dell’Ucraina abbiamo fatto alcune domande a Vanni Pettinà, esperto di guerra fredda, fiorentino ma da anni professore associato presso il Centro de Estudios Históricos del Colegio de México, università di riferimento in Messico per le scienze sociali.
Ecolo’: Ciao Vanni, grazie per la disponibilità a rispondere a queste domande. Sei uno storico delle relazioni internazionali, quindi partiamo da come siamo arrivati qui. Quali sono le radici storiche, politiche ed economiche delle tensioni tra Russia e Ucraina?
Vanni Pettinà: Dunque, io inizierei in modo diverso, dicendo che non esistono ragioni che, in termini di conflitto storico, possano offrire un nesso causale diretto per comprendere l’invasione russa dell’Ucraina. Ci sono ovviamente numerosi errori commessi da Washington, dall’Unione Europea e dalla NATO dopo il collasso dell’URSS, nel dicembre del 91. Potrei citare, per esempio, la shock therapy elaborata dall’economista statunitense Jeffrey Sachs per “aiutare” la Russia a integrarsi nell’economia di mercato, che produsse un impoverimento drammatico del paese con conseguenze sociali devastanti per i cittadini dell’ex URSS. Però, detto questo, non esiste un conflitto “storico” tale da rappresentare un nesso di causalità diretto con l’invasione. L’invasione avviene perché Putin ha deciso che un’Ucraina sovrana e indipendente non è tollerabile nei suoi calcoli strategici, razionali o meno che essi ci appaiano, ed è convinto di avere la forza militare necessaria per piegare il paese. C’è quindi una correlazione ma non una causalità diretta tra gli errori commessi da Europa, Stati Uniti e NATO e l’invasione dell’Ucraina.
Esistono piuttosto narrazioni prodotte dallo stesso Putin che si nutrono di una pseudo-storia, e che vengono usate dalla Russia per giustificare l’invasione. Come storico, sento la necessità di sottolineare che si tratta, appunto, di costruzioni inattendibili. Un esempio: l’annosa questione dell’espansione della NATO che viene indicata da Putin come uno dei motivi per dar avvio all’invasione. Anche se con un po’ di leggerezza l’Alleanza ha messo in effetti in agenda la sua ammissione nel 2008, ma l’Ucraina non appartiene all’alleanza e la sua entrata – come nel caso della Georgia, proprio per evitare un conflitto con la Russia – non era né prossima, né all’ordine del giorno. Inoltre, credo che sia necessario sottolineare che sono stati i paesi dell’ex Patto di Varsavia o della stessa URSS che, dopo l’implosione sovietica, hanno chiesto di entrare nella NATO e nell’EU, in parte anche come conseguenza dei traumi prodotti dalla loro collocazione sotto l’ombrello sovietico durante la Guerra Fredda. La lista potrebbe proseguire e potrebbe includere il fatto che non esiste una violazione storica e sistematica dei diritti della popolazione russoparlante dell’Ucraina. Come dimostra proprio la resistenza in massa contro l’invasione e che ha coinvolto anche cittadini di lingua russa, l’appartenenza culturale non coincide necessariamente con quella nazionale, come vorrebbe la narrazione caldeggiata da Putin. La storiografia più aggiornata che si occupa di storia della Russia ha da tempo sottolineato la necessità di diversificare proprio tra russkij e rossijskij, per definire l’aggettivo russo. Russo-russkij indica l’appartenenza culturale russa, mentre russo-rossijskij indica l’appartenenza allo stato-nazione russo. Si può dunque essere al medesimo tempo russo-russkij e cittadino di un altro stato – in questo caso dello stato-nazione ucraino. Non esiste la contradizione cui si appiglia Putin, che vorrebbe invece cancellare questa importante distinzione facendo coincidere appartenenza culturale con quella nazionale allo stato Russo. Questa coincidenza è un’invenzione, e come tale va criticata.
Ecolo’: Qual è la ragione fondamentale della scelta russa di invadere l’Ucraina?
Vanni Pettinà: Se assumiamo come verosimile il ragionamento di cui sopra, dobbiamo cercare proprio nella volontà di espansione di Putin la causa principale dell’invasione dell’Ucraina. Ora, cosa ci sia dietro questa agenda espansionista è difficile da dire e ci muoviamo nel regno delle ipotesi. La più plausibile, considerando la cultura politica d’appartenenza di Putin (legata ai settori più conservatori dell’ex URSS e al KGB, di cui era agente), è che ritenga che la Russia debba recuperare la posizione geopolitica mantenuta dall’URSS durante la Guerra Fredda. Ucraina ed Europa dell’Est, ma anche le tradizionali zone di influenza sovietiche in Medioriente, come la Siria, sembrerebbero rappresentare una specie di spazio vitale russo che deve essere riacquisito, senza escludere ovviamente il ricorso alla guerra. Anche perché la mancanza di un appeal russo politico-culturale, che invece aveva l’URSS, e dunque di un soft-power effettivo, rende per Mosca la guerra quasi uno strumento inevitabile per riappropriarsi di questo spazio vitale. Ovviamente, la debolezza politica degli Stati Uniti, dopo quasi due decenni di interventi dissennati in Medioriente, e quella della NATO, indebolita dallo stesso Trump durante la sua presidenza, hanno probabilmente convinto Putin che ci fossero le condizioni per un intervento senza reazioni rilevanti da parte di Stati Uniti, Europa e NATO. Ci potrebbe anche essere un calcolo che mira ad alimentare quel nazionalismo irredentista russo, stimolato dagli errori commessi dai Paesi dell’alleanza atlantica dopo il ‘91, che Putin ha cavalcato fin dal suo arrivo al potere e sul quale ha basato le sue fortune politiche.
Ecolo’: Quanto potrebbe durare questa guerra?
Vanni Pettinà: Questo dipende da due variabili fondamentali, credo. La prima è ovviamente la capacità di resistenza delle forze armate ucraine, fattore che a sua volta dipende anche dalla volontà e capacità dell’Europa e degli Stati Uniti di appoggiarle con aiuti militari ed economici. La seconda dipende invece dalla volontà Russa di impiegare livelli di violenza militare crescenti, proprio per stroncare la resistenza ucraina. Ad ogni modo, finita la fase più classica della guerra, quella attuale in cui si stanno fronteggiando due eserciti, mi pare plausibile prevedere la sua prosecuzione su un terreno di conflitto non convenzionale, in cui gli ucraini cercheranno di logorare con la guerriglia le forze armate russe.
Ecolo’: Come potrebbe finire?
Vanni Pettinà: È ovviamente difficile dirlo. Se però consideriamo sia la determinazione Russa nel proseguire il conflitto sia quella ucraina nel resistere, probabilmente lo scenario più plausibile potrebbe essere quello di una partizione del territorio ucraino in due, l’Est in mano alla Russia e l’Ovest sotto il controllo ucraino, probabilmente con Leopoli come nuova capitale.
Ecolo’: Qualcuno ha paventato la possibilità che Putin sia deposto dal suo stesso entourage. È una fantasia occidentale priva di fondamento?
Vanni Pettinà: È una possibilità. Le sanzioni potrebbero indebolire il patto tra oligarchi e Putin e muovere i primi a cercare una soluzione alternativa che permetta loro di non perdere la ricchezza accumulata e la cui salvaguardia, mi pare, sia ormai resa quasi impossibile dalle sanzioni economiche europee e statunitensi che hanno colpito duramente molti dei patrimoni degli oligarchi russi. La difficoltà, in questo caso, è che si tratta di una relaziona asimmetrica in cui sono più gli oligarchi a essere dipendenti dalle concessioni di Putin, non viceversa. Altra possibilità è che la guerra e i suoi costi vengano percepiti come eccessivi dalle stesse forze armate e dagli attori politici che sostengono Putin. Ci sono dei precedenti. Nel 64 Chruščëv venne spodestato dal potere attraverso un putsch di palazzo, proprio perché la sua politica estera, che aveva condotto alla Crisi dei Missili di Cuba nell’ottobre del 62, era stata ritenuta eccessivamente rischiosa e politicamente costosa per l’URSS. Morti e costi economici potrebbero innescare un processo simile, anche se al momento Putin pare essere saldamente al potere, sostenuto anche da una opinione pubblica irretita dalla propaganda e quindi non molto critica verso la guerra in Ucraina.
Ecolo’: Condividi la scelta di fornire armi alla resistenza Ucraina da parte dell’Italia?
Vanni Pettinà: Sì, perché temo che la possibilità di arrivare a un negoziato dipenda proprio dalla capacità di resistenza delle forze armate ucraine. Putin ha come obiettivo la conquista del Paese intero, solo se il costo di questa operazione dovesse divenire troppo alto potrebbe scegliere di negoziare una partizione. E il costo per la Russia dipende direttamente dalle sanzioni ma anche soprattutto dalla capacità di resistenza militare ucraina.
Ecolo’: Come si concilia la fornitura di armi a una delle due parti in guerra con il proseguimento dell’acquisto di gas dalle compagnie russe?
Vanni Pettinà: Male. Si tratta ovviamente del solito problema di mancanza di una visione strategica europea. È da tempo che, non solo il problema dell’Ucraina, ma, più in generale, quello di una Russia più assertiva o di un mondo geopoliticamente meno stabile, a causa dell’erosione dell’egemonia statunitense, sono processi evidenti. La dipendenza energetica europea, e soprattutto tedesca, dalla Russia è solamente un esempio dell’impreparazione europea di fronte alle sfide che il nuovo contesto lancia. Ma è, appunto, solamente una. La mancanza di un debito comune europeo o di un sistema di difesa continentale mi paiono altri elementi che, se la guerra dovesse estendersi, rivelerebbero altri punti altamente critici dell’impreparazione europea.
Ecolo’: Come immagini che cambieranno gli equilibri geopolitici dopo la fine di questo conflitto?
Vanni Pettinà: Paradossalmente, potrebbe cambiare a favore dell’Europa e degli Stati Uniti. La Russia uscirà molto indebolita, economicamente e geopoliticamente da questo conflitto. Le sanzioni prostreranno l’economia russa e l’immagine del paese ne esce devastata. L’invasione, invece, sta rafforzando la presenza della NATO che, in teoria, l’invasione voleva giustamente limitare. Anche l’Unione Europea sembra essersi di colpo svegliata. Finalmente si parla di una politica di difesa comune e di una politica energetica che la liberi dalla dipendenza dalla Russia. Gli Stati Uniti, inoltre, hanno ridotto grazie alla guerra i danni causati dalla presidenza Trump ma anche dai clamorosi errori commessi durante i decenni di arroganza unilaterale. Le ferite non sono ovviamente rimarginate, ma gli errori russi mi pare che aiutino Biden a tappare, almeno in parte, quelli statunitensi. Dal punto di vista sia russo che degli equilibri europei mi pare che il cambiamento più significativo sia la decisione tedesca di tornare a investire sulla propria forza militare. Va ricordato che l’intera architettura del sistema di sicurezza costruito dalla Russia dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale verteva proprio sul perno di una Germania demilitarizzata. Con questa invasione Putin è riuscito a rendere vana la morte di 26 milioni di russi durante la Seconda guerra mondiale, un numero che aveva in qualche modo legittimato le richieste sovietiche di disarmo tedesco.
Anche la Cina non mi pare esca bene dal conflitto, almeno dal punto di vista della sua immagine internazionale. Appoggiare l’invasione di un paese sovrano, anche se nella forma ambigua in cui lo sta facendo, non credo rassicuri i paesi con cui la Cina vuole commerciare e verso cui ambisce ad espandere la sua influenza politica e culturale. L’egemonia si basa anche e soprattutto sul consenso e questa invasione mi pare stia mostrando chi è in grado di generarlo e chi no.
Ecolo’: Qual è stato il ruolo della Cina e come potrebbe cambiare la sua strategia di lungo termine?
Vanni Pettinà: Come dicevo sopra, la Cina poco prima dell’invasione russa ha firmato con Mosca un patto di cooperazione. È evidente che i due paesi condividono un’agenda che mira a rivedere gli equilibri politico-economici su cui si basa l’ordine internazionale attuale. Il punto è che la Cina ha fatto del commercio e dell’integrazione economica due pilastri chiave della sua strategia di espansione globale. La guerra in Ucraina turba il normale operare dell’economia internazionale e quindi va contro la strategia cinese di usare le dinamiche economiche a suo favore. Ma l’appoggio all’invasione danneggia anche l’immagine di attore pacifico che la Cina ha cercato di costruire in questi anni per rassicurare gli interlocutori con cui commercia e intesse relazioni politico-economiche. La Cina è, rispetto alla Russia, un attore molto più integrato nell’economia globale e, dunque, ogni turbamento dell’ordine economico internazionale ha o può avere nel paese asiatico ripercussioni molto problematiche.
Ecolo’: I media occidentali hanno sottolineato che 135 stati hanno votato a favore della risoluzione di condanna alle Nazioni Unite. Tra i 35 paesi astenuti ci sono Cina, India e Pakistan (3 miliardi di persone). Puoi spiegarci perché India e Pakistan hanno votato assieme alla Cina?
Vanni Pettinà: Direi che sono posizioni dettate da convergenze geopolitiche e dal fatto che vi sono interessi economico-politici importanti. L’India, per esempio, mantiene una relazione di vicinanza politico economica con l’URSS fin dai tempi dell’indipendenza e, inoltre, in tempi recenti ha sviluppato importanti relazioni commerciali soprattutto nel settore degli armamenti.
Grazie del tuo tempo!
La foto di copertina è di Sergey Kozlov/EPA-EFE
di Caterina Arciprete
Lo scorso dicembre, l’Americal Political Science Review, un’importante rivista accademica americana, ha pubblicato un articolo dal titolo “Political legitimacy authoritarianism and climate change”. L’autore sostiene che nelle situazioni di emergenza può esservi un conflitto tra: (i) la capacità dello Stato di proteggere il cittadino ed (ii) il mantenimento dei diritti tipici di una democrazia liberale. In tal senso, le limitazioni imposte per fronteggiare la pandemia da Covid-19 rappresentano un esempio illustrativo. L’autore sostiene, poi, che i cambiamenti climatici rappresentano una minaccia di gran lunga peggiore rispetto alla pandemia in quanto metteranno a rischio la vita non solo dei cittadini di oggi, ma anche delle prossime generazioni. Nel futuro, quindi, la necessità di fronteggiare situazioni di emergenza legate ai cambiamenti climatici potrebbe condurre ad uno scenario in cui l’unico Stato in grado di affrontare la crisi climatica è uno Stato autoritario. L’autore conclude dicendo, che se questo non è auspicabile, è purtuttavia una possibilità da non scartare se la posta in gioco è quella di salvare il mondo e le generazioni future.
La domanda che ci poniamo in questo articolo è quindi la seguente: se la crisi climatica conduce ad una situazione di emergenza permanente, siamo disposti ad accettare uno “stato di eccezione”? Ovvero uno Stato in cui sono sospese alcune garanzie costituzionali al fine di rispettare il principio di giustizia intergenerazionale? Cosa ci sta insegnando la gestione della pandemia a tal riguardo?
Può aiutare ad orientarsi nella discussione un breve aneddoto storico citato da Gianfranco Pellegrino per introdurre il tema dello stato di eccezione.
La Mignonette, una piccola imbarcazione da diporto, partì il 19 maggio del 1884 dalla Gran Bretagna alla volta dell’Australia, su incarico di un magnate australiano che l’aveva acquistata. L’equipaggio contava quattro persone. La nave affondò il 5 luglio e i quattro trovarono riparo su una scialuppa. Chi li trasse in salvo tra il 26 e il 27 di luglio, però, trovò solo tre sopravvissuti, che vennero processati per l’uccisione e il cannibalismo del quarto membro dell’equipaggio. La pena di morte venne subito commutata a sei mesi, per effetto dell’opinione pubblica favorevole agli imputati.
Ovviamente questo racconto non corrisponde alla situazione che stiamo vivendo oggi, ma nella sua efferatezza descrive bene la tensione che può venirsi a creare tra necessità di mantenere i principi democratici e la necessità di proteggere i cittadini. L’aneddoto sembra dire che la giustizia “normale” valga in condizioni normali, non in quelle “eccezionali”. L’eccezionalità, dunque, sembrerebbe giustificare l’adozione di regole “diverse”. L’aneddoto dà, inoltre, lo spunto per analizzare alcuni elementi importanti.
La gestione della pandemia ci permette, poi, di provare ad affrontare un’altra tematica: in emergenza pandemica la popolazione ha accettato alcune misure estremamente forti e restrittive come il confinamento e il divieto di aggregazione. Sarebbe dunque disposta a rinunciare a possibilità che oggi reputa scontate (ad esempio la possibilità di mangiare carne da allevamento intensivo) con l’obiettivo di salvaguardare il pianeta e rispettare il principio di giustizia intergenerazionale?
In questo senso, la crisi climatica ha alcune differenze fondamentali con l’emergenza pandemica:
In conclusione, cosa impariamo dalla gestione dell’emergenza pandemica rispetto alla crisi ambientale?
Che trattare la crisi ambientale in ottica emergenziale potrebbe portare a strette autoritarie, minore trasparenza e fretta decisionale (Amnesty) e che ciò si potrebbe ripercuotere sul livello di coesione sociale di una comunità. Come si fa a costruire un consenso politico intorno a misure impopolari quando l’emergenza è ancora scarsamente percepita ed i risultati delle misure saranno apprezzati in misura prevalente dalle future generazioni?
La pandemia mostra che siamo in grado di affrontare delle misure “impopolari” quando ne capiamo il senso profondo, quando sappiamo che siamo dentro un processo “giusto” capace di distribuire i costi in modo equo. La sfida è rendere desiderabile quello che oggi risulta “impopolare”. Non ci sarà nessuna transizione senza che vi siano gli spazi democratici in cui si possa coltivare un consenso intorno alle grandi trasformazioni necessarie.
Anche per questo, il 5 Febbraio a Firenze, c’è stata l’Assemblea Ecologista promossa da Ecolò insieme ad altre importanti realtà ecologiste italiane.
Ecolo’ ha partecipato con grande soddisfazione all’organizzazione della prima Assemblea Ecologista. Nel corso della giornata si sono susseguiti interventi di tutto il mondo ecologista italiano e europeo. Hanno aperto i lavori Vula Tsetsi, segretaria generale dei parlamentari verdi europei a Bruxelles e Rossella Muroni, parlamentare di Facciamo Eco fra le ispiratrici della giornata. Dopo i saluti di Beppe Sala, sindaco di Milano, si sono avvicendati online e in presenza decine di relatori (48). Portatori di esperienze civiche ecologiste nei territori, amministratori locali, animatori di comunità e di movimenti, parlamentari e persone comuni, da Bari al Sud Tirolo, da Roma a Trieste. Impossibile riassumere quanto è stato detto ma la registrazione completa è disponibile all’indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=-g4pF3wcJ1Q
Alcuni partecipanti hanno rilasciato saluti e dichiarazioni prima e dopo il loro intervento:
https://assembleaecologista.org/contributi.php
I partecipanti sono stati tantissimi. Visti i limiti della sala solo 134 hanno potuto partecipare in presenza mentre poco meno di 200 sono stati gli accreditati per partecipare online che hanno seguito via Zoom i lavori.
Grazie alle donazioni di tanti promotori, dei parlamentari di Facciamo Eco, del gruppo Greens/EFA al parlamento Europeo, di Green Italia, di Ambientalmente Lecco e di Ecolo’, l’assemblea ha potuto chiudere il bilancio in attivo (il dettaglio delle spese e delle entrate è disponibile qui: https://www.assembleaecologista.org/rendicontazione_assemblea_ecologista.pdf )
Nel pomeriggio si è svolta l’assemblea dei promotori e di tutti quelli che essendosi accreditati avevano chiesto di partecipare online. Per decisione unanime l’Assemblea Ecologista ha deciso di non sciogliersi e di proseguire il cammino. Il documento conclusivo uscito dall’assemblea è scaricabile qui: https://assembleaecologista.org/ConclusioniAssemblea_bozza.pdf
Abbiamo lasciato l’assemblea con un grande senso di pienezza e la voglia di continuare a dare un contributo verso una proposta ecologista forte, inclusiva e convincente anche nel nostro paese.
Ecco alcune foto dell’assemblea!
di Giovanni Graziani
Al centro dei temi della transizione ecologica vi è, senza dubbio, quello dell’energia. L’energia è alla base di tutte le attività industriali, sociali, di svago e di utilità, ed è uno dei fondamenti necessari per il mantenimento del benessere della società. Allo stesso tempo l’impatto ambientale legato alla sua produzione, distribuzione e utilizzo è tale da necessitare una drastica revisione del sistema energetico nel suo complesso.
In Italia, l’energia consumata proviene ancora per circa l’80% da fonti fossili e per circa il 20% da fonti rinnovabili. Di questa energia solo il 21% è energia elettrica per gli usi finali (dati 2020).
Quando si parla di energia è inoltre utile spiegare come il sistema sia strutturato nelle varie fasi:
Chiarito,come usiamo l’energia, dobbiamo sottolineare che nella discussione sulla decarbonizzazione del sistema energetico, vari studi e scenari puntano sostanzialmente l’attenzione su due aspetti (più uno):
Questo comporta quindi:
Questo passaggio presenta alcune criticità da superare e su cui migliorare, per lo più relative all’intermittenza e non programmabilità della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili e alla conseguente necessità di gestire le differenze tra produzione e consumo attraverso sistemi di accumulo e stoccaggio, insieme alla gestione intelligente dei carichi.
Tra le varie soluzioni che possono essere d’aiuto in questa sfida vi è senza dubbio l’idrogeno, che può giocare un ruolo rilevante e sul quale l’Unione Europea ha presentato obiettivi molto ambiziosi, pubblicando nella sua strategia per l’idrogeno un target di 40 GW di capacità di elettrolizzatori al 2030, la cui capacità mondiale attuale e di 0,3 GW.
L’Italia stessa ha destinato all’idrogeno, all’interno del PNRR, 3,2 miliardi di euro e vorrebbe raggiungere al 2030 circa 5 GW di capacità elettrolitica, in linea con i piani di Francia e Germania. Vediamo meglio quindi come questo potrebbe avvenire.
Nell’obiettivo di spingere la decarbonizzazione verso una maggior produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, si avrà una produzione di energia elettrica che, in alcuni momenti del giorno o dell’anno, sarà superiore alle necessità della domanda. È qui che può diventare interessante utilizzare tale energia elettrica in eccesso in un elettrolizzatore per la generazione di idrogeno, scomponendo le molecole di acqua, trasformandola quindi in energia chimica che sarà così immagazzinata. Produrre idrogeno può diventare una delle soluzioni più interessanti e praticabili per superare il problema dell’intermittenza delle fonti rinnovabili.
Avremmo così a disposizione un vettore energetico da poter impiegare in diverse applicazioni, grazie alla sua versatilità, in particolare in quei settori per i quali è più difficile immaginare l’elettrificazione: pensiamo al trasporto pesante su terra, all’aviazione, alle grandi navi e alla siderurgia. La ricerca in questi settori è in grande fermento con alcune applicazioni operative interessanti, come il treno a celle combustibile, alimentate a idrogeno, prodotto dalla Alstom, funzionante sulle linee tedesche e in arrivo anche in Italia entro il 2023 (https://www.alstom.com/it/press-releases-news/2020/11/alstom-fornira-i-primi-treni-idrogeno-italia). Nel settore aereo, Airbus sta progettando alcuni velivoli alimentati a idrogeno che potrebbero, stando alle loro dichiarazioni, entrare in commercio nel 2035.
Altrettanto importanti possono essere le applicazioni nella siderurgia, comparto industriale altamente inquinante ma strategico (come spesso le cronache di Taranto ci hanno ricordato). Qui l’idrogeno può essere utilizzato al posto del carbone nella reazione di riduzione degli ossidi ferrosi in ferro metallico.
Al di là delle possibili applicazioni, al giorno d’oggi il problema però è che quasi la totalità dell’idrogeno prodotto a livello mondiale proviene da fonti fossili (idrogeno grigio), attraverso un processo di reforming dal metano (reazione chimica ad alta temperatura tra vapore acqueo e metano che ha come prodotti idrogeno gassoso e ossidi di carbonio) o da carbone. Questo avviene per motivi essenzialmente economici: costa infatti circa 1-2 dollari al kg, rispetto ai 3-7 dollari al kg per l’idrogeno verde prodotto da rinnovabili. La sfida sarà quella di perfezionare la tecnologia e aumentare in modo consistente la grandezza degli elettrolizzatori che, insieme al calo dei costi dell’elettricità da rinnovabile, permetterà di produrre idrogeno verde a prezzi competitivi.
Per completezza di analisi, esiste anche una via intermedia, il cosiddetto idrogeno blu, strada fortemente spinta dall’industria legata ai fossili perché consentirebbe di produrre idrogeno dal metano in modo “relativamente pulito” separando la CO2 e confinandola all’interno dei giacimenti di gas esauriti.
In conclusione, possiamo dire che l’idrogeno può avere un ruolo importante nella transizione del sistema energetico verso la decarbonizzazione, solamente se connesso allo spostamento della produzione di energia elettrica verso le rinnovabili. Tale obiettivo deve essere primario e porterà maggiori benefici in senso assoluto, lasciando all’idrogeno un ruolo chiave nei settori hard-to-abate (“difficili da abbattere”), ma comunque di nicchia rispetto all’elettrificazione diretta.
Per descrivere il ruolo dell’idrogeno nella transizione energetica Giulio Mattioli, esperto in decarbonizzazione dei trasporti e ricercatore dell’Università di Dortmund, usa una metafora:
L’idrogeno è come lo champagne e andrebbe trattato come tale: un prodotto energivoro, adatto e utile solo a settori di nicchia.