A venti anni dal Social Forum Europeo, Firenze ha accolto un importante incontro di convergenza tra centinaia di attivisti, in rappresentanza di più di 150 organizzazioni italiane, europee e internazionali, per discutere di come darsi maggiore forza ed efficacia di fronte alle grandi sfide dell’oggi: la guerra nel nostro continente, il collasso climatico e ambientale, l’inaudita crescita della diseguaglianza, il consenso popolare alla destra estrema, lo svuotamento della democrazia.
Anche Ecolò ha partecipato, attraverso Assemblea Ecologista, la rete di associazioni locali ecologiste di cui fa parte.
Qui in basso riportiamo il discorso per intero.
“Sono Caterina Arciprete, rappresento Assemblea Ecologista, una realtà nata nel 2022 dalla rete tra associazioni politiche ecologiste locali che hanno un comune alcuni aspetti: un forte radicamento locale, il guardare il mondo da una prospettiva ecologista e l’essere orfani di una rappresentanza a livello nazionale che abbia le competenze e la credibilità di costruire – piuttosto che postulare – la transizione ecologica.
Oggi sono 20 anni dal Social Forum Europeo, ma sono anche 50 anni dalla Conferenza di Stoccolma che si è tenuta nel 1972: quella conferenza è stata la prima dell’ONU sull’ambiente umano che metteva sul tavolo due fatti: 1) siamo tutti interdipendenti; 2) ora non vediamo ancora gli effetti, ma stiamo sfruttando l’ambiente in un modo che non è sostenibile e che ci condurrà a scenari catastrofici. Dobbiamo agire.
A 50 anni dalla Conferenza di Stoccolma ed a 20 anni dal Social Forum Europeo, il bilancio è molto negativo.
Per noi il mondo più naturale di rispondere alla domanda: da “come vincere le destre”, è riformularla in “come portare al governo una visione ecologista” visto che anche negli anni passati scelte sbagliate sono state fatte a destra e a sinistra, e proprio dentro quest’ultima abbiamo visto il dramma e l’inutilità dell’aver messo in contrapposizione temi come diritto alla salute e diritto a lavoro. Tutto ciò sempre in chiave estremamente antropocentrica, non riconoscendo mai il diritto alla natura di esistere.
Oggi le evidenze ci fanno capire chiaramente che l’unica prospettiva che guarda al futuro è una prospettiva di tipo ecologista che declina nella sua azione tre aspetti: l’importanza della diversità (la forza di un ecosistema dipende dalla diversità delle specie al suo interno), la legge dell’interdipendenza, la consapevolezza che le risorse sono limitate.
Una prospettiva ecologista, quindi, non è limitata alla visione ambientalista, ma si pone come cornice di metodo e direzione. Una prospettiva ecologista – e progressista – non è fatta dalla somma delle battaglie dei comitati e delle lotte, ma dall’integrazione delle diverse istanze in un’ottica di equilibrio, interdipendenza e valorizzazione della diversità.
Pertanto, è un lavoro faticoso, fatto di dialogo, apertura, cura, concertazione, empatia.
Crediamo che i tempi siano maturi, la necessità della transizione ecologica si sta palesando nelle sue manifestazioni più drammatiche e sta diventando un “valore”, soprattutto tra i ragazzi e le ragazze più giovani. Quindi a noi la responsabilità, da un lato di portare questa visione e questi valori in tutti i luoghi della vita pubblica e della società riappropriandosi di luoghi e spazi lasciati alle destre, dall’altro di lavorare incessantemente affinché la politica faccia un salto, ovvero smetta di tenere insieme i particolari in un equilibrismo precario e di facciata a crei un equilibrio reale tra persone e l’ambiente in cui viviamo.”
Ecolo’ è fra le venti associazioni, movimenti, soggetti economici, interrogano la politica e chiedono una vera svolta rinnovabile per l’Italia
Venti grandi associazioni nazionali coordinate da Cittadini per l’Italia Rinnovabile chiedono alla politica garanzie e impegni precisi, per una svolta rinnovabile necessaria, senza più tentennamenti.
E lo faranno in una maratona on line, in diretta su facebook, dalle ore 16 alle ore 22, domenica 18 settembre 2022, che sarà trasmessa sui canali fb di vari associazioni promotrici, tra cui Ecofuturo, Ecolobby e, appunto, Cittadini per l’Italia Rinnovabile.
Il parterre dei promotori è davvero ricco.
Ci sono associazioni ecologiste storiche (e più recenti) come Legambiente, Wwf, Kyoto Club, Ecofuturo, Ecolobby, Ecolo’, Rinascimento Green, Cetri-Tires.
Ci sono le sezioni italiane dei nuovi movimenti mondiali contro il climate change come Fridays for Future ed Extinction Rebellion.
Ci sono associazioni legate all’imprenditoria rinnovabile e dell’efficienza energetica, come Coordinamento free, Italia Solare, Giga, i produttori di pompe di calore (Arse), e di biometano (Cib).
C’è la stampa di settore come Greenreport e QualEnergia.
C’è una grande associazione sociale storica come l’Arci nazionale, che ha da tempo sposato una riflessione molto forte sul tema energetico, e l’Isde, Associazione Nazionale Medici per l’Ambiente.
“Chiediamo a tutte le liste presenti alle elezioni e a tutte e tutti i candidati di rispondere in merito alla nostra agenda politica, con un breve video o un post, e di rendersi disponibili ad intervenire in diretta al nostro evento on line del 18 Settembre ” – dichiarano i promotori dell’iniziativa.
Alcuni interventi alla maratona on line già assicurati sono quelli di Gianni Silvestrini, Francesco Ferrante, Annalisa Corrado, Fabio Roggiolani, Katiuscia Eroe, Maria Grazia Midulla, Agnese Casadei, Luca Sardo, Giovanni Mori, Sergio Ferraris, Michele Dotti, Daniela Passeri, Elena Pagliai, Gaia Pedrolli, Mauro Romanelli, Ricccardo Bani, Giovanni Graziani, Averaldo Farri, Stephanie Brancaforte … “ma ce ne saranno diversi altri”, si assicura.
I candidati che per adesso hanno garantito la propria partecipazione sono per il Pd Chiara Braga, per il csx Rossella Muroni, per il M5s Livio de Santoli, Patty l’Abate e Tony Trevisi, per Più Europa Simona Viola, per Noi Moderati Sergio Santoro, per Sin Ita/Verdi/Possibile Angelo Bonelli, per Unione Popolare Francesca Conti e Maurizio Acerbo.
La piattaforma politica è molto chiara, concisa e senza ambiguità, e si legge in un fiato: sbloccare i Gw fermi causa burocrazia, riscrivere il piano nazionale energia e clima e il capacity market, puntare senza indugi su comunità energetiche, mobilità elettrica, agrivoltaico e biometano, migliorare il superbonus ed estenderlo al’edilizia pubblica.
Le domande sono sul piatto, ora vediamo le risposte.
E’ giusto che le istituzioni si interessino di cosa mangiamo? Come scegliamo da un menù cosa mangiare e che conseguenze ha questo sul nostro pianeta? Abbiamo Intervistato Daniele Pollicino, Messinese trapiantato a Londra, dottorando di Psicologia e Scienze Comportamentali alla London School of Economics.
Ecoló: Ciao Daniele e grazie per il tempo che ci dedichi per questa intervista. Per prima cosa ci racconti chi sei?
Mi chiamo Daniele Pollicino, ho 28 anni ed al momento ricopro una posizione come dottorando di ricerca presso la London School of Economics and Political Science (LSE). Mi ritengo un ragazzo semplice, cresciuto in Sicilia e da sempre affascinato dal funzionamento della mente umana (che non smetterà mai di sorprendermi e stupirmi).
Dopo circa una decade di frequenti spostamenti per motivi di studio, oggi vivo a Londra e faccio parte del Dipartimento di Psicologia e Behavioural Science (Scienze Comportamentali) della LSE, dove studio meccanismi e dinamiche di comportamento umano legati al mondo della sostenibilità alimentare. Sono profondamente grato ad i miei due supervisori (Ganga Shreedhar e Matteo Galizzi) per aver creduto nella validità del mio progetto di ricerca ed avermi dato la possibilità di unirmi a questo incredibile Dipartimento.
Ecoló: Ci racconti il percorso che ti ha portato a Londra?
Londra è sempre stata nei miei pensieri. Sono siciliano, di Messina, ma ho vissuto e studiato per tanti anni fuori. Dalla prima esperienza negli U.S.A. a diciassette anni dove ho frequentato il quarto anno di liceo, agli anni di università in Trentino, per poi trasferirmi prima a Maastricht in Olanda e poi ad Oxford in UK. Un lungo percorso universitario che mi ha permesso di realizzare un sogno: vivere e fare ricerca a Londra.
Dopo essermi laureato e specializzato nel campo delle Neuroscienze, ho deciso di intraprendere un percorso leggermente diverso ma che mi permettesse di rispondere a domande di ricerca che ritengo fondamentali in questo particolare momento storico della nostra società. Per me oggi è un sogno poter studiare e lavorare sul tema che più mi sta a cuore. Londra è una città dove ero sicuro avrei trovato ciò che cercavo e che potrei riassumere come un intreccio di interessi e passioni che includono la ricerca scientifica, l’attivismo climatico e la musica.
Ecoló: Puoi spiegarci in modo comprensibile di cosa si occupano le tue ricerche?
Il mio progetto di ricerca riguarda i comportamenti alimentari. Individuali e collettivi, a partire da chi va a fare la spesa a chi va a cena al ristorante. Ciò che studio mi permette di esplorare i fattori che motivano le varie scelte alimentari e le barriere che le ostacolano, per poter capire come intervenire e potenzialmente influenzarle. Nel campo della sostenibilità alimentare questo si traduce ad esempio nel promuovere una riduzione del consumo di prodotti a base animale e promuovere l’adozione di abitudini di tipo “plant-based”, ossia derivante da un utilizzo di risorse a base di piante. Una dieta quindi prevalentemente vegetariana.
Se vogliamo essere più specifici, sono personalmente interessato allo studio delle norme sociali riguardo ciò che mangiamo. Le norme sociali possono essere descritte come un insieme di regole o standard di comportamento informali e non scritti. Molto spesso aderiamo a questo tipo di norme senza rendercene conto. Possono riferirsi a ciò che la maggior parte delle persone in un gruppo pensa o fa. Questo esercita una forte influenza sul nostro comportamento, perché seguire (o non seguire) le norme è associato a giudizi sociali. Ecco un esempio. Quando parliamo di cibo, ciò si traduce spesso nell’associazione di una dieta vegetariana ad una ridotta mascolinità della persona. Un’associazione che a livello percettivo costituisce una forte barriera all’adozione del tipo di alimentazione vegetariana. Cambiare queste narrative sociali è oggi fondamentale per muoversi verso una società che deve urgentemente prendere una posizione forte e consapevole contro i cambiamenti climatici.
Ecoló: Spesso l’opinione pubblica ironizza su chi pone l’accento sull’insostenibilità di come mangiamo. Come se non fosse un elemento centrale della transizione. Quando introduci le tue ricerche quali evidenze risultano convincenti nello spiegare che si tratta invece di un aspetto fondamentale?
Assolutamente vero, si parla ancora poco di cibo e della transizione che l’industria alimentare dovrà affrontare. Sinceramente, comprendo l’ironia. Il cibo è un argomento davvero complicato. Ciascuno di noi ha con esso una relazione molto intima e personale ed è per questo che è davvero difficile cambiare le abitudini alimentari. Tuttavia, è una conversione che dobbiamo iniziare a compiere. Quando mi presento e spiego cosa faccio cerco sempre di affrontare l’argomento a piccole dosi.
Non essendoci grande divulgazione di informazione al riguardo, la maggior parte di noi ignora i lati distruttivi della moderna industria del cibo e di come le lunghe filiere che ci fanno arrivare il cibo in tavola stiano compromettendo il futuro del nostro pianeta su diversi livelli. Tanto si parla di transizione energetica e di macchine elettriche, ma in tanti non sanno che il sistema alimentare mondiale è responsabile della produzione di circa un terzo delle emissioni climalteranti (CO2 equivalenti), che sono oggi la principale causa del riscaldamento globale. Un sistema molto complesso sì, ma nel quale alcuni semplici cambi di abitudine alimentare possono già avere grande impatto.
Ad esempio, sostituire prodotti a base animale con prodotti a base di piante potrebbe ridurre le emissioni derivanti dalla produzione alimentare del 55% pro capite rispetto ai modelli alimentari previsti per il 2050. Il consenso scientifico al riguardo è ormai indiscutibile: abbandonare la carne e i latticini è il modo più efficace per rigenerare i nostri ecosistemi e prevenirne la distruzione. Per non parlare del profilo più sociale della questione, ad esempio soltanto in Italia l’industria si sporca le mani del sudore e sangue di manodopera/lavoratori a basso costo (principalmente immigrati). Caso più noto quello del sistema del caporalato e della produzione di pomodori.
Ecoló: Nella tua ricerca ti sei occupato di nudging (spesso tradotto in italiano con “spingere dolcemente”), strumenti che le istituzioni possono utilizzare per modificare la percezione delle persone che compiono scelte e che alla fine li inducono a comportarsi in un modo piuttosto che in un altro. Qualcuno potrebbe vedere in questi strumenti una forma di manipolazione. In che misura pensi che sia legittimo per lo stato usare questi strumenti?
Devo dire non ero al corrente di questa traduzione “spingere dolcemente”, la trovo interessante e probabilmente rende abbastanza bene l’idea. Nudging significa orientare scelte di comportamento e azioni di individui e gruppi di persone verso direzioni desiderabili. Sottolineando che questo non comporta la perdita di libertà di scelta di queste persone! L’opzione A e l’opzione B sono entrambe presenti nel panorama di scelta, tu hai ancora tutte le capacità e risorse per scegliere quella che preferisci. Quello che succede è che “io” cercherò di indirizzarti verso una delle due. Nel caso della sostenibilità alimentare, sarà quella che a livello scientifico risulta essere meno nociva e più benefica nei confronti del pianeta, la nostra salute e del mondo animale.
Chi oggi contesta il nudging come una forma di manipolazione poco etica lo fa anche perché rimane comunque viva la domanda etica e filosofica, “chi sei tu per decidere cosa è desiderabile?”. Una posizione comprensibile che porta a conversazioni interessanti. Negli ultimi mesi ho tanto sentito parlare di come rendere strategie di nudging sempre più trasparenti e sincere, cercando di rendere le persone il più coinvolte possibile nei processi di formulazione ed implementazione di queste strategie.
Dalla mia mi sento di difendere questa pratica in quanto, in particolar modo nel mio caso, essa deriva da lunghi processi di studio su come rendere il nostro futuro meno incerto e più equo nei confronti di chi già oggi subisce le conseguenze di scelte da noi, più o meno inconsapevolmente, fatte. Sfido chi ritiene “le mie dolci spinte” poco legittimate a riflettere sulla quantità di strumenti di promozione e marketing delle quali ogni giorno siamo vittima. In un mondo dove si stima l’americano medio veda circa 5000 messaggi commerciali al giorno, cosa che induce poi a ritenere il consumo e lo spendere come unica fonte di appagamento e soddisfazione personale.
Ecoló: Vuoi farci un esempio di utilizzo virtuoso di questi strumenti per il quale è possibile quantificare la riduzione di emissioni ottenuta?
Per riprendere ciò che dicevo prima, si stima che nel Regno Unito il passaggio da una dieta ad alto contenuto di carne (>100g al giorno) a una dieta interamente vegetariana ridurrebbe le emissioni climalteranti del consumo di una persona del 47%. Se parliamo di singoli cambi comportamentali nella nostra vita quotidiana, questa è una percentuale altissima!
Nell’ambito delle politiche alimentari, utilizzare “default verdi” sembra essere un intervento efficace per ridurre il consumo di carne; si tratta di presentare scelte vegetariane come impostazione predefinita. Nel caso di una cena al ristorante, il menù principale conterrà solo opzioni vegetariane, ma sottolineando la possibilità di indicare la propria preferenza non vegetariana e scegliere altro. Molte scelte alimentari tendono ad essere fatte in modo rapido e intuitivo, e la maggior parte di noi preferisce così non deviare dalla scelta predefinita, per motivi di pigrizia o magari perché deduciamo tutti siano d’accordo con essa. È stato dimostrato che questo tipo di strategie incoraggiano un consumo più sostenibili. In studi provenienti da tre conferenze nel 2019, l’uso di default ha permesso a un gruppo di ricercatori in Danimarca di aumentare la percentuale di scelta del menù vegetariano dal 2% al 87%. Non tutti gli studi hanno risorse sufficienti per poi quantificare oggettivamente la riduzione di emissioni ottenute, spesso ci si limita a calcolare la differenza nel numero di vendite/ordini e stimare i benefici.
Ecoló: La nostra impressione è che il Regno Unito sia più avanti dell’Italia nella transizione, sei d’accordo, qual è il primo e più urgente intervento che importeresti nella penisola dalla Gran Bretagna?
Chi mi conosce sa bene che non sono un italiano estremamente patriottico, ma in questo caso devo esserlo. Se ci spingiamo a dire che il Regno Unito è più avanti nella transizione alimentare, io mi spingo a dire che l’Italia è così indietro che si trova in realtà avanti. Mi spiego. Il consumo alimentare in Italia segue pratiche che per nostra fortuna sono già più sostenibili di natura. La dieta Mediterranea è un piccolo gioiello del quale dovremmo gioire e riconoscerne il privilegio di poterne usufruire, mentre la dieta media UK segue consumi diversi che portano ad esempio ad avere prodotti a base di carne in quasi tutti i pasti. Sono forse più avanti, ma anche perché hanno più strada da fare.
Ciò detto, preferirei non essere frainteso. Anche noi in Italia dovremo cambiare i nostri consumi. In effetti mi sembra personalmente più facile influenzare futuri consumi alimentari in UK piuttosto che in Italia, forse perché la nostra tradizione e il nostro patrimonio culturale di cibo è qualcosa di davvero fortemente radicato nella nostra storia e società. Al momento vedo il concetto del plant-based, di una riduzione del consumo di carne, dell’adozione di diete vegetariane/vegane essere più in voga in UK. Ma anche per questo tipo di sfide ritengo interessante il lavoro che faccio questi giorni.
Ecoló: Sei d’accordo che politiche di “spinta dolce” potrebbero non bastare? Pensi, come noi, che serviranno a breve anche spinte decise (e pedate nel sedere!)?
Questo è un punto molto interessante. Questo tipo di politiche hanno conosciuto grande fortuna e popolarità negli ultimi anni, ma non sempre grande successo. Questo perché si sta capendo sono molto più dipendenti dal contesto dove vengono implementate di quanto si credesse. Di base, la stessa misura politica di “spinta dolce” applicata in Italia o in Regno Unito può portare ad esiti ben diversi.
Ultimamente si parla spesso in ambito accademico di come queste possano/debbano essere implementate da misure più “decise”, come dite voi. Queste possono essere tasse, divieti e regolamentazioni più severe che lasciano meno possibilità di scelta al cittadino. Tanti studi stanno dimostrando come l’uso combinato e integrato di spinte “dolci” e “decise” possa spesso portare risultati più desiderabili ed anche più efficaci/rapidi, che nel caso di misure rivolte a contrastare il cambiamento climatico servono nel modo più rapido possibile!
Ecoló: Sulla tua pagina istituzionale ti definisci “attivista per il clima”. È nato prima l’attivismo o la ricerca sulla sostenibilità delle nostre diete?
Assolutamente prima l’attivismo. Continuo a sperare che quel lato prevalga sempre su quello di ricerca (cosa non forse troppo conveniente per il mio futuro accademico). Devo ringraziare le persone incontrate ad Oxford e le tante discussioni che ho avuto modo di avere durante quel periodo di studio. Sono stato profondamente colpito dalla devozione di alcuni di loro alle cause per le quali combattevano, utilizzando gran parte del proprio tempo tra studi e vita privata. Mi hanno spinto a pensare che anche io potevo fare di più. Che dovevo fare di più facendo io parte di quella parte privilegiata della società che può permettersi di fare cambi di vita senza in fin dei conti troppi sforzi. Molti di noi, abitanti del ricco mondo occidentale, facciamo parte di questo gruppo, per quanto lo si voglia credere o no è così.
La ricerca sulla sostenibilità delle nostre diete è poi stata in gran parte ispirata dagli studi di mio fratello Dario, il quale faceva già parte di questo campo di studio, anche se più dal punto di vista della lotta verso una produzione agricola più solidale e che rispetti maggiormente sia il territorio che i suoi lavoratori.
Ecoló: C’è chi sostiene che la scienza debba studiare il mondo nel modo più oggettivo possibile. Talvolta i ricercatori sono accusati di approcciare i loro studi con una lente ideologica. Pensi che sia una critica fondata nel tuo caso? O avere una forte motivazione politica è un elemento di forza per la tua attività professionale?
Di certo approcciare il metodo scientifico influenzati dalla soggettività personale non è ideale se si vuole nel tempo condurre ricerca rigorosa e che abbia metodologicamente senso. In fin dei conti, ci fidiamo dei risultati scientifici esattamente perché la sua evidenza dovrebbe essere inconfutabile. Se manca il rigore, andiamo a parlare di pseudoscienza.
Ciò nonostante, nel mio caso particolare credo che una contaminazione ideologica possa anche risultare benefica. Nell’ultimo anno, ho più volte ascoltato le parole di un collega di Cambridge (Kristian Nielsen) durante le sue presentazioni. Sostiene che gli psicologi possono migliorare il loro contributo alla mitigazione del declino ambientale se ci si concentra principalmente sull’impatto dei fenomeni studiati, e solo secondariamente sulla rilevanza della teoria nel definire le priorità di ricerca. Il nostro campo di studio è di certo particolare e la scienza (della quale ci fidiamo) ci dice appunto che non abbiamo troppo tempo per cambiare le cose. Dunque, se la mia motivazione politica può portarmi a lavorare su progetti che cercano di avere un impatto nella vita reale piuttosto che solo a livello accademico, credo ne sarò solo contento. Se poi si riesce ad ottenere entrambi i risultati, ben venga.
Ecoló: Con le elezioni che si avvicinano in Italia la nostra impressione è che gli ecologisti rischino ancora una volta di dover scegliere fra partiti ben organizzati ma totalmente sordi alle urgenze della crisi climatica e partitini che, pur avendo chiare le priorità, non sono all’altezza della sfida in termini di classe dirigente e organizzazione. Cosa è mancato al movimento politico ecologista italiano in questi anni? Cosa possiamo fare per non ritrovarci fra qualche anno ancora in queste condizioni?
Questa è una domanda alla quale vorrei rispondere con la maggior umiltà possibile. Nel senso, non vivo in Italia da ormai tanti anni. Il mio occhio è sempre rimasto vigile su quanto accade nel nostro Paese, ma non vorrei mancare di rispetto al nostro movimento politico ecologista senza una totale cognizione di causa.
Quello che posso permettermi di dire, è che vedo in Inghilterra una larga e diffusa presenza di gruppi “grassroots”, ossia di gente comune che cerca il cambiamento dal basso. Comunità locali che operano principalmente a livello di quartiere, per poi spesso unirsi al medesimo movimento cittadino e nazionale. Giorno dopo giorno diffondono il loro messaggio e riescono così pian piano ad arrivare alla popolazione generale. Trovo in primo luogo un interesse verso quelle che sono appunto le problematiche di quartiere. Pensare sì alle sfide a livello globale, ma agire anche molto a livello locale. Forse questa è una delle chiavi del loro successo.
Molte persone si uniscono perché vedono un obiettivo comune che a loro interessa perché impatta direttamente la loro vita privata! Non tutti possono unirsi al movimento perché animati da forte spirito empatico, rivolto a comunità lontane nello spazio e/o nel tempo, al mondo naturale e/o animale. A tal punto, la psicologia e le scienze comportamentali possono sicuramente aiutare a trovare risposte. In questo momento, membri del mio gruppo (Planet Lab) stanno conducendo ricerca per conto di Extinction Rebellion.
Anche qui, non voglio intendere in Italia questi gruppi non esistano. Anzi, quelli che conosco operano anche bene a mio parere. Ma evidentemente si potrebbe operare anche meglio. Non sarebbe male avere il sostegno delle istituzioni, le quali oggi sembrano invece più al servizio di poteri ed interessi privati capitalisti che di veri processi democratici e popolari.
Grazie ai social media sono in contatto con tanti altri attivisti italiani, soprattutto giovani. Per me quella è la speranza: vedere una nuova ondata di energia e coraggio che può davvero cambiare le cose, con grande resilienza, una testa alla volta.
Sto imparando molto in questi mesi e spero di poter rispondere meglio a questa domanda la prossima volta che parleremo.
Ecolo’: grazie mille del tuo tempo Daniele. A presto!
Abbiamo intervistato Andrés Lasso, biologo, giardiniere e responsabile per Legambiente Toscana del verde urbano, già candidato sindaco per la Federazione dei Verdi a Firenze nel 2019.
Ecolo’: Ciao Andrés, grazie per la tua disponibilità, per prima cosa vorremmo chiederti se quello che ci sembra di vedere attorno a noi, cioè un deperimento del verde urbano e periurbano, è una suggestione o è confermato dai dati a tua disposizione?
Grazie a voi per questa occasione di confronto. Il deperimento del verde c’è, teniamo conto che abbiamo vissuto un’estate davvero eccezionale, (che purtroppo sta diventando la norma o quasi), con cinque intense e prolungate ondate di calore in contemporanea a una siccità spaventosa. Anche specie adattate a climi caldi e asciutti, penso all’alloro, sono andate in gran sofferenza.
Al netto di questa eccezionalità, questo deperimento ha anche spesso delle cause più circoscritte: errata pianificazione, budget scarsi o allocati in modo sbagliato, assenza di risorse, mancanza di competenza. Tutto questo incide sulla qualità complessiva del verde urbano.
Ecolo’: Le piante che muoiono sono necessariamente piante che sarebbero morte comunque in breve, o sono piante meno adatte al clima che cambia?
Le piante possono morire per vari fattori. Incide ad esempio l’età e la dimensione di una pianta (piante messe a dimora da grandi hanno enormi esigenze idriche per almeno due se non tre estati consecutive), la specie utilizzata, la posizione, la qualità del lavoro fatto e del materiale vivaistico, la stagione in cui viene fatto. La messa a dimora per una pianta è un passaggio delicato, un certo tasso di mortalità sui nuovi impianti può essere fisiologico, l’impressione nella nostra città è che siamo molto oltre il tasso considerabile come accettabile. Il clima che cambia richiederebbe una maggior attenzione alle piante di recente messa a dimora durante stagioni estive così critiche. Questa attenzione complessivamente è molto carente.
Ecolo’: Sappiamo che le due persone morte a Lucca e a Massa per il maltempo sono state entrambe schiacciate da alberi che non hanno retto alle raffiche di vento. Possiamo aspettarci gli stessi rischi in autunno nelle nostre città? Che problemi pongono dal punto di vista della sicurezza?
Quando avvengono raffiche di vento oltre i 100 km/h gli alberi iniziano a fare paura, lo so bene. Va detto che anche oggi in epoca di eventi estremi, il rischio di morire schiacciati da un albero resta un rischio relativamente basso, inferiore a quello di essere colpiti da un fulmine, enormemente inferiore a quello di essere investiti da un’auto. Questo non deve certo condurci a una sottovalutazione del rischio, deve farci pensare però in termini di rischio accettabile, perché il rischio zero non esiste in nessun campo e neanche nell’arboricoltura. Deve anche portarci a una maggior competenza nella gestione dell’alto fusto, perché spesso le piante più pericolose sono piante potate male (anche nell’ultimo evento ho visto molte piante sbrancate in corrispondenza di precedenti capitozzature). Deve anche portarci a una revisione dei protocolli. Il sistema VTA (visual tree assessment) con le sue classi di rischio, è un sistema che dobbiamo considerare obsoleto, come affermato dal dottor Luigi Sani in un recente convegno dell’ANCI Toscana.
Ecolo’: curiosamente i grandi accusati di mettere a repentaglio la sicurezza in città, i pini, sembrano stare benone. È anche qui una nostra impressione o in effetti si tratta di piante più capaci di resistere al clima più caldo e siccitoso?
Il pino domestico si è guadagnato una cattiva fama negli ultimi anni tra la cittadinanza e tra gli amministratori. Al punto che si vedono spesso abbattimenti di interi filari per sostituirli con altre specie. In realtà un pino allevato bene è una pianta che sa resistere ai venti forti. A Trieste, città in cui soffia la bora vari giorni all’anno, una delle piante prevalenti è il pino domestico, oltre al pino d’Aleppo. Nell’ultimo evento a Firenze si sono avuti venti molto intensi su chiome asciutte (la pioggia è caduta dopo le forti raffiche) In queste condizioni sono andati più in sofferenza i cipressi ad esempio, i pini hanno retto benissimo. Comunque credo che su queste situazioni sappiamo ancora poco, ci basiamo per lo più su osservazioni empiriche riguardanti fenomeni che fino a poco tempo fa erano rarissimi. Un dato a sfavore del pino è quello che riguarda i sempreverdi: siccome molti eventi estremi arrivano d’inverno, quando altre specie non hanno foglie e dunque oppongono meno resistenza al vento, è chiaro che gli eventi invernali faranno danni più facilmente su pini o cedri piuttosto che su tigli o platani.
Ecolo’: Nella foto qui sotto vedi un esempio della difficoltà del Comune di Firenze nel difendere le piante dalla siccità. Si tratta degli alberi piantati davanti all’ex Meccanotessile. Come è possibile che, per il secondo anno consecutivo, questi alberi vengono piantati e di nuovo muoiano tutti? Si tratta di morti inevitabili? O più verosimilmente c’è qualche errore?
Non avendo visto la situazione di persona dico di aspettare qualche settimana a darli per morti perché a volte le piante stupiscono, e tra la chioma secca potremmo veder spuntare qualche gemma. Molto probabilmente ci sono stati degli errori, sicuramente trascuratezza nelle annaffiature estive. Sul meccanotessile se vediamo una foto aerea precedente al cantiere vediamo che il verde era ben superiore e l’asfalto minore. In situazioni come quella in foto, con l’asfalto che arriva molto a ridosso del colletto della pianta, la temperatura alla quale la pianta può trovarsi nelle giornate di caldo estremo diventa veramente altissima. Tra l’altro secondo il regolamento del verde del comune di Firenze, la “zona di rispetto dell’albero” dovrebbe avere un raggio che va dai 2 ai 4 metri in base al tipo di specie. Da quello che si vede in foto la distanza tra l’asfalto e il fusto è intorno a un metro circa.
Ecolo’: Sono arrivati dei temporali e i prati sono velocemente rinverditi. Ma quali sono gli effetti a catena che possiamo attenderci nel medio e lungo periodo sullo stato del verde delle nostre città?
Se non si invertono i trend in atto, sia quelli climatici che quelli gestionali, vedremo molti disseccamenti di siepi (che a differenza dei prati, se seccano del tutto non recuperano dopo l’estate), continueremo a vedere un tasso di mortalità elevato nei nuovi impianti, vedremo abbattimenti sbrigativi dettati più dalla paura che dall’analisi razionale delle situazioni, vedremo proliferare specie aliene invasive come l’ailanto, ed avremo un verde urbano complessivamente trascurato e al di sotto delle proprie potenzialità.
Ecolo’: Siamo rimasti colpiti da quanto sta succedendo sulle Dolomiti orientali, la tempesta del 2018 ha danneggiato il bosco, le decine di migliaia di piante rimaste a marcire insieme al caldo e alla siccità di queste estati, hanno creato un habitat favorevole ad un coleottero, il bostrico, che infestando gli abeti ne causa velocemente la morte. Anche se non se ne parla si tratta di una catastrofe ecologica ed economica per alcune zone del nostro paese. Possiamo immaginare scenari del genere anche nel resto di Italia e nelle nostre città?
Premesso che non sono un esperto in gestione forestale, sicuramente il bostrico è un patogeno molto temibile perché porta a morte tutta la pianta. Problemi di bostrico ne abbiamo anche dalle nostre parti, alla riserva dell’Acquerino, dove ha fatto notizia lo scontro tra comune di Cantagallo e Regione toscana su dei tagli previsti, tra le varie questioni c’era di mezzo anche il bostrico. Dal punto di vista ecologico il bostrico è un parassita nostrano, non è una specie aliena e questo fa sì che in un ecosistema funzionale esistano anche i suoi antagonisti, dal picchio, a insetti parassitoidi, a funghi patogeni, che aiutano a far sì che le “pullulazioni” abbiano un picco e poi si ritorni dopo qualche anno a un equilibrio. In generale resta vero che un ecosistema con maggior biodiversità è più resiliente anche rispetto a questi eventi, mentre invece un contesto a bassa biodiversità, monospecifico o quasi, è più fragile. Un bosco in cui l’abete rosso, privilegiato dal bostrico, è mescolato ad altre specie come il pino silvestre, il larice, il pino cembro, l’abete bianco, potrebbe contribuire a frenare le esplosioni di bostrico. E’ comunque vero che situazioni come la tempesta “VAIA” del 2018 sono eventi talmente inediti che creano degli scenari e interrogativi nuovi anche dal punto di vista ecologico.
Ecolo’: la tragedia delle Alpi introduce vari temi interessanti fra i quali quello dello smaltimento. Cosa accade agli alberi che muoiono? Il legno viene recuperato in qualche modo?
Questa è una domanda fondamentale dal punto di vista della CO2 e della ricerca di una carbon neutrality. Oggi il “cosa accade dopo”, al materiale di risulta, almeno nelle nostre città, è a totale discrezione delle ditte che eseguono abbattimenti e potature. Invece esistono scelte che mantengono sequestrato gran parte del carbonio che la pianta ha fissato e altre che lo rimandano in atmosfera. Usare quella legna per fare mobili, per fare cippato, per fare giochi per bambini nei parchi, sono scelte che conservano sequestrato il carbonio. Bruciare la legna significa rimandare quel carbonio in atmosfera. E’ evidente cosa sia meglio. Nell’agosto 2015, quando ci fu il disastro che distrusse la zona dell’anconella a Firenze, una ditta che conosco si è presentata in quartiere 2 proponendo un progetto in cui quella legna diveniva arredi per il parco stesso e giochi per bambini. Purtroppo il progetto non venne accolto. Cosa è successo a quella legna non lo so con certezza ma probabilmente quel carbonio ha fatto una fine diversa. Al di là di questi eventi estremi, il tema si pone anche per la gestione ordinaria. Ogni anno dal nostro verde urbano escono tonnellate di materiale di risulta sotto forma di foglie cadute d’autunno, potature, abbattimenti. La gestione di quel materiale sarebbe un tema chiave se vogliamo che il verde abbia davvero un impatto sulle concentrazioni di CO2.
Ecolo’: Collegato alla modalità di smaltimento, da un punto di vista dell’equilibrio globale delle emissioni climalteranti, la morte delle piante è un elemento necessariamente negativo? Sappiamo ad esempio che ci sono alcuni tecnici che sostengono che piante in accrescimento siano in grado di stoccare molta CO2 e per questo suggeriscono una strategia basata sulla sostituzione di vecchie piante con piante giovani. Cosa ne pensi?
Credo che intanto dovremmo intenderci su che significhi pianta “giovane”. Un tiglio può vivere oltre mille anni, un melo meno di cento, in genere. Dunque un melo ottantenne è un “anziano”, un tiglio ottantenne è un “ragazzino”. Complessivamente e abborracciando un po’, cito Giorgio Vacchiano, possiamo dire che una pianta ad alto fusto dà il “meglio di sé” come assorbimento di CO2 tra il 50esimo ed il 150esimo anno. Nelle nostre città piante che abbiano più di 150 anni sono praticamente assenti. Dunque sostituirle per “assorbire più CO2” è un errore, se la pianta è in salute e posizionata bene (sulla fotosintesi netta incidono anche altri fattori, non solo l’età). Su questo tema credo si siano diffusi molti equivoci, in seguito anche a dei convegni che non hanno fatto molta chiarezza. Spesso si è confuso produzione con produttività (cioè quella per unità di biomassa o di superficie fogliare). Una foglia di una pianta appena uscita da vivaio, fotosintetizza di più rispetto ad una pianta di 80 anni, ma quella di 80 anni ha una superficie fogliare enormemente superiore. Quando sostituiamo una pianta adulta, a meno che sia vetusta o non in salute, con una nuova, quella nuova impiegherà qualche decennio per avere la stessa capacità di fissare la CO2 della precedente. Non parliamo poi degli altri servizi ecosistemici: dal punto di vista prettamente ecologico, la pianta adulta vince su tutti i fronti.
Ecolo’: Recentemente Andrea Giorgio il nuovo Assessore alla transizione ecologica al Comune di Firenze ha dichiarato di voler realizzare un cambio di passo nella gestione del verde in città. Da dove pensi che dovrebbe cominciare questo nuovo corso dell’amministrazione fiorentina?
Come Legambiente abbiamo avuto interlocuzioni positive con il nuovo assessore Giorgio, mi pare sinceramente desideroso di collaborare e di dare una svolta sul tema del verde urbano. Premesso questo le urgenze sono molte, io ritengo che serva primariamente ricostruire un servizio pubblico del verde, così come servirebbe tornare ad esempio ad avere dei vivai comunali come esistevano a Mantignano. So che sono questioni complesse che non dipendono del tutto neanche da un assessore o da una giunta, molti comuni sono nella stessa situazione, avendo spesso un decimo o un ottavo del personale per il verde che avevano trent’anni fa. Ma se davvero un verde urbano che ci dia una mano a contrastare la crisi ecologica, non possiamo farlo con meno risorse rispetto a quando questi temi non erano all’ordine del giorno. Inoltre, se siamo in epoca di “vacche magre” dobbiamo rivedere le nostre scelte, si vedono cantieri molto onerosi per l’amministrazione su progetti che sono al contempo conflittuali rispetto a gran parte della popolazione, e discutibili dal punto di vista tecnico. Si sono visti abbattimenti sbrigativi, e gli abbattimenti e sostituzioni hanno costi elevati. Dobbiamo essere cauti su progetti che richiedono molti soldi per la manutenzione, come le “living walls”. Quando vedo nella mia città alberature mal gestite e parchi spesso trascurati, e al contempo rotonde stradali estremamente curate, penso che da un lato la nostra società è ancora pensata a misura di auto più che di fruitore di parco, dall’altro che dobbiamo costruire insieme, associazioni, amministrazioni, cittadini, una visione sistemica del verde urbano.
Ecolo’: Grazie mille e a presto!
Qualsiasi studio e previsione attuale indica che con un riscaldamento globale di 1,5°C, nei prossimi due decenni il mondo affronterà conseguenze disastrose. Anche il superamento temporaneo di questo livello di riscaldamento sta provocando gravi impatti, alcuni dei quali irreversibili.
Oggi siamo già costretti a subire i cambiamenti climatici, come se il pianeta ci stesse dando uno schiaffo per ricordarci in che direzione lo stiamo obbligando ad andare. L’attuale stato di siccità è il semplice risultato del nuovo “equilibrio” al quale ci dovremo abituare a meno di una rapida e rivoluzionaria inversione di tendenza.[1]
Affrontando i 40 gradi a Firenze di questi giorni è bastato sporgersi da un muretto per fotografare la morte di un ecosistema. La natura non può far altro che semplificarsi con tutti i danni che questo fenomeno comporta. Lo sforzo mentale necessario in questa fase è riuscire a vedere in qualsiasi bene con cui interagiamo una risorsa: il sole, il vento, i rifiuti ancora capaci di contenere beni riutilizzabili fino al singolo litro d’acqua trattenuto prima di essere drenato dal sistema fognario.
In attesa di un coraggio in materia di cambiamenti climatici ancora latitante nella politica locale, nazionale e internazionale, c’è sempre la possibilità di minimizzare il proprio impatto sul pianeta. Dato che siamo in una fase di calamità naturale dovuta alla siccità una proposta semplice e che se adottata in modo esteso può avere un grande impatto sul territorio è il recupero dell’acqua piovana.
Recupero dell’acqua piovana
Gli impianti per raccogliere e conservare le acque piovane, ad esempio provenienti dai pluviali delle abitazioni civili, consentono di avere una fonte d’acqua altrimenti dispersa. Bisogna considerare infatti che le acque meteoriche sono una risorsa che una volta cadute su una superficie impermeabilizzata si trasformano in un problema da allontanare dai centri abitati, perdendo così la possibilità di ricaricare le falde acquifere e andando a generare un rischio idraulico.
Il funzionamento dei sistemi di recupero di acqua piovana per una civile abitazione è molto semplice ed avviene tramite serbatoi fino ad alcune migliaia di litri collegati ai pluviali dell’edificio e dotati di sistemi di filtraggio, facili da manutenere. Con un sistema a gravità o tramite pompaggio si alimenta direttamente l’irrigazione del verde, il wc del bagno, gli impianti di casa etc utilizzando una risorsa (priva di cloro) che preserverebbe l’acqua del rubinetto, frutto invece di un processo di potabilizzazione andato sprecato.
Recuperare l’acqua conviene?
E’ possibile valutare la piovosità per la quale sia più o meno conveniente l’investimento necessario al recupero dell’acqua piovana, ma in realtà il fenomeno dei cambiamenti climatici fa perdere di significato alle serie storiche precedenti e si attesta su quelle degli eventi estremi. Soprattutto l’ottica del recupero non è solo il vantaggio economico bensì il contributo alla mitigazione dei fenomeni, non quantificabile e necessario.
Si può fare?
Installare sistemi di recupero non è solo possibile ma è in qualche modo suggerito dalla legge. A livello normativo (legge 244/2007) il permesso a costruire è vincolato anche a caratteristiche di risparmio idrico, seppur non tutte le Regioni abbiano ancora recepito le modalità di applicazione della norma e spesso sia demandato ai singoli regolamenti urbanistici. Ma è la modifica dell’esistente che potrebbe avere numeri capaci di impattare sulla risorsa idrica.
Numeri?
In Italia ci sono 12 milioni circa di edifici residenziali abitati in media da più di 4 persone (fonte Istat), di cui circa la metà di tipo indipendente o semi-indipendente (fonte Eurostat). Per ciascun abitante la dotazione idrica giornaliera è stimata in 150 litri/giorno, di cui la metà sostituibile da acque piovane.
Se i regolamenti urbanistici imponessero la raccolta delle acque meteoriche a questa tipologia di edifici avremmo serbatoi diffusi sul territorio capaci di trattenere e riusare più di 500 milioni di metri cubi di acqua all’anno. Indipendentemente dal risparmio economico sarebbe una misura di mitigazione capace di rispondere alle siccità a cui andremo incontro.
Esistono incentivi?
In ultima analisi quali sono gli aiuti economici attuali per installare un sistema di recupero delle acqua? Rispetto ad altri incentivi fiscali legata alla casa (facciate, sismica e risparmio energetico) per il recupero dell’acqua ci sono incentivi decisamente meno consistenti. Al momento è possibile usufruire del“bonus verde” per il 2022, come agevolazione fiscale per gli interventi straordinari di sistemazione di terrazzi, giardini e aree scoperte di pertinenza compresi gli interventi realizzati nei condomini. La detrazione massima è di 1.800 euro.
E’ chiaro che si tratta di un incentivo insufficiente l’urgenza dovuta all’insostenibilità ambientale dell’utilizzo di acqua richiederebbe soluzioni di recupero obbligate dall’Amministrazione e finanziate quasi interamente.
Di seguito la foto di un intervento di recupero delle acque piovane eseguito da un socio di Ecolò, per un riutilizzo di 60 l/giorno, una cisterna da 5000 litri e un costo totale di circa 3000 euro.
[1] Per approfondimenti si rimanda alla pagina IPCC Italia che ospita il Sesto rapporto di valutazione dell’IPCC su risorse idriche e siccità
Transizione ecologica, accordi di Pargi, Green New Deal, tagli delle emissioni e neutralità carbonica: è difficile districarsi in temi che sembrano riservati agli “addetti ai lavori”, ma che in realtà ci riguardano da molto vicino. Per questo abbiamo pensato che l’estate potrebbe essere un buon momento per “rimetterci in pari” ed abbiamo chiesto ad alcuni ecologisti esperti di consigliarci i libri da mettere in valigia per conoscere meglio le problematiche più urgenti che il nostro Pianeta sta affrontando, così come le possibili risposte da adottare per proteggerlo ed assicurarci un futuro migliore di quello che purtroppo va delineandosi. Ecologia vuol dir anche valorizzare le diversità. E’ stato bello scoprire che nessuno dei sei esperti intervistati ha consigliato lo stesso libro… Buona lettura!
Giovanni Graziani, ingegnere ambientale, consulente in tema di servizi ambientali e di sostenibilità per le imprese, energie rinnovabili ed efficienza energetica, membro dell’Ufficio di Presidenza di Green Italia. Ecco i suo consigli:
Silvia Pettinicchio, esperta di marketing e docente all’università, già co-portavoce nazionale di Europa Verde ci consiglia:
Elisa Meloni, ecologista e attivista di Volt Italia, dipendente dell’Università di Firenze si occupa di progetti di ricerca finanziati dall’Unione Europea in tema di ambiente:
Andres Lasso, biologo, giardiniere, già candidato sindaco a Firenze per la Federazione dei Verdi:
Infine Gaia Pedrolli, fisica, insegnante, autrice di libri di cucina ed attivista di Extinction Rebellion ed EcoLobby ci consiglia tre libri:
Foto di copertina: Christine Vaufrey
Un anno e mezzo fa abbiamo intervistato Jouni Kantola, giornalista fiorentino-finlandese, riguardo all’elezione di Sanna Marin. Oggi, dopo due anni di governo e in concomitanza con la svolta storica della richiesta di ingresso della Finlandia nella NATO, l’abbiamo ricontattato per chiedergli della svolta nella politica di difesa della Finlandia.
ECOLO’: Per prima cosa, come giudichi questi quasi due anni e mezzo di governo della premier finlandese?
E’ difficile giudicare l’operato della premier finlandese e paragonare il lavoro del suo governo a quello dei governi precedenti a causa della pandemia: Marin ha iniziato il suo mandato come primo ministro pochi mesi prima del primo lockdown. Di conseguenza la quasi totalità del suo tempo come primo ministro è stata dedicata all’emergenza sanitaria. C’è poco di “normale” in questo e di paragonabile al lavoro dei suoi predecessori. Detto ciò, Marin ha dimostrato una leadership forte e ha guadagnato un buon consenso fra i cittadini. La disoccupazione è ai minimi storici e l’interesse internazionale nei confronti della Finlandia è tendenzialmente alto, paradossalmente anche grazie alla sua indiscutibilmente bella presenza.
ECOLO’: Parlando del motivo fondamentale di questa seconda intervista, come pensi che stia gestendo l’evoluzione del posizionamento del tuo paese nel panorama geopolitico attuale?
A mio parere la sta gestendo bene. In Finlandia nella politica estera il presidente della repubblica ha un ruolo importante e Marin ha gestito il cambiamento del nostro posizionamento geopolitico insieme con il presidente Niinistö e con il parlamento. E’ curioso che questo modello di gestione degli affari esteri abbia molto a che vedere con “finlandizzazione”, cioè la condizione di neutralità del paese necessaria per mantenere l’indipendenza nei confronti della Russia. Il garante dei nostri rapporti con la Russia dopo la seconda guerra mondiale è stato tradizionalmente il presidente della repubblica, una specie di “uomo approvato” da parte della Russia.
ECOLO’: Non pensi che invece che rafforzare la NATO sarebbe preferibile una forza di difesa europea, scelta che consentirebbe anche di ridurre invece che aumentare le spese militari nel continente?
No, non lo penso. La guerra d’invasione da parte dei russi in Ucraina ha rimosso ogni dubbio riguardo a cosa sia capace la Russia e, dall’altro lato, quale è il destino di un paese che non fa parte dell’alleanza NATO. Rimane solo. Noi finlandesi abbiamo già combattuto contro la Russia da soli nella seconda guerra mondiale e sinceramente se dovesse capitare di affrontare nuovamente la Russia in guerra non mi dispiacerebbe trovare qualche italiano, spagnolo, norvegese, inglese, danese etc accanto ad aiutarci. La NATO è la risposta concreta e credibile che esiste già. Sono a favore di rafforzare una difesa europea in linea con il peso economico dell’UE, però oggi, con Putin che si muove in questo modo, abbiamo bisogno di più garanzie immediate.
ECOLO’: Cosa ti aspetti che succederà ora in Finlandia, sul suo confine est e nella NATO?
Spero niente. L’obiettivo della Finlandia con l’ingresso nella NATO è il mantenimento dello status quo o il limitare al massimo possibili evoluzioni. Vogliamo mantenere la nostra democrazia, istituzioni e cultura e vediamo nella NATO il garante di questo. Non temiamo l’invasione da parte degli svedesi, tedeschi oppure americani, con cui condividiamo anche un patrimonio di valori comuni, istituzioni e idee. La nostra unica minaccia è la Russia. I russi possono essere dei grandi bugiardi, come abbiamo visto, e si ragiona male con uno Zar lanciato verso l’invasione. Ma i russi capiscono la forza: c’è un proverbio russo che si traduce “Prova con la baionetta. Se fosse morbido, spingi, se invece fosse duro, girati e vai via”. Ci tengo a dire che mia nonna dovette lasciare la sua bellissima casa di legno sulla riva del lago Laatokka in Carelia dopo la seconda guerra mondiale insieme a oltre 400.000 altri finlandesi. Dietro alle sue spalle, i russi si accomodarono in casa sua. Abbiamo una memoria. Possono passare tanti anni di pace, ma prima o poi partono all’attacco. Finché non fanno i conti con il loro passato e finché non osano chiedere la democrazia, giustizia, diritti civili e la verità, non ci possiamo fidare. Occorre prendere delle precauzioni.
Presi dall’entusiasmo per l’elezione di Sanna Marin in Finlandia abbiamo intervistato Jouni Kantola, giornalista fiorentino-finlandese e co-amministratore di Berta Film, un’azienda produttrice e distributrice di film documentari e fiction.
ECOLO’ : In Italia ci facciamo spesso prendere da ubriacature di entusiasmo esterofilo, Zapatero, Hollande, Tsipras, che effetto ti fa vedere oggi tanto entusiasmo sulla stampa italiana riguardo alla nuova premier del tuo paese?
Jouni Kantola: L’entusiasmo riguardo al governo finlandese, una coalizione dove i cinque partiti della maggioranza sono tutti guidati da donne, quattro delle quali sotto i 35 anni di età, è stato un entusiasmo mondiale, penso che l’Italia non potesse mancare all’appello. È importante però capire e riconoscere che non si tratta di una messinscena populista: la parità di genere in Finlandia viene da lontano. Nel 1906, la Finlandia fu il secondo paese nel mondo dopo l’Australia a introdurre il suffragio alle donne. La generazione detta ‘millenials’, di cui fanno parte le quattro donne che attualmente guidano i partiti del governo finlandese, è cresciuta con la Presidente Tarja Halonen, che fu la prima donna a ricoprire questa carica dal 2000 al 2012. La parità di genere in Finlandia è nei fatti. C’è un consenso diffuso in Finlandia sul fatto che che Sanna Marin e le sue colleghe ministre occupino le loro cariche politiche non perché sono donne, ma perché sono le persone più qualificate che la nazione ha a disposizione al momento.
ECOLO’ : Vuoi raccontarci qualcosa di Sanna Marin? Come è arrivata così giovane a fare la premier?
Sanna Marin è qualificata, tosta e intelligente. Ha una laurea in scienze dell’amministrazione e ha militato nei giovani del Partito Socialdemocratico Finlandese. Nel 2012 è stata eletta nel Consiglio comunale di Tampere, la terza città Finlandese. Come presidentessa del Consiglio comunale di Tampere dimostra le sue capacità di dirigere gruppi politici, talvolta molto discordanti, arrivando a risultati concreti e comprensibili per i cittadini. Alcune di queste sedute del Consiglio comunale, trasmesse live via internet, diventano virali e aumentano la sua visibilità nazionale. Membro del parlamento finlandese dal 2015 e ministro dei trasporti e delle telecomunicazioni della Finlandia dal 2019, aveva già ricoperto il ruolo di primo ministro durante la malattia del ex-presidente Antti Rinne. Nella vita privata è sposata con un figlio; è cresciuta come figlia di una coppia gay, ovvero due mamme. Nella sua infanzia ha subito una povertà insolita nel contesto finlandese e di conseguenza ha una particolare attenzione riguardo a questioni di povertà. Sulla mappa politica destra-sinistra, Sanna Martin è sulla sinistra anche all’interno del suo stesso partito dei Socialdemocratici.
ECOLO’ : Cosa ti aspetti che possa fare Sanna Marin, al di là del potere simbolico del suo successo, per migliorare la situazione della Finlandia?
JK: Lei deve governare e garantire che il programma di governo sia realizzato, è questo il suo mestiere. La sfida è notevole, perché un pezzo fondamentale del suo governo, il Partito di Centro Finlandese, è in contrapposizione con gli altri elementi della coalizione sulle politiche ambientali e sul mercato di lavoro. Inoltre, eredita una difficile situazione nel mercato di lavoro dal governo precedente di centrodestra, dove i lavoratori hanno dovuto affrontare molti sacrifici. Il programma di governo c’è però, ed è firmato da tutta la coalizione. Lei può essere la garante di questo programma, dovrà riuscire a fare in modo che i voti dei cittadini alle elezioni di Aprile 2019 si traducano in atti.
ECOLO’ : La Finlandia ambisce a emissioni nette zero di C02 entro il 2035, credi che l’impegno del nuovo governo sui temi ecologisti sia credibile?
JK: La Finlandia può sfruttare dei sink biosferici importanti grazie al suo patrimonio forestale che la favorisce nel tentativo di emissioni nette zero, però per arrivare a tale scopo entro 2035, dovremmo vedere cambiamenti radicali subito e su tutti i settori chiave della società: industria, logistica e produzione del riscaldamento ed energia elettrica. Il cambiamento non è stato avviato ancora e perciò le dichiarazioni del governo al giorno di oggi non sono credibili. Detto questo, le elezioni erano ad Aprile 2019 e il termine del governo scade Aprile 2023. Il saldo totale di questa ambizione va visto al termine del mandato, ma è certamente urgente che questo governo passi all’azione.
ECOLO’ : Pensi che il ruolo della donna sia così diverso nella società finlandese rispetto a quella italiana? Oltre a motivi culturali, credi che ci sia qualcosa che le istituzioni potrebbero fare?
JK: L’occupazione femminile in Italia è intorno al50%, penultimo posto in Europa. In Finlandia l’occupazione femminile è intorno al 70%, in crescita. Credo che ci sia l’imbarazzo della scelta fra le politiche che le istituzioni potrebbero mettere in atto per migliorare la parità di genere in questo paese, ma non sono esperto di questa materia. Certamente la gestione dei figli nella coppia e il sostegno reciproco che la società può garantire per entrambi i sessi per evitare l’emarginazione a causa della maternità è fondamentale. Le istituzioni però non esistono in astratto, ma riflettono la cultura e valori del paese. Ecco perché non si scappa: in un contesto in cui la donna non è considerata degna di rappresentare Dio o di partecipare alla massoneria, dove vogliamo andare? Non credo che sia un caso che uno dei fenomeni culturali più importanti di questo decennio – #metoo – ha avuto molta meno visibilità in Italia rispetto a tanti altri paesi dell’Occidente. L’Italia è talmente “sottosviluppata” in materia di pari opportunità che la gente non ha nemmeno capito le sfumature e l’importanza del messaggio #metoo. Si tratta di un contesto troppo distante da quel movimento, qua si sta ancora aspettando di conoscere le prime ortopediche e preti donna. In Finlandia i mezzi di comunicazione di massa sono passati alla lingua genere neutro e monitorano che nelle notizie si dia rappresentanza in pari misura per entrambi i sessi.
ECOLO’ : Come italiani viviamo sempre il complesso di essere culturalmente arretrati rispetto ai paesi scandinavi. Tralasciando il cibo e il vino, c’è qualcosa in cui ti pare che il nostro paese riesca a fare meglio rispetto alla Finlandia?
JK: Io adoro l’Italia e ho scelto di vivere e far crescere i miei figli qua invece che in Finlandia. Credo che questa scelta abbia a che vedere con la qualità di vita, che non si riduce ai soli parametri di indicatori statistici. Italia e Grecia hanno contribuito alla cultura di questo continente in tale misura che possono camminare testa alta ancora a lungo; nonostante le tante difficoltà che ci sono nel paese, bisogna ricordare che ci sono anche tanti centri di eccellenza, innovazione e creatività. Mi rattrista però vedere l’Italia sprecare le sue risorse – come donne, giovani, ricchezze naturali – grazie ai tanti corrotti, vecchi bunga bunga e l’illusione dell’ ‘uomo forte’. Stento a paragonare i due paesi tra di loro, perché le variabili sono troppe e si cade facilmente nella trappola dei luoghi comuni. Però posso dire che in Italia la rete ferroviaria è più avanzata che in Finlandia, dove alta velocità vera non esiste. Avete una cultura urbana squisita con delle città una più bella dell’altra a dimensione umana – grazie all’architettura dei secoli passati. Credo che nella robotica siate avanti e chiaramente nei tradizionali settori italiani come la moda e gastronomia. C’è poi una condivisione intergenerazionale bella in Italia, coi nonni onnipresenti. Noi Finlandesi siamo sparpagliati ovunque nel paese e come si lascia il nido materno all’età di diciott’anni, i legami familiari si rompono spesso troppo bruscamente.
ECOLO’ : grazie mille Jouni per il tuo tempo!
Abbiamo incontrato Beatrice e Michele, due fra i fondatori e leader di Ultima Generazione, un gruppo di attivisti ecologisti convinti che serva creare un’avanguardia consapevole, disposta a rischiare il proprio benessere e la propria libertà, per innescare il cambiamento necessario. Michele è fra gli arrestati in Aprile a seguito di una manifestazione di fronte a un Eni store a Roma.
Ecoló: Ciao, ci parlate un po’ di voi e di come siete arrivati in Ultima Generazione?
Michele: Non so quanto è importante chi sono: una persona abbastanza comune, ho studiato filosofia e insegnato nelle scuole. Gli ultimi mesi li ho passati in montagna, con degli amici, a costruire una comunità agricola. L’esperienza in montagna mi ha aiutato a concentrarmi sul necessario. Sotto il monte Rosa, in montagna, con il freddo, si fa una vita basata sulle necessità in cui si taglia tutto quello che non è strettamente necessario. Ma mentre ero lì, pur nel posto più bello del mondo, continuavo a vedere i segni di come stiamo mandando tutto a puttane, le nostre speranze, quelle delle prossime generazioni, lo vedevo nei boschi conciati male, negli alberi ammalati. Mi sono reso conto che per me quel posto bellissimo non sarebbe potuto essere “casa” finché non avessi affrontato il problema. Così ho rinunciato ad altre ambizioni, come quella di fare un dottorato, e ho co-fondato Ultima Generazione. Ora vivo a Roma perché qui c’è il governo e ci sono le persone con cui dobbiamo parlare.
Beatrice: io ho 29 anni e sono una veterinaria, mi sono laureata nel 2018 e ho conosciuto Extinction Rebellion (XR) nel 2019 quando ho iniziato a realizzare che non avrei potuto avere una vita normale. La mia vita ha avuto un’accelerazione l’anno scorso, dopo la prima ondata del Covid. A quei tempi avevo deciso di iscrivermi ad una scuola di specializzazione. Per la paura di affrontare il futuro mi stavo aggrappando al modello classico in cui cerchi un lavoro un po’ più stabile per avere uno stipendio un po’ più alto. Ma la situazione era diventata ridicola perché stavo facendo una vita assurda: lavoravo 10 ore al giorno per pagare la scuola di specializzazione, solo nei ritagli di tempo riuscivo ad occuparmi di XR, il tutto forse per riuscire un domani ad avere una vita leggermente migliore. Quando siamo andati in montagna, mi sono liberata di tutto ciò che non era essenziale e ho iniziato a liberarmi dalle ansie che sono in realtà autocostruite e non ci permettono di vedere e dare priorità a ciò che è importante ed essenziale.
Ecoló: Nella nostra percezione il vostro movimento è quasi sovrapponibile a Extinction Rebellion, cosa distingue Ultima Generazione e XR?
Michele: Ultima Generazione nasce dentro XR. Il 60% di noi sono stati o sono ancora parte di XR. Dentro XR abbiamo sentito l’esigenza di avere maggiore autonomia nelle strutture organizzative e operative. Ma non solo: con il tempo sono emerse anche delle priorità e una visione differenti rispetto al progetto di XR. C’è stata, quindi, la necessità di creare un’identità differente, questo è avvenuto circa un mese e mezzo fa.
Ecoló: L’esigenza, quindi, è quella di avere strumenti differenti?
Michele: Ci sono due questioni fondamentali. Per prima cosa c’è un tema organizzativo. XR ha una struttura molto decentralizzata e orizzontale. Questo approccio ha dei pregi, ma rende difficile creare un’unità in grado di sostenere un piano strategico comune. Esiste un rischio di frammentazione e dispersione sul territorio che noi vogliamo evitare. Ci ispiriamo al funzionamento delle campagne elettorali americane, dove c’è un nucleo centrale di poche persone e tante persone che si attivano seguendo indicazioni chiare e semplici. Per esempio, guardiamo con interesse alla prima campagna elettorale di Bernie Sanders in cui 10 persone hanno mobilitato e dato direttive molto chiare a centomila persone. Persone che avevano istruzioni. Questo è il tipo di modello che vorremmo seguire.
C’è poi un aspetto culturale. XR ha fatto un lavoro eccezionale recuperando la modalità della disobbedienza civile e l’ha veicolata a migliaia di persone. Però bisogna anche ammettere che le pratiche di XR in molti casi si fa fatica a chiamarle veramente disobbedienza civile. Noi siamo convinti che per mobilitare più persone, che magari abbracceranno modalità di lotta meno radicali, c’è bisogno di una minoranza di persone disposte a tutto e che hanno una visione chiara di qual è il tipo di sacrificio che questo richiede.
Se non mobilitiamo una minoranza di persone che sono disposte al sacrificio, così come successo ai nostri nonni o come succede in tanti luoghi nel sud del mondo dove i movimenti di disobbedienza civile sono in grado di rovesciare dittatori, allora sarà difficile che tantissime persone possano essere ispirate a fare un passo avanti. Questo è quello che stiamo cercando di realizzare con Ultima Generazione e una rete di altri novi movimenti nazionali sparsi per l’Europa.
Ecoló: Hai fatto riferimento ad altri paesi, quindi Ultima Generazione è collegata ad altre realtà nel mondo?
Beatrice: Sì, siamo una rete di 10 movimenti europei, ci chiamiamo A22 perché esistiamo dal mese scorso, Aprile 2022, abbiamo dato vita ad azioni sincrone di disobbedienza civile coordinata e ad oggi condividiamo sia il supporto finanziario che la comunicazione e le richieste, siamo una rete che fornisce supporto.
Ecoló: Avete parlato di strumenti più estremi rispetto a quelli di XR. Il nostro punto di vista è che la non violenza sia un elemento fondante della visione ecologista. Vorremmo chiedervi se condividete questa visione e se all’interno di Ultima Generazione c’è un dibattito riguardo all’utilizzo di strumenti come il sabotaggio.
Michele: Non so se esiste un dibattito, non prendiamo queste decisioni in modo orizzontale. Posso dirti quello che penso io. Su questo riprendo la visione di XR che ha redatto un manuale riguardo la possibilità di danneggiare una proprietà privata. Ci sono regole molto strette che lo prevedono a patto che si prendano una serie di precauzioni: non solo deve essere certo che nessuno si farà male, ma deve anche essere garantito che nessuno si spaventerà.
Beatrice: Ovviamente noi non prendiamo in considerazione né pianifichiamo azioni violente. Per noi la non-violenza è un elemento strategico della nostra azione. Il sabotaggio però può rientrare fra le tattiche non violente. In Germania, ad esempio, ci sono stati attivisti che hanno chiuso, senza danneggiarli, dei rubinetti della rete di petrolio, non so se è sabotaggio, ma sicuramente non è violenza. Non stai nemmeno manomettendo un’infrastruttura in modo permanente. Ma ovviamente che cosa sia violento è anche una valutazione soggettiva, anche un blocco stradale può essere considerato una forma di violenza da parte di qualcuno.
Ecoló: Noi contestiamo ai partiti tradizionali la mancanza di responsabilità verso le comunità che dovrebbero rappresentare. Per noi la relazione dialettica e responsabile fra leadership e comunità è un valore da recuperare. Volete dirci di più su questa idea di modello organizzativo in cui un gruppo ristretto dà direttive? Perché ci vediamo delle criticità.
Michele: È un tema fondamentale. Secondo noi non si può decentralizzare in modo efficace se prima non hai costruito un’organizzazione centrale e un piano. Un’organizzazione basata su molti gruppi autonomi finisce sistematicamente per cadere nel meccanismo del doppio conflitto. Ci si trova in disaccordo su qualcosa, ma non siamo nemmeno d’accordo su chi debba risolvere questo conflitto prendendo una decisione. Questa è un’esperienza raccontata molto efficacemente nel testo “La tirannia dell’assenza di struttura” scritto da Jo Freeman, una femminista e scrittrice americana. I grandi movimenti di resistenza civile non si basavano su assemblee, ma su una leadership. Il problema non è il leader ma quando questi si sconnettono dalla loro comunità. La questione è quindi chi è il leader e se è degno e ha l’umiltà per svolgere quel ruolo. Il ruolo non è fare il leader d’azienda, ma mettere in pratica un piano. Le persone che si avvicinano a Ultima Generazione credono nel progetto e si fidano della leadership e… sorpresa, sorpresa… non hanno voglia di fare 40 assemblee a settimana per definire il progetto. La gente ha voglia di lavorare al progetto. L’idea che “nessuno può dirmi cosa devo fare nel mio spazio” non è un’idea popolare, è un’idea borghese.
Beatrice: vorrei parlare della mia esperienza. Anche XR in realtà ha un modello semi-centralizzato in cui il gruppo strategico ha definito una serie di cose. In Italia non c’è mai stato un gruppo strategico sicuramente anche a causa della pandemia. Noi pensiamo che questa mancanza abbia in parte limitato l’efficacia dell’azione di XR Italia. La sensazione è che ogni gruppo proceda in ordine sparso. Ancora oggi ci troviamo di fronte a questo problema perché, ora che siamo fuori e cerchiamo di lavorare con XR, non riusciamo ad avere un interlocutore che sia in grado di prendere decisioni riguardo ad azioni comuni. Noi abbiamo poco tempo, due anni, e non possiamo aspettare un mese per ogni decisione. Anche se personalmente mi sento scomoda in questa posizione di leadership, devo dire che apprezzo sempre di più i pregi che la nostra organizzazione porta con sé.
È anche importante per me che in questo modo la dinamica di potere è esplicitata. In tutti i movimenti orizzontali il potere di prendere certe decisioni c’è. Anche quando non è esplicitato ed anche quando è esercitato non prendendo una decisione. Non ne faccio una questione di cattiva fede. Ma occorre riconoscere che spesso nelle organizzazioni orizzontali esiste una leadership implicita che prende decisioni senza assumersi la responsabilità del ruolo. Quando ci confrontiamo con tutti i comitati e i collettivi marxisti e di estrema sinistra questo è particolarmente evidente. C’è sempre questo feticismo della decisione collettiva in assemblea e poi nella sostanza ti ritrovi quattro persone, generalmente uomini di mezza età, che parlano 25 minuti a testa e la maggior parte della gente sta zitta. Questo per me non è potere diffuso. È una centralizzazione mascherata che unita alla disorganizzazione finisce anche per essere completamente inconcludente.
Ecoló: Quindi esiste un gruppo strategico. Come funzionate?
Michele: ad oggi siamo quattro. È difficile trovare qualcuno che sia disposto ad assumere un impegno di 12 ore al giorno.
Beatrice: per quanto mi riguarda il mio ruolo nel gruppo strategico è dovuto principalmente alla disponibilità di tempo. Siamo persone che hanno deciso di cancellare la propria vita per dedicarsi a questo.
Ecoló: Come si sostiene economicamente un gruppo di persone che lavorano a tempo pieno come militanti?
Michele: Abbiamo un crowdfunding, la gestione finanziaria è centralizzata fra i 10 movimenti. Inoltre lavoriamo a stretto contatto con finanziatori e influencer. Ci sono sempre più persone che stanno capendo quanto è grave la situazione. Ma viste anche le spese legali che dovremo affrontare ci serve l’aiuto di tutti e invitiamo chi legge a darci una mano (in fondo all’articolo trovate il link).
Ecoló: Vorremmo chiedervi proprio delle vicende giudiziarie che coinvolgono tre di voi di cui sorprendentemente si è parlato pochissimo sui media. Volete spiegarci cosa è successo?
Beatrice: abbiamo fatto una serie di azioni contro l’ENI. Abbiamo iniziato dall’Eur e poi ci siamo spostati verso gli ENI Store sparsi per Roma. Sono azioni di imbrattamento e microdanneggiamento. Questo danneggiamento alla vetrina, ad esempio, è stato fatto in modo simbolico evitando accuratamente una crepa che avrebbe potuto far crollare la vetrina e far male a qualcuno. Un’azione simbolica che vuole mostrare anche la sproporzione fra i danni che possiamo fare a ENI a confronto con i danni che ENI fa a noi.
Michele: Siamo stati arrestati Io, Laura e Chloe, il 20 Aprile. Andremo a processo il 15 Settembre.
Ecoló: Che cosa vi contestano?
Michele: Violenza privata, danneggiamento e possesso illecito di armi. L’unica sensata è la seconda. È vero, c’è stato un danneggiamento. Violenza privata assolutamente no. Armi… non so. Se esci di casa con uno scalpello, scalfisci una vetrina e lo appoggi a terra quando si avvicina qualcuno è un possesso illecito di armi? Vorrei far notare che non è ENI che ci ha denunciato. Il PM ha chiesto l’obbligo di firma tre volte alla settimana ma il giudice ha rifiutato.
Devo anche dire che sono rimasto colpito da quanto il giudice mi ha fatto parlare della crisi climatica: mi sono sentito ascoltato.
Beatrice: l’arresto non è arrivato alla prima azione ma alla quarta. All’inizio ci sono stati solo fermi e denunce. Si è verificato quanto già successo a febbraio quando siamo andati ripetutamente ad imbrattare il ministero della transizione ecologica fino a che le forza dell’ordine hanno reagito. Credo che la frustrazione che innesca la reazione sia in buona misura ottenuta attraverso una ripetizione prolungata dell’azione di protesta.
Michele: Vorrei aggiungere che questa nostra esperienza con l’arresto e il processo è solo un barlume di quello che è per noi la disobbedienza civile. Noi in occidente concepiamo la non violenza come una forma pacifica e difensiva. Non è così. I grandi modelli di disobbedienza civile sono piazza Tahrir e la Marcia dei bambini fra Birmingham e Selma del 1963. Disobbedienza civile non è fare una manifestazione ogni sei mesi e poi tornare nel proprio mondo di privilegi. Avremo bisogno di tante persone che non hanno paura. Le grandi rivoluzioni sono state fatte da persone che erano consapevoli dei rischi che correvano.
I nostri figli in Italia rischiano di morire di fame in ogni caso. E noi stiamo qui a dire a noi stessi che non possiamo rinunciare ai nostri privilegi?
Ultima Generazione ha richieste molto chiare per il governo e per le sue aziende, ma non proponiamo una retorica in cui loro sono cattivi e gli altri sono buoni. Il conflitto è orizzontale. Io sono qui a scagliarmi contro l’opinione pubblica ipocrita della sinistra e degli ambientalisti che fanno una marcia ogni sei mesi. Dovrebbero guardare i propri figli e dire loro: “tu stai per morire e io faccio una marcia ogni sei mesi e firmo le petizioni”. Noi non diciamo “quanto è cattivo Draghi”, noi consideriamo veri assassini delle generazioni future i cittadini e soprattutto quelli politicamente attivi che non prendono sul serio la drammaticità della situazione.
Non stiamo veramente combattendo, sono tutte scuse. Hannah Arendt diceva “ci sono due cose che fai davanti a un genocidio: o ti ribelli o sei complice”.
La maggior parte degli attivisti oggi è complice.
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È possibile sostenere Ultima Generazione con una donazione a questo link: https://www.produzionidalbasso.com/project/ultima-generazione-assemblee-ora/ .
A22 è una rete di movimenti europei diffusa in 10 paesi:
ITALIA https://www.ultima-generazione.com/
INGHILTERRA https://juststopoil.org/
GERMANIA https://letztegeneration.de/
CANADA https://save-old-growth.ca/
AUSTRALIA https://fireproof.news/
STATI UNITI https://www.declareemergency.org/
FRANCIA https://derniererenovation.fr/
SVIZZERA https://renovate-switzerland.ch/
SVEZIA https://www.facebook.com/aterstallvatmarker/
INTERNATIONAL https://scientistrebellion.com/
Simona Larghetti, imprenditrice e cicloattivista ci racconta la strada che dalla sella di una bici l’ha condotta nel consiglio comunale di Bologna.
Ecolo’: Ciao Simona, grazie per la tua disponibilità a rispondere alle nostre domande. Cominciamo da te? Sappiamo che sei nata a Urbino, come sei arrivata a Bologna?
Simona Larghetti: Dopo Urbino sono andata a Roma per fare i provini dell’Accademia Silvio D’Amico, volevo fare l’attrice teatrale. L’impatto da un piccolo paese alla metropoli è stato devastante, mi ha colpito soprattutto la violenza del traffico e l’enorme difficoltà a spostarsi, anche per piccole distanze. Alla fine mi hanno presa all’Accademia Paolo Grassi a Milano, lì ho iniziato ad andare in bici. A Bologna sono arrivata due anni dopo per puro caso, ero rimasta delusa dal mondo del teatro e volevo scappare.l teatro e non sapevo bene cosa fare.
Com’è successo che Bologna ti ha adottata?
Mi sono iscritta all’Università, a Lettere, un po’ perché mi piaceva un po’ perché non sapevo bene cosa fare. Ho incontrato una ragazza del mio paese che faceva parte di un’associazione studentesca che si occupava del recupero di biciclette usate e di campagne contro il furto. Io già andavo in bici, mi sembravano cose bellissime. Sono diventata prima volontaria poi ho iniziato anche a lavorarci, facendo ufficio stampa e organizzazione eventi. Quel lavoretto è diventato la mia vita, e mi appassionava molto di più dello studio, che pure mi piaceva. Mi piaceva la prospettiva anche politica di quello che facevo, sentirmi parte della città e non un’ospite, una parte attiva, che si prende cura e responsabilità di quello che accade nello spazio pubblico.
Vorremmo chiederti del tuo lavoro. Dopo Paolo Pinzuti sei la seconda imprenditrice della bicicletta che intervistiamo. Come succede che una studentessa di lettere diventa imprenditrice?
Ho fatto tanti lavori tra la laurea e l’inizio dell’attività in Velostazione, sempre come dipendente o collaboratrice. Soffrivo moltissimo la mancanza di confronto con chi stava sopra di me, l’obbligo di eseguire delle mansioni senza alcuna possibilità di dare il mio contributo. Mi sembrava un sistema demenziale. Sono figlia di un piccolo imprenditore agricolo, abituata a dare il massimo per qualcosa che ami e che curi. Quando mi sono confrontata con altre persone dell’associazione che nel frattempo avevo fondato, Salvaiciclisti Bologna, aprire una cooperativa è stato quasi naturale. Una dimensione di impresa dove ognuna è nelle condizioni di dare il meglio e di costruire assieme la visione.
L’esperienza delle velostazioni in Italia è lastricata di speranza, successi ma anche tante difficoltà (pensiamo ad esempio all’esperienza di Bari). Cosa manca perché esperienze come è stata la vostra possano diventare una realtà in tutte i piccoli e grandi centri italiani?
Siamo ancora in una fase sperimentale, nonostante l’enorme ritardo. L’uso della bicicletta sta uscendo faticosamente dalla dimensione di emarginazione a chi la usava perché non aveva alternative e per molte sta diventando una scelta di vita. Iniziare a ragionare di servizi su cui investire, sia da parte del pubblico che del privato, non è più utopia, ma ancora l’agenda politica non vede la priorità assoluta di questi interventi: occorre un modello riconosciuto e riconoscibile di Velostazione, perché la riconoscibilità è parte dell’attrattività di un servizio, ma le condizioni della ciclabilità sono ancora molto disomogenee da città a città, ogni amministrazione vuole rinventare la ruota, invece bisogna standardizzare un luogo, magari modulare, e destinare delle risorse pubbliche come si fa per gli altri servizi di trasporto, coinvolgendo anche i privati. Ora invece vediamo solo i due estremi: il servizio standardizzato e assolutamente impersonale di grosse gabbie automatizzate, efficiente ma fallimentare perché non accompagna il servizio con un pensiero sulla città, o gli spazi privati e sociali portati avanti da gruppi di volonterosi, che finiscono per stancarsi e disperdersi dopo un po’. In un servizio pubblico la convenienza economica non c’è, spesso non avanzano neppure i soldi per pagare degli stipendi. Vi immaginate se il trasporto pubblico fosse affidato al volontariato?
Ci racconti della tua militanza come ciclista? Cosa vuol dire essere un’attivista del movimento ciclistico? Quali sono i vostri obiettivi e come contate di raggiungerli?
Attivismo vuol dire non rassegnarsi mai alle cose come stanno. Che non significa combattere contro i mulini a vento, ma trovare sempre la strada per il cambiamento, pure nella tempesta con cui la conservazione ci travolge ogni giorno. Sono sempre stata attratta dalla politica, ho partecipato alle mobilitazioni studentesche già dal liceo, ma non capivo bene come le nostre instanze potessero tradursi in qualcosa di concreto e fattibile che andasse oltre la mera protesta. Nel mondo del cicloattivismo ho trovato da subito la mia dimensione, perché occupare la strada con il proprio corpo, rallentando il traffico nei suoi inutili picchi di velocità, costringendo a guardarsi, a rispettarsi, a volte anche entrando in conflitto, è già un gesto politico. Un gesto che nega il consumismo della fretta, dell’isolamento, della morte delle relazioni sociali tipica della vita dentro l’abitacolo di un auto. La bici è un veicolo che ti costringe a entrare in relazione in modo autentico con il prossimo. Questa concretezza per me è stata la salvezza. Il movimento cicloattivista lotta per città diverse, dove le persone siano al centro. Alcune piccole battaglie sono state vinte: dopo secoli il finanziamento delle reti ciclabili è finalmente affidato al Ministero dei Trasporti e non al Ministero dell’Ambiente, qualche piccola innovazione nel codice della strada, una timida ripresa, almeno in alcune regioni, dell’interesse per il trasporto pubblico. Ma la grande guerra è ancora lontana dall’essere vinta: dobbiamo togliere l’auto privata dal centro del nostro modello di mobilità, smettere di costruire autostrade, di finanziare l’ACI, di finanziare l’acquisto di auto private, e dare quello di cui le persone hanno bisogno: spostarsi, meno e meglio.
Oggi dalla sella di una bici ti sei spostata sullo scranno del consiglio comunale di Bologna. Nel nostro immaginario sei una militante della strada, è difficile immaginarti nei meccanismi dell’amministrazione. Come è stato il passaggio dalla strada al palazzo?
Prima, lavorando in Velostazione e come presidente di Salvaiciclisti, vivevo tutto il giorno in mezzo a persone che la pensano come me, circondata da affetto, condivisione profonda, sintonia in ogni gesto e pensiero. Ora, per lo più, vivo in mezzo a persone che devo costantemente convincere delle mie posizioni, con risultati che a volte sono esaltanti, ma il più delle volte è una lotta. Ogni istante devo considerare le differenze di linguaggio, di galateo, di significato dei gesti e delle parole. La politica è un mondo parallelo, dove le cose non hanno mai un senso in sé, ma sempre in base a un alfabeto di rapporti di forza e di ruoli. La cosa più difficile è stato imparare quell’alfabeto, che sto ancora cercando di decifrare. Per il resto, chi amministra vive le stesse tragedie di tutti: in Comune si subiscono le decisioni della Regione, in Regione ci si lamenta del Governo, al Governo dicono che è colpa dell’Europa. Siamo tutte Davide contro Golia, alla fine anche il più indefesso ambientalista fa qualche compromesso per stare una società civile consumista e autodistruttiva. Cerco di restare lucida mantenendo le stesse abitudini di prima: mi muovo solo in bici o in treno, mangio vegetariano e locale, mi porto la borraccia anche ai convegni, non compro abiti fast fashion, vedo gli amici di sempre. Cerco di mettermi in discussione ogni giorno, chiedendomi se sto facendo davvero tutto il possibile.
La vostra lista ha scelto non solo di partecipare alle elezioni ma anche di partecipare al governo della città. A distanza di qualche mese dall’inizio della consiliatura pensi che sia stata una scommessa vinta?
Non si può dire dopo pochi mesi, potremo dircelo alla fine del mandato. Stiamo imbastendo tanti cantieri importanti: le comunità energetiche, l’obiettivo di Bologna carbon neutral entro il 2030, fare marcia indietro sul consumo di suolo, nuovi parchi e fasce boscate, sostegno alle persone fragili, aumentare le case popolari, i percorsi contro le discriminazioni, e naturalmente gli obiettivi sulla mobilità. Ci sono 32 milioni di Euro sul piatto per il finanziamento della rete ciclabile metropolitana e stiamo riavviando il progetto del Servizio Ferroviario Metropolitano, fermo dal 2013. Per ora il lavoro è trovare fondi, inserire voci di spesa nei bilanci, riorganizzare i settori perché si occupino di questi nuovi temi. Certo, Nessuna di queste cose si fa in sei mesi, ma ogni giorno bisogna aggiungere un pezzettino perché diventino una priorità politica condivisa, non solo da noi amministratori ma soprattutto dalle persone che rappresentiamo. Le due cose vanno assieme.
Sei stata accusata di aver appoggiato un progetto infrastrutturale antiecologico, quello del passante, come rispondi a questa critica?
Già, mentre cerchi di fare delle belle cose, provi a mettere una toppa alle scelte scellerate che sono state fatte nel passato, e non sempre si esce soddisfatte. Il capitolo dell’allargamento del Passante autostradale di Bologna è stato molto doloroso da vivere, entrando nei processi abbiamo trovato accordi già sottoscritti e un iter irreversibile, questo già prima delle elezioni. Si poteva fare senza di noi, senza alcuna compensazione ambientale, lasciando che si concludesse tutto entro il mandato precedente e uscendone con la faccia pulita, ma dal mio punto di vista, ben più responsabili. invece abbiamo voluto rinviare l’iter e includere le compensazioni nell’accordo di coalizione. Secondo qualcuno sarebbe stato meglio, politicamente, non essere coinvolti in quel voto. Io purtroppo sono una persona troppo pragmatica, penso che se c’è modo di migliorare un’opera dannosa, anche se politicamente ci si perde qualcosa, è giusto sporcarsi le mani. Per qualcuno aver ottenuto le fasce boscate e un impianto fotovoltaico capace di fornire energia pulita a 200 famiglie è stato inutile. Per me no, rimango contraria ad ogni autostrada, ma guardo in faccia la realtà e mi rende triste vedere arrivare critiche da gente che usa l’auto ben più di me.
Invece, anche se sono pochi mesi che lavori nell’istituzione comunale, c’è un risultato del quale sei orgogliosa?
La nascita di piazze e strade scolastiche, un risultato che è arrivato dopo anni di richieste, coinvolgimento delle comunità scolastiche, advocacy anche a livello nazionale, ma che si è concretizzato grazie alla convinzione del nostro Sindaco e della nostra Assessora, e che è entrato negli obiettivi di mandato come misura da estendere a tutte le scuole possibili. Spazi accoglienti e senza auto all’entrata e all’uscita da scuola. Perché la città è di tutte.
Dopo i primi lockdown molti amministratori ci hanno detto che “nulla sarebbe stato più come prima” in una narrativa che alludeva alla realizzazione di città più a misura di uomo (in sella o meno ad una bici). Ci pare che contrariamente a quanto stia avvenendo in altre città, come Parigi, in Italia non ci sia nessun cambiamento apprezzabile. Sei d’accordo?
Per Bologna fortunatamente non è così. Gli spostamenti in bici sono aumentati anche del 20/30% su alcune strade dove si sono fatti interventi e stiamo pianificando la città 30, l’abbassamento dei limiti di velocità e con il progetto Area Verde una continuità ciclopedonale tra tutte le aree verdi di Bologna. Il traffico auto è rimasto al di sotto dei livelli pre-covid, anche se purtroppo il trasporto pubblico non si è del tutto ripreso. Certo, a livello nazionale il Governo Draghi sta facendo molte marce indietro, tornando a politiche vecchissime e scoraggianti.
Qual è la singola cosa più importante che vorresti realizzare nei prossimi quattro anni?
Raddoppiare il numero di persone che si spostano in bici ogni giorno. Sembra una mia fissa, ma vuol dire meno incidenti, meno smog, persone più in salute, vuol dire aumentare la felicità collettiva.
Vorremmo farti anche una domanda un po’ più politica e generale. Secondo te cosa manca al movimento ecologista italiano per poter diventare efficace nell’azione come i partiti verdi della Germania o di altri paesi europei?
Purtroppo è semplice rispondere: manca la capacità di lavorare insieme, con meno protagonismo. Ognuno Purtroppo è semplice rispondere: manca la capacità di lavorare insieme, con meno protagonismo. Ognuno cerca il proprio palco e ci si accontenta di una enorme frammentazione. Serve spirito di servizio e pragmatismo.
A febbraio hai partecipato a Assemblea Ecologista a Firenze con un intervento molto applaudito. Cosa ti aspetti che possa diventare Assemblea Ecologista?
Spero che sia una piattaforma per creare un modo di fare politica riconoscibile ed efficace, ovviamente se si vuole essere efficaci bisogna produrre anche risultati misurabili e cambiare il modello di sviluppo. Sono sicura che in giro per l’Italia ci sono tante piccole esperienze che hanno bisogno solo della forza di un gruppo per emergere, come un vero movimento.
Grazie per il tuo tempo!
Il nodo dell’Alta Velocità a Firenze
Da dove nasce l’esigenza di realizzare a Firenze un passante ferroviario dedicato all’Alta Velocità (AV)?
Sulla linea AV Milano-Napoli, il nodo fiorentino rappresenta una strozzatura, dato che non permette la necessaria differenziazione dei traffici tra i treni AV, quelli a lunga percorrenza e regionali. Questa situazione provoca ritardi ai treni AV, soprattutto i molti che si devono fermare alla stazione di testa Santa Maria Novella, e penalizza in particolare i treni regionali che subiscono continui ritardi e cancellazioni perché costretti a dare la precedenza ai treni AV.
A causa della congestione delle linee, inoltre, non è mai stato possibile utilizzare alcuni dei binari che attraversano da parte a parte e in superficie l’area metropolitana di Firenze per creare un vero e proprio Servizio ferroviario metropolitano cadenzato e capillare, sul modello delle S-Bahn tedesche, che integrato al sistema tranviario e dei bus potrebbe costituire una rete di trasporti locali efficiente per gli abitanti di Firenze e di tutta l’area metropolitana (ne abbiamo parlato in questo articolo).
Le scelte progettuali sul passante ferroviario fiorentino dell’Alta Velocità si caratterizzano per due punti fondamentali:
Difficile avere notizie ufficiali recenti sullo stato di avanzamento dei lavori: a maggio 2019 le opere risultavano completate per circa il 50%, con costi complessivi lievitati a 1 miliardo e 612 milioni di euro a fronte di un costo di 797 milioni e 370mila euro per le opere ancora da realizzare (Fonte: Analisi Costi Benefici del sottoattraversamento AV di Firenze, 31/07/2019, disponibile su www.mit.gov.it). Di tutto il progetto, ad oggi risulta ultimato lo ”scavalco” già in esercizio dal 2011 tra Rifredi e Castello (opera che permette ai binari AV di non interferire con i binari esistenti) ed è a buon punto il cantiere della stazione AV, mentre quasi niente è stato ancora fatto per lo scavo dei tunnel (di fatto a Campo di Marte è stato solo completato il “pozzo lancio fresa”, la fresa TBM è stata assemblata ma non ha mai iniziato a scavare).
Sono molti gli ostacoli che negli anni hanno rallentato e bloccato l’avanzamento dei lavori, che avrebbero dovuto concludersi entro il 2015, a partire da varie inchieste giudiziarie tra cui quella iniziata nel 2010 che ha riguardato lo smaltimento delle terre di scavo dei cantieri. Ai numerosi guai giudiziari si è aggiunta anche la grave crisi aziendale della ditta esecutrice dei lavori Nodavia, causata dal fallimento nel 2018 della sua capogruppo Condotte Spa. Nel 2019 l’appalto è stato quindi affidato a Infrarail Firenze Srl, società neo-costituita da RFI proprio allo scopo di portare a termine i lavori del nodo AV fiorentino.
Il Cantiere della nuova Stazione di Firenze Belfiore, nell’area degli Ex-Macelli [fonte: www.ifrfirenze.it]
Oggi ci troviamo a quasi vent’anni dal progetto Foster e l’area degli ex-Macelli di Firenze ospita ancora un cantiere da anni praticamente fermo, una voragine nel centro della città che finora ha inghiottito centinaia di milioni di euro (pagati in autofinanziamento da Rete Ferroviaria Italiana), per una stazione che ancora non ha visto la luce e il cui progetto è stato a più riprese rivisto e messo in discussione dalle stesse Ferrovie dello Stato.
Prima, nel 2011, con un nuovo accordo tra RFI, Regione Toscana, Provincia e Comune di Firenze, è stato eliminato dal progetto il completamento di varie stazioni del Servizio Ferroviario Metropolitano (fra queste ad esempio le stazioni Circondaria e Perfetti-Ricasoli). Il completamento doveva essere a carico di RFI, che ha indennizzato il Comune di Firenze con circa 70 milioni, congelando di fatto il progetto di rafforzamento del Servizio Ferroviario Metropolitano che era strettamente collegato a quello del nodo AV. In particolare è stata stralciata la previsione della stazione Circondaria, che doveva sorgere in superficie in corrispondenza della stazione sotterranea Belfiore e consentire quindi un raccordo tra passeggeri dell’Alta Velocità, dei treni regionali e del servizio metropolitano.
Poi, nel 2016, le Ferrovie hanno addirittura inaspettatamente rimesso in discussione l’intero progetto dell’alta velocità nel nodo fiorentino. Le esperienze delle altre stazioni sotterranee per l’alta velocità realizzate e già in funzione (Bologna, Roma Tiburtina, Torino Porta Susa) avevano infatti dimostrato che la nuova stazione AV avrebbe avuto costi di gestione troppo alti rispetto al volume di passeggeri previsto. Tenendo conto anche dei miglioramenti tecnologici raggiunti negli ultimi anni che hanno permesso una migliore gestione del traffico ferroviario e della volontà espressa da Trenitalia e NTV di continuare ad usare Firenze SMN come stazione principale per i loro treni alta velocità, la stazione Belfiore e il sottoattraversamento sono diventate agli occhi delle Ferrovie due opere su cui non valeva più la pena puntare.
In questo scenario, qual è stata la posizione di Regione Toscana e Comune di Firenze?
La Regione, va detto, ha sempre mantenuto una posizione coerente e prima con Enrico Rossi e poi con Eugenio Giani ha continuato a sostenere la necessità del progetto originario (tunnel per l’alta velocità, stazione sotterranea per treni AV e stazione Circondaria di superficie per treni regionali), vista la necessità di separare grazie ai tunnel il traffico regionale da quello AV.
Più confusa la posizione del Comune di Firenze, con il Sindaco Nardella che ha prima ribadito la necessità di mantenere fede al progetto originario, per poi abbracciare la nuova proposta di Ferrovie secondo cui Santa Maria Novella doveva rimanere il terminale principale per i treni AV, con una nuova stazione Belfiore ridimensionata rispetto al progetto iniziale e con funzione di “hub ferro/gomma” con la presenza di stalli per bus interurbani e turistici e la fermata di alcuni treni alta velocità.
Un importante contributo al dibattito, soprattutto alla luce del dietrofront di Ferrovie, si è aggiunto nel 2019 con la pubblicazione dell’Analisi Costi Benefici del sottoattraversamento AV di Firenze, commissionata dall’allora Ministro dei Trasporti Danilo Toninelli e curata dal gruppo di lavoro guidato dal professor Marco Ponti. L’analisi ha dato un responso sostanzialmente favorevole al completamento delle opere, sostenendo che porterebbe complessivamente benefici maggiori dei costi, consentendo ai treni AV che transitano dal nodo di Firenze di risparmiare tempo, ed ai treni regionali e metropolitani di aumentare la propria offerta in modo significativo. Completare i lavori, inoltre, sarebbe ormai preferibile rispetto all’opzione di abbandonarli, dato anche che in tal caso dovrebbero essere ripristinate tutte le aree attualmente interessate dai cantieri.
Questo non vuol dire tuttavia che dal rapporto sia uscito un giudizio in assoluto positivo per l’opera, e su questo pesa soprattutto il fatto che non sia stato possibile nell’analisi prendere in considerazione vere alternative: le scelte a favore del sottoattraversamento e di ubicare la stazione in una zona relativamente centrale di Firenze infatti hanno di fatto imposto al progetto vincoli determinanti, ad esempio escludendo per la stazione possibili altre localizzazioni come Campo di Marte o l’area a monte di Rifredi che secondo gli stessi autori avrebbero probabilmente dato risultati migliori.
Ponti & C. nel loro rapporto hanno poi evidenziato alcune condizioni fondamentali, senza le quali verrebbe replicato l’attuale assetto del traffico ferroviario sfavorevole per i treni regionali e quindi l’intera opera perderebbe molti dei benefici che ne giustificano l’esistenza: la realizzazione, in corrispondenza della stazione Belfiore, della stazione di superficie Circondaria per treni regionali e metropolitani; la realizzazione di un collegamento tra Belfiore/Circondaria e SMN (tramite tapis roulant o people mover); lo spostamento da SMN a Belfiore di tutti i treni AV che fermano a Firenze, non solo di alcuni di essi.
Le nostre proposte
Stupisce come si parli ancora troppo poco nel dibattito cittadino e regionale di un’opera così importante, nel bene e nel male, come quella del nodo fiorentino dell’Alta Velocità: una grande opera con effetti potenzialmente molto positivi sulla mobilità metropolitana e regionale, rilevante dal punto di vista urbanistico ma anche molto impattante dal punto di vista ambientale.
Da anni ormai sui giornali escono regolarmente dichiarazioni da parte del Comune o della Regione che comunicano l’imminente ripresa dei lavori, ma la project review annunciata fin dal 2016 ad oggi non risulta sia mai stata conclusa né tantomeno pubblicata, quindi rimane un grosso interrogativo: i lavori riprenderanno (se riprenderanno) per realizzare cosa?
Come Ecoló siamo fermamente contrari ad esempio alla proposta presentata nel 2017 da Ferrovie e sostenuta dal Comune di Firenze, di ultimare la stazione Belfiore trasformandola in un centro di smistamento treno/gomma con la fermata solo di alcuni treni AV e gli stalli per bus extraurbani. Si tratta di una proposta incongruente sotto tanti punti di vista. Innanzitutto non esiste nessuna valutazione dell’impatto sul traffico di un hub per gli autobus in una zona così centrale della città. Poi, assecondare le richieste di NTV e Trenitalia continuando ad utilizzare SMN per la maggior parte dei treni Alta Velocità, significherebbe lasciare poche capacità residue per incrementare i servizi regionali e compromettere la possibilità di istituire un vero Servizio Ferroviario Metropolitano. Infine, la proposta non prevede la realizzazione della stazione Circondaria, quindi di un interscambio tra treni regionali e AV/bus extraurbani.
Per fortuna, dalle notizie che riportano gli esiti dei più recenti incontri tra i rappresentanti del Gruppo Ferrovie, il Presidente della Regione Toscana Giani e il Sindaco di Firenze Nardella, sembrerebbe (il condizionale è d’obbligo) che questa posizione sia stata almeno in parte superata e che sia tornata sul tavolo la proposta di realizzare anche la stazione Circondaria per i treni regionali, insieme alla connessione tramite people mover della nuova stazione con SMN.
Dal punto di vista dei cittadini dell’area metropolitana, l’accettabilità di un’opera come quella del nodo fiorentino dell’Alta Velocità, impattante dal punto di vista ambientale e urbanistico, dovrebbe essere misurata tenendo in giusta considerazione le ricadute del progetto a livello locale. Per questo motivo, come Ecoló riteniamo che la realizzazione di un vero e proprio Servizio Ferroviario Metropolitano debba essere inserito come condizione irrinunciabile all’interno degli accordi tra RFI e le amministrazioni locali, qualunque sia la soluzione tecnica adottata (sottoattraversamento o alternativa di superficie) per realizzare il passante AV fiorentino.
In realtà ci chiediamo perché non sia mai stato preso seriamente in considerazione lo studio dell’alternativa di superficie al passante ferroviario AV. Un’opzione che, a lavori ancora da iniziare, avrebbe potuto rappresentare un’alternativa ad un’opera che presenta criticità significative dal punto di vista ambientale (interferenza con la falda, gestione delle terre da scavo) e di sicurezza (stabilità degli edifici sotto cui i tunnel saranno scavati).
D’altra parte però, anche in considerazione dello stato di avanzamento dei lavori, crediamo che la scelta di completare il sottoattraversamento sia da considerarsi ormai preferibile rispetto a rinunciare ad un’opera potenzialmente molto vantaggiosa per migliorare la mobilità ferroviaria regionale e metropolitana, purché:
Siamo convinti che una delle principali soluzioni per migliorare la mobilità a Firenze sia rafforzare i suoi collegamenti via treno, prioritariamente quelli che la connettono al resto dell’area metropolitana e all’intera regione, ed il passante AV di Firenze e le opere connesse potrebbero permettere di fare un grande passo in avanti in questa direzione. Crediamo che senza le due condizioni sopra indicate, tuttavia, venga meno l’unica vera giustificazione, almeno dal punto di vista dei cittadini di Firenze, per realizzarlo: l’opportunità di sviluppare un efficiente servizio di treni metropolitani di cui la città avrebbe urgentemente bisogno.