Simona Larghetti, imprenditrice e cicloattivista ci racconta la strada che dalla sella di una bici l’ha condotta nel consiglio comunale di Bologna.
Ecolo’: Ciao Simona, grazie per la tua disponibilità a rispondere alle nostre domande. Cominciamo da te? Sappiamo che sei nata a Urbino, come sei arrivata a Bologna?
Simona Larghetti: Dopo Urbino sono andata a Roma per fare i provini dell’Accademia Silvio D’Amico, volevo fare l’attrice teatrale. L’impatto da un piccolo paese alla metropoli è stato devastante, mi ha colpito soprattutto la violenza del traffico e l’enorme difficoltà a spostarsi, anche per piccole distanze. Alla fine mi hanno presa all’Accademia Paolo Grassi a Milano, lì ho iniziato ad andare in bici. A Bologna sono arrivata due anni dopo per puro caso, ero rimasta delusa dal mondo del teatro e volevo scappare.l teatro e non sapevo bene cosa fare.
Com’è successo che Bologna ti ha adottata?
Mi sono iscritta all’Università, a Lettere, un po’ perché mi piaceva un po’ perché non sapevo bene cosa fare. Ho incontrato una ragazza del mio paese che faceva parte di un’associazione studentesca che si occupava del recupero di biciclette usate e di campagne contro il furto. Io già andavo in bici, mi sembravano cose bellissime. Sono diventata prima volontaria poi ho iniziato anche a lavorarci, facendo ufficio stampa e organizzazione eventi. Quel lavoretto è diventato la mia vita, e mi appassionava molto di più dello studio, che pure mi piaceva. Mi piaceva la prospettiva anche politica di quello che facevo, sentirmi parte della città e non un’ospite, una parte attiva, che si prende cura e responsabilità di quello che accade nello spazio pubblico.
Vorremmo chiederti del tuo lavoro. Dopo Paolo Pinzuti sei la seconda imprenditrice della bicicletta che intervistiamo. Come succede che una studentessa di lettere diventa imprenditrice?
Ho fatto tanti lavori tra la laurea e l’inizio dell’attività in Velostazione, sempre come dipendente o collaboratrice. Soffrivo moltissimo la mancanza di confronto con chi stava sopra di me, l’obbligo di eseguire delle mansioni senza alcuna possibilità di dare il mio contributo. Mi sembrava un sistema demenziale. Sono figlia di un piccolo imprenditore agricolo, abituata a dare il massimo per qualcosa che ami e che curi. Quando mi sono confrontata con altre persone dell’associazione che nel frattempo avevo fondato, Salvaiciclisti Bologna, aprire una cooperativa è stato quasi naturale. Una dimensione di impresa dove ognuna è nelle condizioni di dare il meglio e di costruire assieme la visione.
L’esperienza delle velostazioni in Italia è lastricata di speranza, successi ma anche tante difficoltà (pensiamo ad esempio all’esperienza di Bari). Cosa manca perché esperienze come è stata la vostra possano diventare una realtà in tutte i piccoli e grandi centri italiani?
Siamo ancora in una fase sperimentale, nonostante l’enorme ritardo. L’uso della bicicletta sta uscendo faticosamente dalla dimensione di emarginazione a chi la usava perché non aveva alternative e per molte sta diventando una scelta di vita. Iniziare a ragionare di servizi su cui investire, sia da parte del pubblico che del privato, non è più utopia, ma ancora l’agenda politica non vede la priorità assoluta di questi interventi: occorre un modello riconosciuto e riconoscibile di Velostazione, perché la riconoscibilità è parte dell’attrattività di un servizio, ma le condizioni della ciclabilità sono ancora molto disomogenee da città a città, ogni amministrazione vuole rinventare la ruota, invece bisogna standardizzare un luogo, magari modulare, e destinare delle risorse pubbliche come si fa per gli altri servizi di trasporto, coinvolgendo anche i privati. Ora invece vediamo solo i due estremi: il servizio standardizzato e assolutamente impersonale di grosse gabbie automatizzate, efficiente ma fallimentare perché non accompagna il servizio con un pensiero sulla città, o gli spazi privati e sociali portati avanti da gruppi di volonterosi, che finiscono per stancarsi e disperdersi dopo un po’. In un servizio pubblico la convenienza economica non c’è, spesso non avanzano neppure i soldi per pagare degli stipendi. Vi immaginate se il trasporto pubblico fosse affidato al volontariato?
Ci racconti della tua militanza come ciclista? Cosa vuol dire essere un’attivista del movimento ciclistico? Quali sono i vostri obiettivi e come contate di raggiungerli?
Attivismo vuol dire non rassegnarsi mai alle cose come stanno. Che non significa combattere contro i mulini a vento, ma trovare sempre la strada per il cambiamento, pure nella tempesta con cui la conservazione ci travolge ogni giorno. Sono sempre stata attratta dalla politica, ho partecipato alle mobilitazioni studentesche già dal liceo, ma non capivo bene come le nostre instanze potessero tradursi in qualcosa di concreto e fattibile che andasse oltre la mera protesta. Nel mondo del cicloattivismo ho trovato da subito la mia dimensione, perché occupare la strada con il proprio corpo, rallentando il traffico nei suoi inutili picchi di velocità, costringendo a guardarsi, a rispettarsi, a volte anche entrando in conflitto, è già un gesto politico. Un gesto che nega il consumismo della fretta, dell’isolamento, della morte delle relazioni sociali tipica della vita dentro l’abitacolo di un auto. La bici è un veicolo che ti costringe a entrare in relazione in modo autentico con il prossimo. Questa concretezza per me è stata la salvezza. Il movimento cicloattivista lotta per città diverse, dove le persone siano al centro. Alcune piccole battaglie sono state vinte: dopo secoli il finanziamento delle reti ciclabili è finalmente affidato al Ministero dei Trasporti e non al Ministero dell’Ambiente, qualche piccola innovazione nel codice della strada, una timida ripresa, almeno in alcune regioni, dell’interesse per il trasporto pubblico. Ma la grande guerra è ancora lontana dall’essere vinta: dobbiamo togliere l’auto privata dal centro del nostro modello di mobilità, smettere di costruire autostrade, di finanziare l’ACI, di finanziare l’acquisto di auto private, e dare quello di cui le persone hanno bisogno: spostarsi, meno e meglio.
Oggi dalla sella di una bici ti sei spostata sullo scranno del consiglio comunale di Bologna. Nel nostro immaginario sei una militante della strada, è difficile immaginarti nei meccanismi dell’amministrazione. Come è stato il passaggio dalla strada al palazzo?
Prima, lavorando in Velostazione e come presidente di Salvaiciclisti, vivevo tutto il giorno in mezzo a persone che la pensano come me, circondata da affetto, condivisione profonda, sintonia in ogni gesto e pensiero. Ora, per lo più, vivo in mezzo a persone che devo costantemente convincere delle mie posizioni, con risultati che a volte sono esaltanti, ma il più delle volte è una lotta. Ogni istante devo considerare le differenze di linguaggio, di galateo, di significato dei gesti e delle parole. La politica è un mondo parallelo, dove le cose non hanno mai un senso in sé, ma sempre in base a un alfabeto di rapporti di forza e di ruoli. La cosa più difficile è stato imparare quell’alfabeto, che sto ancora cercando di decifrare. Per il resto, chi amministra vive le stesse tragedie di tutti: in Comune si subiscono le decisioni della Regione, in Regione ci si lamenta del Governo, al Governo dicono che è colpa dell’Europa. Siamo tutte Davide contro Golia, alla fine anche il più indefesso ambientalista fa qualche compromesso per stare una società civile consumista e autodistruttiva. Cerco di restare lucida mantenendo le stesse abitudini di prima: mi muovo solo in bici o in treno, mangio vegetariano e locale, mi porto la borraccia anche ai convegni, non compro abiti fast fashion, vedo gli amici di sempre. Cerco di mettermi in discussione ogni giorno, chiedendomi se sto facendo davvero tutto il possibile.
La vostra lista ha scelto non solo di partecipare alle elezioni ma anche di partecipare al governo della città. A distanza di qualche mese dall’inizio della consiliatura pensi che sia stata una scommessa vinta?
Non si può dire dopo pochi mesi, potremo dircelo alla fine del mandato. Stiamo imbastendo tanti cantieri importanti: le comunità energetiche, l’obiettivo di Bologna carbon neutral entro il 2030, fare marcia indietro sul consumo di suolo, nuovi parchi e fasce boscate, sostegno alle persone fragili, aumentare le case popolari, i percorsi contro le discriminazioni, e naturalmente gli obiettivi sulla mobilità. Ci sono 32 milioni di Euro sul piatto per il finanziamento della rete ciclabile metropolitana e stiamo riavviando il progetto del Servizio Ferroviario Metropolitano, fermo dal 2013. Per ora il lavoro è trovare fondi, inserire voci di spesa nei bilanci, riorganizzare i settori perché si occupino di questi nuovi temi. Certo, Nessuna di queste cose si fa in sei mesi, ma ogni giorno bisogna aggiungere un pezzettino perché diventino una priorità politica condivisa, non solo da noi amministratori ma soprattutto dalle persone che rappresentiamo. Le due cose vanno assieme.
Sei stata accusata di aver appoggiato un progetto infrastrutturale antiecologico, quello del passante, come rispondi a questa critica?
Già, mentre cerchi di fare delle belle cose, provi a mettere una toppa alle scelte scellerate che sono state fatte nel passato, e non sempre si esce soddisfatte. Il capitolo dell’allargamento del Passante autostradale di Bologna è stato molto doloroso da vivere, entrando nei processi abbiamo trovato accordi già sottoscritti e un iter irreversibile, questo già prima delle elezioni. Si poteva fare senza di noi, senza alcuna compensazione ambientale, lasciando che si concludesse tutto entro il mandato precedente e uscendone con la faccia pulita, ma dal mio punto di vista, ben più responsabili. invece abbiamo voluto rinviare l’iter e includere le compensazioni nell’accordo di coalizione. Secondo qualcuno sarebbe stato meglio, politicamente, non essere coinvolti in quel voto. Io purtroppo sono una persona troppo pragmatica, penso che se c’è modo di migliorare un’opera dannosa, anche se politicamente ci si perde qualcosa, è giusto sporcarsi le mani. Per qualcuno aver ottenuto le fasce boscate e un impianto fotovoltaico capace di fornire energia pulita a 200 famiglie è stato inutile. Per me no, rimango contraria ad ogni autostrada, ma guardo in faccia la realtà e mi rende triste vedere arrivare critiche da gente che usa l’auto ben più di me.
Invece, anche se sono pochi mesi che lavori nell’istituzione comunale, c’è un risultato del quale sei orgogliosa?
La nascita di piazze e strade scolastiche, un risultato che è arrivato dopo anni di richieste, coinvolgimento delle comunità scolastiche, advocacy anche a livello nazionale, ma che si è concretizzato grazie alla convinzione del nostro Sindaco e della nostra Assessora, e che è entrato negli obiettivi di mandato come misura da estendere a tutte le scuole possibili. Spazi accoglienti e senza auto all’entrata e all’uscita da scuola. Perché la città è di tutte.
Dopo i primi lockdown molti amministratori ci hanno detto che “nulla sarebbe stato più come prima” in una narrativa che alludeva alla realizzazione di città più a misura di uomo (in sella o meno ad una bici). Ci pare che contrariamente a quanto stia avvenendo in altre città, come Parigi, in Italia non ci sia nessun cambiamento apprezzabile. Sei d’accordo?
Per Bologna fortunatamente non è così. Gli spostamenti in bici sono aumentati anche del 20/30% su alcune strade dove si sono fatti interventi e stiamo pianificando la città 30, l’abbassamento dei limiti di velocità e con il progetto Area Verde una continuità ciclopedonale tra tutte le aree verdi di Bologna. Il traffico auto è rimasto al di sotto dei livelli pre-covid, anche se purtroppo il trasporto pubblico non si è del tutto ripreso. Certo, a livello nazionale il Governo Draghi sta facendo molte marce indietro, tornando a politiche vecchissime e scoraggianti.
Qual è la singola cosa più importante che vorresti realizzare nei prossimi quattro anni?
Raddoppiare il numero di persone che si spostano in bici ogni giorno. Sembra una mia fissa, ma vuol dire meno incidenti, meno smog, persone più in salute, vuol dire aumentare la felicità collettiva.
Vorremmo farti anche una domanda un po’ più politica e generale. Secondo te cosa manca al movimento ecologista italiano per poter diventare efficace nell’azione come i partiti verdi della Germania o di altri paesi europei?
Purtroppo è semplice rispondere: manca la capacità di lavorare insieme, con meno protagonismo. Ognuno Purtroppo è semplice rispondere: manca la capacità di lavorare insieme, con meno protagonismo. Ognuno cerca il proprio palco e ci si accontenta di una enorme frammentazione. Serve spirito di servizio e pragmatismo.
A febbraio hai partecipato a Assemblea Ecologista a Firenze con un intervento molto applaudito. Cosa ti aspetti che possa diventare Assemblea Ecologista?
Spero che sia una piattaforma per creare un modo di fare politica riconoscibile ed efficace, ovviamente se si vuole essere efficaci bisogna produrre anche risultati misurabili e cambiare il modello di sviluppo. Sono sicura che in giro per l’Italia ci sono tante piccole esperienze che hanno bisogno solo della forza di un gruppo per emergere, come un vero movimento.
Grazie per il tuo tempo!