Il Tirreno ha pubblicato un reportage sul consumo di suolo nella Piana fiorentina. Un approfondimento meritorio da cui emerge un quadro preoccupante. Ma la classifica comparsa sulle pagine del quotidiano lo scorso lunedì 21 novembre fa apparire troppo virtuosi comuni, come quello di Firenze, che pur avendo un territorio già saturo a inizio anni 2000 hanno continuato a costruire in questi anni.
La percentuale riportata da Il Tirreno fa riferimento agli ettari costruiti in più oltre a quelli consumati fino al 2006. In una classifica del genere un comune con 99 ettari su 100 di superficie consumata nel 2006, che avesse consumato anche l’ultimo ettaro disponibile, esaurendo completamente il suo territorio, con un consumo del 100%, risulterebbe più virtuoso del comune di Scandici che, seppur ha consumato 17 ettari di terreno negli ultimi 15 anni, ha un consumo totale di suolo attorno al 25%.
Secondo noi il modo corretto di rappresentare il problema è un altro.
In primo luogo bisogna chiederci in che misura i comuni si sono allontanati dalla prospettiva di consumo zero di suolo. Cioè quanti ettari sono stati consumati in più. Purtroppo il trend è di un maggior consumo di suolo per tutti (quinta colonna della tabella). In secondo luogo occorre domandarci quale percentuale del suolo non ancora consumato nel 2006 è stato sottratto alle sue funzioni ecosistemiche.
Il grafico sotto riporta i valori per comune, mettendo a confronto la misura riportata da Il Tirreno (in blu) con la misura del consumo percentuale di suolo libero (in verde).
Come si inverte il trend? Secondo Ecolo’ è inevitabile, con l’evolvere di un sistema sociale ed economico, che emergano esigenze di consumo di suolo. Nuove scuole, nuove insfrastrutture per il trasporto, nuove esigenze per abitazioni e produzione. Per questo motivo le amministrazione dovrebbero adottare un piano di rinaturalizzazione e ricomplessizzazione ecologica di aree all’interno dei propri territori che riportino in attivo il conto del suolo riguadagnato alle sue funzioni naturali.
Troppo spesso la strategia di riduzione di consumo di suolo è vissuta come una resistenza alla tendenza divoratrice del mercato. Dobbiamo portare nelle istituzione una visione che ribalta la logica e che vede nelle rinaturalizzazione di parte del territorio all’interno delle città un obiettivo strategico fondamentale. Per il pianeta, per la persone che lo abitano.
Come riportato nel dossier ISPRA 2021 ‘Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici – Edizione 2021’, in Italia nel solo anno 2020 nuove coperture artificiali hanno riguardato altri 56.7 kmq, in media quindi 15 ettari al giorno. Il nostro paese perde quasi 2 mq di suolo ogni secondo. La crescita delle superfici artificiali è solo in parte ricompensata dalla ricostituzione e dal ripristino di aree naturali, che si attesta attualmente intorno a soli 5 kmq all’anno. Dobbiamo quindi da una parte ridurre drasticamente il nuovo consumo di suolo, fino ad azzerarlo, e dall’altra far crescere il recupero e la ricreazione di spazi e territori naturali. Purtroppo, nonostante tanti proclami e nonostante indicazioni forti in tal senso anche dalle Istituzioni internazionali (le Nazioni Unite hanno intitolato il decennio 2021-2030 come Decade on Ecosystem Restoration per sottolineare la necessità e l’urgenza di un’azione su questo piano), i segnali positivi continuano ad essere pochi.
Di Guido Scoccianti
Fanalino di coda da sempre di tutte le politiche, ultimo dei settori nella destinazione dei fondi e delle risorse, da molti sostanzialmente ignorata o quantomeno considerata tema da ‘sentimentali’, la tutela della biodiversità ancora oggi stenta ad essere riconosciuta per quello che in realtà è, cioè uno degli elementi chiave per la nostra sopravvivenza.
Qualcosa però potrebbe cominciare a cambiare.
Se a poco o nulla sono serviti i gridi di allarme negli ultimi decenni di biologi e naturalisti, nonostante la mole di dati raccolti che mostrano in modo inequivocabile la gravità della situazione, finalmente adesso cominciano a parlare dell’importanza della biodiversità anche gli economisti. Una voce tipicamente tenuta in maggior considerazione dai nostri politici.
Quali sono infatti i costi economici per la nostra società della distruzione di specie e habitat?
Come segnala la Commissione Europea nella presentazione della Strategia Europea sulla Biodiversità per il 2030:
“la perdita di biodiversità e il collasso degli ecosistemi sono una minaccia anche per le fondamenta della nostra economia e si prevede che i costi dell’inazione, già alti, aumenteranno. Si stima che dal 1997 al 2011 i cambiamenti nella copertura del suolo abbiano causato perdite pari a 3500-18500 miliardi di euro l’anno in servizi ecosistemici a livello mondiale e che il degrado del suolo sia costato 5500-10500 miliardi di euro l’anno“.
“l rapporto benefici/costi complessivi di un programma mondiale efficace per la conservazione della natura ancora allo stato selvatico è stimato ad almeno 100 a 1. Gli investimenti nel capitale naturale, ad esempio nel ripristino di habitat ricchi di carbonio e nell’agricoltura rispettosa del clima, sono considerati tra le cinque politiche più importanti di risanamento del bilancio in quanto offrono moltiplicatori economici elevati e un impatto positivo sul clima“.
Basta inoltre pensare, per esempio, a come il declino degli insetti impollinatori, se non controvertito, può mettere in ginocchio la nostra agricoltura e di conseguenza tutta la catena della produzione alimentare, per comprendere bene come la tutela della biodiversità è una sicurezza anche per noi stessi.
Per questo la tutela della biodiversità, insieme al contrasto ai cambiamenti climatici, dovrebbe essere oggi elemento fondamentale ed anzi guida di tutte le politiche, in particolare di quelle che determinano le azioni per la ripresa economica dopo la pandemia.
E’ con questa consapevolezza che proprio nella primavera del 2020, in piena esplosione della crisi pandemica, la Commissione Europea ha avuto la volontà e la forza di approvare una nuova Strategia dell’UE sulla Biodiversità per il 2030, Strategia che dovrebbe guidare i Paesi europei in un cammino rivoluzionario per quanto riguarda i rapporti fra uomo e natura, con l’obiettivo conclusivo di giungere nel 2050 ad una situazione in cui tutti gli ecosistemi del pianeta siano ripristinati, resilienti e adeguatamente protetti e dove sia applicato il principio del “guadagno netto”, cioè restituire alla natura più di quanto le sottraiamo. Un obiettivo molto ambizioso, forse irraggiungibile nella sua interezza, ma che deve essere l’elemento su cui costruire fin da oggi tutte le nostre politiche, con una serie di passaggi intermedi di azione e di verifica. La strategia europea al 2030 vuole essere il primo di questi passaggi intermedi, prefiggendosi il traguardo di riportare la biodiversità in Europa sulla via della ripresa entro il 2030, in linea con l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, ed in connessione e sintonia con gli obiettivi di lotta ai cambiamenti climatici.
D’altronde tutela della biodiversità e tutela del clima sono strettamente interconnessi. La biodiversità ha un ruolo fondamentale nel sequestro e nell’immagazzinamento del carbonio. E’ facile pensare in questo senso alle foreste, ma anche altri ecosistemi hanno importanti ruoli. Per esempio le torbiere, che a livello globale contengono più di 550 giga tonnellate di carbonio e sono capaci di sequestrare 0.37 giga tonnellate di CO2 all’anno, e, come le torbiere, i suoli fertili in genere. Inoltre fondamentale è il ruolo del fitoplancton marino nell’accumulare CO2 rimuovendola dall’atmosfera.
Nello stesso tempo, la conservazione della biodiversità naturale rende gli ecosistemi maggiormente resilienti agli impatti da cambiamento climatico e inoltre ci offre soluzioni ‘nature-based’ che possono, e dovrebbero, svolgere un ruolo fondamentale nel contrasto al cambiamento climatico ed ai suoi effetti.
Non è un caso che, nel giugno 2021, è stato pubblicato un primo rapporto congiunto fra i due maggiori organismi internazionali che si occupano rispettivamente di clima e di biodiversità, cioè l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) e l’IPBES (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services), rapporto in cui si sottolinea l’importanza e la necessità di affrontare insieme la crisi climatica e la crisi della biodiversità congiuntamente ai loro combinati impatti sociali.
Allo stesso modo, tornando ai rapporti fra economia e biodiversità, un istituto come il World Economic Forum, ad oggi non proprio avvezzo a posizioni ecologiste e difficilmente tacciabile di posizioni ecologiste preconcette, ha pubblicato nel 2020 un dossier dall’eloquente titolo di ‘Nature risk rising: Why the crisis engulfing Nature matters for business and the economy’, in cui si sottolinea come più di metà del Prodotto Interno Lordo mondiale (44 miliardi di dollari) dipende in modo determinante dalla natura e dai suoi servizi ed è quindi esposto a rischio dalla perdita di capitale naturale.
E’ anche per questo che gli obiettivi della Strategia Europea sulla Biodiversità per il 2030 sono obiettivi che non ci possiamo permettere di perdere ed è importante notare che non sono solo obiettivi di ‘conservazione’ degli ecosistemi che ancora sopravvivono, ma anche di ripristino e ricreazione di ambienti che sono stati deteriorati. Uno degli obiettivi principali della strategia è infatti il ripristino di vaste superfici di ecosistemi degradati e ricchi di carbonio, obiettivo che coincide perfettamente con l’impegno che l’ONU ha voluto lanciare con la dichiarazione del decennio 2020-2030 come ‘Decade on Ecosystem restoration’.
E’ evidente che per raggiungere questi obiettivi ci vogliono volontà, scelte precise e anche destinazioni adeguate di fondi e risorse, nella consapevolezza però che questi fondi e risorse, se ben utilizzati, ci eviteranno disastrose e ben più alte perdite economiche, dovute alla depauperazione dei servizi ecosistemici.
Per iniziare a tutelare davvero la biodiversità, attraverso una svolta nelle politiche internazionali e locali, dovrebbe essere sufficiente la motivazione che anche tutte le altre forme di vita animale e vegetale di questo pianeta hanno diritto a continuare ad esistere, o almeno la considerazione che lasciare ai nostri figli un mondo senza biodiversità significa lasciare un mondo privo di gran parte della sua bellezza. Ma se ancora questo non fosse sufficiente, forse ci potrà far cambiare idea il fatto che senza biodiversità a crollare saranno la stessa nostra economia e con essa i già traballanti equilibri sociali. Lo sapremo nei prossimi anni.
La politica, a tutti i suoi livelli ed in modo coordinato, deve oggi fare una scelta, e deve farlo tenendo ben chiaro che, se così non sarà, non avremo un altro decennio a disposizione per recuperare ciò che non avremo fatto da qui al 2030, perché molto di tutto questo non sarà più recuperabile e saremo destinati a vivere sempre più poveri in un mondo sempre più povero, più insalubre, più inospitale, orfano di quella bellezza che rende la vita degna di essere vissuta.
Abbiamo intervistato l’autore del romanzo entomologico “Memorie dal sottobosco”, da poco pubblicato da Exorma edizioni.
Ecologista e autore eccentrico, Tommaso Lisa ci racconta come è nato il suo libro e come stanno gli insetti da queste parti del pianeta. Chi volesse ascoltarne dei brani può partecipare il 9 Settembre al Festival Voci Lontane Voci Sorelle presso PIA, Palazzina Indiano Arte, in fondo al Parco delle Cascine alle 17:00.
Ecoló. Ciao Tommaso, grazie per la tua disponibilità a rispondere alle nostre domande.
Un insetto è il protagonista di “Memorie del sottobosco”. Spesso considerati disgustosi o fastidiosi, perché gli insetti sono interessanti per te?
Tommaso Lisa. Lo sono fin dalla mia infanzia. Specialmente le chitine dei Coleotteri e i tegumenti dei Lepidotteri. Ho iniziato collezionando le specie più appariscenti per forma e per colore e l’interesse si è poi evoluto col tempo, specializzandomi nella famiglia dei Cicindelidi, i feroci “insetti tigre”. Tutto è iniziato con la mostra “Tre quarti di terrore” tenutasi al Forte di Belvedere penso nel 1981, una di quelle esposizioni divulgative e anche sensazionalistiche, con ragni e scorpioni a far da contorno, oltre a farfalle tropicali, che ovviamente colpirono la fantasia di un bambino. Sono uscito da lì, era primavera, e col cappello provai a prendere la prima cavolaia, la comune Pieris napi. Vi riuscii e mio padre, che già aveva una certa propensione alla raccolta e all’interesse per le forme della natura, mi aiutò, regalandomi teche, stenditoi, libri. Però non ne ho fatto il mio oggetto di studio universitario e non è diventata una professione. Ciò ha contribuito a lasciare intatta ancora oggi la passione giovanile. Una volta esaurito il piacere tassonomico e collezionistico avrei voluto approfondire quello ecologico e sistemico, ma a fine anni Novanta non si era ancora sviluppato l’interesse per questi aspetti. Per molto tempo ho anche allevato insetti e farfalle. Ma pur di non finire in un laboratorio a fare analisi specifiche sulla lotta integrata a fini agronomici, ho preferito mantenere una visione d’insieme, da dilettante, senza piegarla all’utile. I miei studi sono stati quindi umanistici, filosofici, prevalentemente di estetica in relazione alla poesia contemporanea, al simbolismo degli oggetti. Così dopo anni di latenza, in cui l’interesse per la collezione si era affievolito, sono tornato a studiare gli insetti indagando gli scrittori che si sono occupati di loro. Da Fabre a Nabokov, da Ernst Junger al nostro Guido Gozzano, passando per le poesie sulle farfalle di Hermann Hesse. Si è aperto un nuovo mondo, una ricerca con un orizzonte molto vasto ma al contempo coordinate assai precise. Considerare gli insetti come fastidiosi e disgustosi è l’emblema del rimosso e del senso di colpa di certa cultura, spesso formata su moralismi cattolici, che colpevolizzano il diverso ed escludono la varietà in nome di un fine cui uniformarsi. Ogni forma di vita, anche la più fastidiosa e apparentemente inutile, si è evoluta in maniera complessa e relazionale in base a ciò che il sistema gli ha consentito ed ogni forma naturale è necessaria all’equilibrio tra le varie parti.
Ecoló. Che cosa ci vuole raccontare il coleottero protagonista del tuo romanzo?
TL. Ci racconta la molteplicità dei punti di vista, dei piani di percezione e delle dimensioni possibili. Il Diaperis boleti, il Coleottero della famiglia dei Tenebrionidi di cui parlo nel libro, è una alterità irriducibile, una sorta di monade leibniziana. Ma che si muove in un mondo spinoziano: Deus sive natura. Non è possibile “essere” quell’insetto, come non è possibile essere altro da noi, dal nodo di relazioni linguistiche e sensoriali che struttura ciò che chiamiamo io. Quindi il coleottero racconta, in maniera mediata, lo svolgimento di queste relazioni tra me e lui, la trama di ricordi, di percezioni, di segni e di legami che tra me e quella forma si è creato nel corso del tempo. Il coleottero mi racconta di quando lo ho visto per la prima volta nel legno di un tronco, tra i funghi polipori di cui si nutre, dell’odore e del colore suoi specifici, che mi hanno segnato nel ricordo.
Ecoló. Quanto c’è di te ragazzo nel co-protagonista del romanzo?
TL. Il libro più che un romanzo è un memoir, un racconto diaristico, in prima persona, di un “piccolo fatto vero”, qualcosa di realmente accaduto, al quale si sommano nel montaggio diversi tasselli saggistici, alcune divagazioni entomologiche. Il co-protagonista quindi sono io, con un bovarismo esagerato, in ogni dettaglio: ciò che racconto è, per quanto la finzione della scrittura lo consenta, accaduto realmente.
Ecoló. Di lavoro sei assicuratore, ti occupi di insetti, hai un dottorato in letteratura… Ci racconti come sei arrivato fin qui?
TL. Ho anche praticato la disciplina agonistica dei quattrocento e degli ottocento metri per oltre venti anni, ad un discreto livello, ma sono anche un grande appassionato di ingegneria ferroviaria, in particolare di storia del trasporto su rotaia nel secolo scorso. Sono anche un padre, a mia volta, e cerco di seguire ogni passione che anima mio figlio di dieci anni. Adesso per esempio lo sto aiutando a realizzare dei fumetti. Ma abbiamo costruito modelli di navi, di aerei. Potrei interessarmi a qualsiasi cosa, purché ne abbia il tempo e ci sia la facoltà di tessere un discorso tecnico, una ricerca che metta in relazione le parti. Tutto è collegato nella vita e la mia insofferenza è proprio verso una certa settorializzazione professionale. Il lavoro di assicuratore, quando perde di vista il principio mutualistico che sta alla base ed è finalizzato esclusivamente alla massimizzazione degli utili, alla difesa della proprietà privata, può essere un vero strazio. Non sono arrivato da nessuna parte perché, più passa il tempo, più vedo che l’idea che vi sia una fine, un obiettivo verso cui tendere, è una illusione fittizia, fallace.
Ecoló. Gli ecologisti e gli scienziati sono in qualche modo riusciti a far passare il messaggio che siamo all’inizio di una terribile crisi climatica, quello di cui si parla molto meno invece è la riduzione della biodiversità che in molti ritengono un problema altrettanto e forse più importante, sei d’accordo?
TL. Il mondo è in “crisi” ogni volta che ci fermiamo a meditare su cosa sta accadendo: è il pensiero stesso che genera la crisi. Vi sono dei processi in atto. Non si tratta di essere d’accordo o meno. Siamo all’inizio di un cambiamento climatico, è un dato di fatto, come non c’è dubbio che l’attività umana di predazione, sfruttamento e stravolgimento degli ambienti naturali stia portando alla distruzione di ecosistemi, all’estinzione molte specie, riducendo la biodiversità. In merito al clima, i cambiamenti sono indotti o accelerati dall’attività umana. In passato vi sono stati anche cambiamenti più grandi di quello in corso, stravolgimenti epocali comunque riequilibratisi nel corso dei secoli o millenni. Non del tutto correlato al clima è il tema del drenaggio capitalistico delle risorse naturali. L’economia capitalista, concentrando il problema sul clima e la riduzione di emissioni di anidride carbonica, trasforma alcuni processi senza mettere in discussione la struttura della macchina produttiva. Le energie rinnovabili sono l’unica soluzione possibile, in particolare l’energia solare, ma non rappresentano un vero cambio di paradigma, se mettere a rendita e creare plusvalenza con uno sviluppo illimitato resta l’obiettivo. Anche se ideassimo un modo per sfruttare senza alcun dispendio l’energia solare resterebbe comunque insostenibile l’accelerazione del processo produttivo. Finché la specie umana non esce dall’idea di uno sviluppo illimitato non ci sarà possibilità di salvaguardare specie e ecosistemi nella loro alterità ontologica, prelinguistica. Mal tollero l’idea che certi esseri viventi meritino di essere tutelati solo se messi a rendita in un discorso economico. Credo vi sia un valore che va oltre il mero calcolo del rapporto costi-benefici. Un valore, “altro”, letteralmente non addomesticabile. La riduzione della biodiversità non è di per sé un problema: forse potremmo come specie umana sopravvivere anche in un mondo progettato come un rendering, asettico, con solo un numero ristretto di specie utili alle esigenze pratiche. La domanda dovrebbe essere forse riformulata chiedendoci quanto perderemmo della nostra identità, della nostra complessità di pensiero e di cultura privandoci della possibilità di relazionarci con la varietà di forme viventi non soggiogate all’utile economico.
Ecoló. Non sei un topo da biblioteca. Percorri i nostri giardini e i nostri boschi a passo lento o di corsa. Qual è la situazione della nostra regione e della nostra Firenze? Come sta la nostra popolazione degli insetti?
TL. Bisogna domandarci come sta la popolazione di determinate specie di insetti. Da una parte le statistiche registrano una diminuzione globale della biomassa entomologica, ma personalmente non ho strumenti per contare il numero di moscerini o di mosche… Alcune specie molto resistenti e invasive, che riescono ad adattarsi facilmente, proprio grazie all’intervento antropico, hanno trovato terreno fertile per riprodursi: non c’è dubbio che blatte, mosche e zanzare prolifereranno in un futuro distopico. La situazione è tragica invece per tutte quelle specie più fragili e legate ad ecosistemi circoscritti che vengono quotidianamente distrutti in nome del progresso e della sicurezza. La bonifica programmata di zone umide, lo smaltimento di ceppaie marcescenti, l’eradicazione di boschi spontanei, dei terreni incolti, oltre alla fine della coltivazione manuale di piccoli orti, assieme alla frammentazione del suolo dovuta alla cementificazione, al diffondersi uniforme dello “sprawl”, rischia di eliminare definitivamente molte specie. Ciò che mi fa molto soffrire è la voluta, programmatica eliminazione operata con mezzi industriali e meccanizzati – da parte di chi adesso gestisce il territorio – di tutto ciò che è spontaneo, l’idea di “gestire” il verde come se fosse una piantagione, una aiuola. Soffro molto l’assenza di campagna, l’eradicazione di ciò che non è prettamente “urbano” dalla vita quotidiana. L’esistenza si fa asettica e anche vedere un macaone o un’ape diventa, in certi luoghi della città, letteralmente impossibile.
Ecoló. Cosa pensi che dovrebbero fare le istituzioni per riportare il nostro ecosistema locale in equilibrio? Quali sono le scelte che invece andrebbero assolutamente evitate?
TL. Credo che le istituzioni non dovrebbero fare niente per riportare il nostro ecosistema in equilibrio. Fare il meno possibile, dando agli ecosistemi la possibilità di riequilibrarsi omeostaticamente, coi tempi che la natura richiede, che non sono quelli dell’economia. Ogni volta che una istituzione umana vuole assurgere a giudice di ciò che è giusto o sbagliato compie una violenza, aggiungendo danno al danno. Che si lasci la natura fare il suo corso. Ogni interferenza, ogni correttivo apportato a livello industrializzato, meccanizzato, scientificamente mirato – ossia istituzionalizzato appunto – credo che sia da rigettare. Piantare alberi di vivaio come se fossero coltivazioni intensive non risolverà certo il problema climatico. In una società utopistica, tante aree edificate dovrebbero essere demolite e riportate a verde incolto – la friche di cui parla Gilles Clement – e a ciascun cittadino dovrebbe essere assegnato un lotto di terra da curare manualmente, in modo tradizionale, così da avere una autosufficienza energetica e alimentare. Ma purtroppo in passato anche tali “ritorni alla terra” non hanno dato buoni frutti. Il ritorno alla terra è un tema purtroppo appannaggio della cultura reazionaria, se non di destra; andrebbe aggiornato nel senso di jus soli e del fatto che la terra dovrebbe essere di chi se ne prende cura in senso ecologico, perché la natura è un bene comune. Mi augurerei almeno un impegno immediato a non consumare più un centimetro quadro di terreno incolto, a riportare a verde tutti i terreni urbani dismessi (demolendo vecchie fabbriche, caserme, edifici fatiscenti) e mettere subito al bando tutti i pesticidi, gli erbicidi e i fertilizzanti chimici sul territorio.
Ecoló. Cosa pensi della politica ecologista in Italia? Cosa manca? Cosa sarebbe utile ci fosse?
TL. Gli ecologisti in passato si sono chiusi su posizioni strettamente conservative, rescindendo – anche giustamente – i legami con la logica dell’utile, e perdendo quindi consenso. I nuovi ecologisti pensano invece di risolvere i problemi piantando parchi eolici, foreste industrializzate, tornando magari al nucleare. Per sua costituzione la politica deve mediare e cercare consenso e finché la mediazione e il consenso vengono indirizzati da logiche di sfruttamento illimitato delle risorse e del territorio ci sono poche prospettive. Manca una cultura scientifica. In questo paese gli insetti vengono appunto considerati dalla maggior parte delle persone come disgustosi o fastidiosi. Sarebbe utile ci fosse più consapevolezza di sé e degli altri esseri viventi, della complessità della natura. In definitiva credo sia utile ci sia più cultura, una scuola che insegni meglio la complessità della vita, che insegni la meditazione e lo sviluppo del pensiero, il confronto e l’approfondimento, l’apertura al diverso. Finché invece l’obiettivo resta quello di accelerare il consumo e velocizzare lo sfruttamento delle risorse non prevedo niente di buono.
Ecoló. Cosa ti aspetta ora? Progetti un altro romanzo? Continuerai a studiare gli insetti? O esplorerai altre direzioni di ricerca?
TL. Continuo a scrivere, rendicontando narrativamente i risultati delle mie ricerche entomologiche. Ciò potrebbe dare vita a diversi altri progetti editoriali, che prenderanno forma solo se vi sarà un pubblico di lettori interessato ai temi che tratto. La mia ricerca continua, infinitamente, anche come “contemplatore solitario”.
Ecoló. Grazie e a presto!
La politica agricola comune europea, la PAC, è stata per molto tempo la politica cardine del bilancio europeo. Alla fine degli anni ’70 la PAC assorbiva oltre il 75% della spesa complessiva dell’allora Comunità Economica Europea. Anche se la gran parte dei cittadini dell’Unione non lo sa, ancora oggi i sussidi al settore agricolo rappresentano oltre un terzo del budget europeo.
La PAC è spesso usata ad esempio di come l’intervento pubblico possa essere distruttivo. Partendo da obiettivi sacrosanti: garantire cibo a sufficienza per tutti gli europei, un reddito dignitoso agli agricoltori e prevenire eccessive fluttuazioni di prezzi sui mercati dei beni agricoli, la PAC si è distinta per meccanismi di funzionamento estremamente dannosi per l’ecosistema.
Alle origini, negli anni ’60 e ’70, i trasferimenti erano erogati attraverso un meccanismo che teneva i prezzi dei prodotti agricoli artificialmente elevati. Un’agenzia acquistava a un prezzo minimo quantità illimitata di beni garantendo ai produttori prezzi superiori a quelli di mercato. L’effetto di questo meccanismo fu una corsa al sovra-sfruttamento delle risorse ed enormi quantità di prodotti agricoli invenduti finiti in discarica. Fra i danni procurati dalla PAC si annoverano l’epidemia da “mucca pazza” e la distruzione di interi ecosistemi per lasciar posto a coltivazioni intensive. Inoltre i profitti aumentarono, ma l’incremento fu proporzionale alle quantità prodotte. Ai piccoli produttori andarono le briciole, il grosso dei profitti venne spartito fra multinazionali e mega imprese del settore.
I meccanismi di finanziamento della PAC sono stati profondamente criticati e in seguito modificati. A partire dai primi anni 2000 il grosso passo avanti è consistito nello svincolare i sussidi dalle quantità prodotte. Riducendo l’incentivo alla sovrapproduzione e ripartendo in modo più equo i trasferimenti fra gli operatori del settore.
Nel 2018, a 15 anni di distanza da quelle riforme, la Commissione Junker ha sentito il dovere di aggiornare il quadro normativo della PAC proponendo alcune modifiche che tengono tiepidamente conto dei cambiamenti nei mercati agricoli e dell’emergente crisi climatica.
Come spiega Elisa Meloni di Volt Italia, oggi, anche se sono passati solo due anni, quella proposta non può che essere considerata datata. “[Dalla proposta Junker] molte cose sono cambiate: si è insediata una nuova Commissione presieduta da Ursula Von Der Leyen, che ha adottato il Green Deal Europeo e, al suo interno, le strategie per la Biodiversità e Dalla fattoria alla tavola (“from farm to fork”), che ad esempio prevedono entro il 2030 una drastica riduzione degli agenti chimici in agricoltura […], almeno il 25% della superficie agricola destinata all’agricoltura biologica e almeno il 10 % ad elementi caratteristici del paesaggio con elevata diversità. In questo contesto, la proposta di riforma della PAC si è rivelata ancora più obsoleta e inadeguata rispetto al livello di ambizione ambientale e climatica professato per il continente, tant’è che lo scorso maggio la Commissione si è affrettata a pubblicare un documento in cui spiegava come rendere la PAC compatibile col Green Deal.”
In questi giorni la proposta della Commissione ha affrontato i passaggi nel Consiglio e nel Parlamento europeo. Ci si attendeva che il testo fosse emendato trasformando i sussidi a pioggia in sussidi condizionati a standard di sostenibilità, escludendo dai trasferimenti le attività dal forte impatto ambientale. Invece il Consiglio europeo e il Parlamento hanno approvato una proposta legislativa addirittura peggiorativa rispetto a quella della Commissione Junker.
Questo atteggiamento fortemente conservatore ha sollevato reazioni da più parti: “Senza cambiare agricoltura non si combatte il collasso climatico” ha dichiarato Annalisa Corrado co-portavoce di Green Italia. “Non si può annunciare un fantasmagorico e strabiliante Green New Deal senza cambiare profondamente lo strumento principe che indirizza i comportamenti e gli investimenti nel settore. Perché il cibo buono e sano per la salute e per i territori arrivi sulle tavole di tutti, è necessario chiudere le porte ad agricoltura ed allevamenti intensivi e cibi ultraprocessati.”
La transizione verso una PAC sostenibile non è d’altra parte urgente solo per garantirci cibo di migliore qualità e minor impatto. Come ha fatto notare Mauro Romanelli di Ecolobby: “La PAC approvata recentemente al Parlamento europeo, ha perduto l’occasione per incrementare il sostegno a quelle forme di agricoltura e allevamento, meno competitivi nell’immediato, ma preziosissimi per la preservazione di varietà più rare, e quindi della biodiversità.
Il tracollo della ricchezza genetica è uno degli effetti meno evidenti e meno immediati per il grande pubblico dell’agricoltura e dell’allevamento intensivi, ma è anche uno dei più drammatici.
Anche su questo il lavoro per mettere una pezza alle brutte scelte che sono state prese dovrà essere duro e intransigente.”
Per questi motivi la senatrice Rossella Muroni si è rivolta con una lettera aperta alla ministra Bellanova, che con i suoi omologhi ha approvato nel Consiglio europeo dei ministri dell’agricoltura un testo peggiorativo della proposta iniziale di riforma: “lo dico sinceramente: grazie di niente! La nuova politica agricola comunitaria delude e preoccupa perché somiglia sempre meno a quella che aveva disegnato la Commissione europea e sposta il baricentro a vantaggio di un modello agricolo intensivo e ad alto impatto ambientale.”
Secondo Alberto Bencistà, presidente di FirenzeBio, la partita non è persa irrimediabilmente “abbiamo un’ultima occasione perché l’approvazione definitiva dipenderà dall’intesa che sarà raggiunta in sede di “trilogo “ ( Commissione, Parlamento, Consiglio ) che si riunirà nelle prossime settimane e che dovrà sentire la pressione delle cittadine e dei cittadini europei affinché sia ritirato il testo approvato dal Parlamento in quanto in aperto conflitto con il New Green Deal : una contraddizione che L’Europa non può permettersi.“
Ecoló si unisce al fronte di chi chiede una PAC diversa. Cosa possiamo fare per far sentire la nostra voce?
In questi giorni è stata pubblicata una lettera, di cui sono primi firmatari Bas Eickhout, vicepresidente della commissione ambiente del Parlamento europeo, e Ska Keller co-portavoce dei Verdi Europei, indirizzata alla presidente della Commissione Von der Leyen che la invita a ritirare la proposta di riforma. “È venuto il momento di ritirare la proposta di riforma della PAC della commissione, debole e datata, e di presentarne una nuova, in linea con il Green Deal europeo”.
Attraverso il portale www.greens-efa.eu/dossier/ritiri-questa-cap/ è possibile scrivere alla Von der Leyen aderendo all’appello lanciato dai Verdi Europei.