Ecolo’ è fra le venti associazioni, movimenti, soggetti economici, interrogano la politica e chiedono una vera svolta rinnovabile per l’Italia
Venti grandi associazioni nazionali coordinate da Cittadini per l’Italia Rinnovabile chiedono alla politica garanzie e impegni precisi, per una svolta rinnovabile necessaria, senza più tentennamenti.
E lo faranno in una maratona on line, in diretta su facebook, dalle ore 16 alle ore 22, domenica 18 settembre 2022, che sarà trasmessa sui canali fb di vari associazioni promotrici, tra cui Ecofuturo, Ecolobby e, appunto, Cittadini per l’Italia Rinnovabile.
Il parterre dei promotori è davvero ricco.
Ci sono associazioni ecologiste storiche (e più recenti) come Legambiente, Wwf, Kyoto Club, Ecofuturo, Ecolobby, Ecolo’, Rinascimento Green, Cetri-Tires.
Ci sono le sezioni italiane dei nuovi movimenti mondiali contro il climate change come Fridays for Future ed Extinction Rebellion.
Ci sono associazioni legate all’imprenditoria rinnovabile e dell’efficienza energetica, come Coordinamento free, Italia Solare, Giga, i produttori di pompe di calore (Arse), e di biometano (Cib).
C’è la stampa di settore come Greenreport e QualEnergia.
C’è una grande associazione sociale storica come l’Arci nazionale, che ha da tempo sposato una riflessione molto forte sul tema energetico, e l’Isde, Associazione Nazionale Medici per l’Ambiente.
“Chiediamo a tutte le liste presenti alle elezioni e a tutte e tutti i candidati di rispondere in merito alla nostra agenda politica, con un breve video o un post, e di rendersi disponibili ad intervenire in diretta al nostro evento on line del 18 Settembre ” – dichiarano i promotori dell’iniziativa.
Alcuni interventi alla maratona on line già assicurati sono quelli di Gianni Silvestrini, Francesco Ferrante, Annalisa Corrado, Fabio Roggiolani, Katiuscia Eroe, Maria Grazia Midulla, Agnese Casadei, Luca Sardo, Giovanni Mori, Sergio Ferraris, Michele Dotti, Daniela Passeri, Elena Pagliai, Gaia Pedrolli, Mauro Romanelli, Ricccardo Bani, Giovanni Graziani, Averaldo Farri, Stephanie Brancaforte … “ma ce ne saranno diversi altri”, si assicura.
I candidati che per adesso hanno garantito la propria partecipazione sono per il Pd Chiara Braga, per il csx Rossella Muroni, per il M5s Livio de Santoli, Patty l’Abate e Tony Trevisi, per Più Europa Simona Viola, per Noi Moderati Sergio Santoro, per Sin Ita/Verdi/Possibile Angelo Bonelli, per Unione Popolare Francesca Conti e Maurizio Acerbo.
La piattaforma politica è molto chiara, concisa e senza ambiguità, e si legge in un fiato: sbloccare i Gw fermi causa burocrazia, riscrivere il piano nazionale energia e clima e il capacity market, puntare senza indugi su comunità energetiche, mobilità elettrica, agrivoltaico e biometano, migliorare il superbonus ed estenderlo al’edilizia pubblica.
Le domande sono sul piatto, ora vediamo le risposte.
E’ giusto che le istituzioni si interessino di cosa mangiamo? Come scegliamo da un menù cosa mangiare e che conseguenze ha questo sul nostro pianeta? Abbiamo Intervistato Daniele Pollicino, Messinese trapiantato a Londra, dottorando di Psicologia e Scienze Comportamentali alla London School of Economics.
Ecoló: Ciao Daniele e grazie per il tempo che ci dedichi per questa intervista. Per prima cosa ci racconti chi sei?
Mi chiamo Daniele Pollicino, ho 28 anni ed al momento ricopro una posizione come dottorando di ricerca presso la London School of Economics and Political Science (LSE). Mi ritengo un ragazzo semplice, cresciuto in Sicilia e da sempre affascinato dal funzionamento della mente umana (che non smetterà mai di sorprendermi e stupirmi).
Dopo circa una decade di frequenti spostamenti per motivi di studio, oggi vivo a Londra e faccio parte del Dipartimento di Psicologia e Behavioural Science (Scienze Comportamentali) della LSE, dove studio meccanismi e dinamiche di comportamento umano legati al mondo della sostenibilità alimentare. Sono profondamente grato ad i miei due supervisori (Ganga Shreedhar e Matteo Galizzi) per aver creduto nella validità del mio progetto di ricerca ed avermi dato la possibilità di unirmi a questo incredibile Dipartimento.
Ecoló: Ci racconti il percorso che ti ha portato a Londra?
Londra è sempre stata nei miei pensieri. Sono siciliano, di Messina, ma ho vissuto e studiato per tanti anni fuori. Dalla prima esperienza negli U.S.A. a diciassette anni dove ho frequentato il quarto anno di liceo, agli anni di università in Trentino, per poi trasferirmi prima a Maastricht in Olanda e poi ad Oxford in UK. Un lungo percorso universitario che mi ha permesso di realizzare un sogno: vivere e fare ricerca a Londra.
Dopo essermi laureato e specializzato nel campo delle Neuroscienze, ho deciso di intraprendere un percorso leggermente diverso ma che mi permettesse di rispondere a domande di ricerca che ritengo fondamentali in questo particolare momento storico della nostra società. Per me oggi è un sogno poter studiare e lavorare sul tema che più mi sta a cuore. Londra è una città dove ero sicuro avrei trovato ciò che cercavo e che potrei riassumere come un intreccio di interessi e passioni che includono la ricerca scientifica, l’attivismo climatico e la musica.
Ecoló: Puoi spiegarci in modo comprensibile di cosa si occupano le tue ricerche?
Il mio progetto di ricerca riguarda i comportamenti alimentari. Individuali e collettivi, a partire da chi va a fare la spesa a chi va a cena al ristorante. Ciò che studio mi permette di esplorare i fattori che motivano le varie scelte alimentari e le barriere che le ostacolano, per poter capire come intervenire e potenzialmente influenzarle. Nel campo della sostenibilità alimentare questo si traduce ad esempio nel promuovere una riduzione del consumo di prodotti a base animale e promuovere l’adozione di abitudini di tipo “plant-based”, ossia derivante da un utilizzo di risorse a base di piante. Una dieta quindi prevalentemente vegetariana.
Se vogliamo essere più specifici, sono personalmente interessato allo studio delle norme sociali riguardo ciò che mangiamo. Le norme sociali possono essere descritte come un insieme di regole o standard di comportamento informali e non scritti. Molto spesso aderiamo a questo tipo di norme senza rendercene conto. Possono riferirsi a ciò che la maggior parte delle persone in un gruppo pensa o fa. Questo esercita una forte influenza sul nostro comportamento, perché seguire (o non seguire) le norme è associato a giudizi sociali. Ecco un esempio. Quando parliamo di cibo, ciò si traduce spesso nell’associazione di una dieta vegetariana ad una ridotta mascolinità della persona. Un’associazione che a livello percettivo costituisce una forte barriera all’adozione del tipo di alimentazione vegetariana. Cambiare queste narrative sociali è oggi fondamentale per muoversi verso una società che deve urgentemente prendere una posizione forte e consapevole contro i cambiamenti climatici.
Ecoló: Spesso l’opinione pubblica ironizza su chi pone l’accento sull’insostenibilità di come mangiamo. Come se non fosse un elemento centrale della transizione. Quando introduci le tue ricerche quali evidenze risultano convincenti nello spiegare che si tratta invece di un aspetto fondamentale?
Assolutamente vero, si parla ancora poco di cibo e della transizione che l’industria alimentare dovrà affrontare. Sinceramente, comprendo l’ironia. Il cibo è un argomento davvero complicato. Ciascuno di noi ha con esso una relazione molto intima e personale ed è per questo che è davvero difficile cambiare le abitudini alimentari. Tuttavia, è una conversione che dobbiamo iniziare a compiere. Quando mi presento e spiego cosa faccio cerco sempre di affrontare l’argomento a piccole dosi.
Non essendoci grande divulgazione di informazione al riguardo, la maggior parte di noi ignora i lati distruttivi della moderna industria del cibo e di come le lunghe filiere che ci fanno arrivare il cibo in tavola stiano compromettendo il futuro del nostro pianeta su diversi livelli. Tanto si parla di transizione energetica e di macchine elettriche, ma in tanti non sanno che il sistema alimentare mondiale è responsabile della produzione di circa un terzo delle emissioni climalteranti (CO2 equivalenti), che sono oggi la principale causa del riscaldamento globale. Un sistema molto complesso sì, ma nel quale alcuni semplici cambi di abitudine alimentare possono già avere grande impatto.
Ad esempio, sostituire prodotti a base animale con prodotti a base di piante potrebbe ridurre le emissioni derivanti dalla produzione alimentare del 55% pro capite rispetto ai modelli alimentari previsti per il 2050. Il consenso scientifico al riguardo è ormai indiscutibile: abbandonare la carne e i latticini è il modo più efficace per rigenerare i nostri ecosistemi e prevenirne la distruzione. Per non parlare del profilo più sociale della questione, ad esempio soltanto in Italia l’industria si sporca le mani del sudore e sangue di manodopera/lavoratori a basso costo (principalmente immigrati). Caso più noto quello del sistema del caporalato e della produzione di pomodori.
Ecoló: Nella tua ricerca ti sei occupato di nudging (spesso tradotto in italiano con “spingere dolcemente”), strumenti che le istituzioni possono utilizzare per modificare la percezione delle persone che compiono scelte e che alla fine li inducono a comportarsi in un modo piuttosto che in un altro. Qualcuno potrebbe vedere in questi strumenti una forma di manipolazione. In che misura pensi che sia legittimo per lo stato usare questi strumenti?
Devo dire non ero al corrente di questa traduzione “spingere dolcemente”, la trovo interessante e probabilmente rende abbastanza bene l’idea. Nudging significa orientare scelte di comportamento e azioni di individui e gruppi di persone verso direzioni desiderabili. Sottolineando che questo non comporta la perdita di libertà di scelta di queste persone! L’opzione A e l’opzione B sono entrambe presenti nel panorama di scelta, tu hai ancora tutte le capacità e risorse per scegliere quella che preferisci. Quello che succede è che “io” cercherò di indirizzarti verso una delle due. Nel caso della sostenibilità alimentare, sarà quella che a livello scientifico risulta essere meno nociva e più benefica nei confronti del pianeta, la nostra salute e del mondo animale.
Chi oggi contesta il nudging come una forma di manipolazione poco etica lo fa anche perché rimane comunque viva la domanda etica e filosofica, “chi sei tu per decidere cosa è desiderabile?”. Una posizione comprensibile che porta a conversazioni interessanti. Negli ultimi mesi ho tanto sentito parlare di come rendere strategie di nudging sempre più trasparenti e sincere, cercando di rendere le persone il più coinvolte possibile nei processi di formulazione ed implementazione di queste strategie.
Dalla mia mi sento di difendere questa pratica in quanto, in particolar modo nel mio caso, essa deriva da lunghi processi di studio su come rendere il nostro futuro meno incerto e più equo nei confronti di chi già oggi subisce le conseguenze di scelte da noi, più o meno inconsapevolmente, fatte. Sfido chi ritiene “le mie dolci spinte” poco legittimate a riflettere sulla quantità di strumenti di promozione e marketing delle quali ogni giorno siamo vittima. In un mondo dove si stima l’americano medio veda circa 5000 messaggi commerciali al giorno, cosa che induce poi a ritenere il consumo e lo spendere come unica fonte di appagamento e soddisfazione personale.
Ecoló: Vuoi farci un esempio di utilizzo virtuoso di questi strumenti per il quale è possibile quantificare la riduzione di emissioni ottenuta?
Per riprendere ciò che dicevo prima, si stima che nel Regno Unito il passaggio da una dieta ad alto contenuto di carne (>100g al giorno) a una dieta interamente vegetariana ridurrebbe le emissioni climalteranti del consumo di una persona del 47%. Se parliamo di singoli cambi comportamentali nella nostra vita quotidiana, questa è una percentuale altissima!
Nell’ambito delle politiche alimentari, utilizzare “default verdi” sembra essere un intervento efficace per ridurre il consumo di carne; si tratta di presentare scelte vegetariane come impostazione predefinita. Nel caso di una cena al ristorante, il menù principale conterrà solo opzioni vegetariane, ma sottolineando la possibilità di indicare la propria preferenza non vegetariana e scegliere altro. Molte scelte alimentari tendono ad essere fatte in modo rapido e intuitivo, e la maggior parte di noi preferisce così non deviare dalla scelta predefinita, per motivi di pigrizia o magari perché deduciamo tutti siano d’accordo con essa. È stato dimostrato che questo tipo di strategie incoraggiano un consumo più sostenibili. In studi provenienti da tre conferenze nel 2019, l’uso di default ha permesso a un gruppo di ricercatori in Danimarca di aumentare la percentuale di scelta del menù vegetariano dal 2% al 87%. Non tutti gli studi hanno risorse sufficienti per poi quantificare oggettivamente la riduzione di emissioni ottenute, spesso ci si limita a calcolare la differenza nel numero di vendite/ordini e stimare i benefici.
Ecoló: La nostra impressione è che il Regno Unito sia più avanti dell’Italia nella transizione, sei d’accordo, qual è il primo e più urgente intervento che importeresti nella penisola dalla Gran Bretagna?
Chi mi conosce sa bene che non sono un italiano estremamente patriottico, ma in questo caso devo esserlo. Se ci spingiamo a dire che il Regno Unito è più avanti nella transizione alimentare, io mi spingo a dire che l’Italia è così indietro che si trova in realtà avanti. Mi spiego. Il consumo alimentare in Italia segue pratiche che per nostra fortuna sono già più sostenibili di natura. La dieta Mediterranea è un piccolo gioiello del quale dovremmo gioire e riconoscerne il privilegio di poterne usufruire, mentre la dieta media UK segue consumi diversi che portano ad esempio ad avere prodotti a base di carne in quasi tutti i pasti. Sono forse più avanti, ma anche perché hanno più strada da fare.
Ciò detto, preferirei non essere frainteso. Anche noi in Italia dovremo cambiare i nostri consumi. In effetti mi sembra personalmente più facile influenzare futuri consumi alimentari in UK piuttosto che in Italia, forse perché la nostra tradizione e il nostro patrimonio culturale di cibo è qualcosa di davvero fortemente radicato nella nostra storia e società. Al momento vedo il concetto del plant-based, di una riduzione del consumo di carne, dell’adozione di diete vegetariane/vegane essere più in voga in UK. Ma anche per questo tipo di sfide ritengo interessante il lavoro che faccio questi giorni.
Ecoló: Sei d’accordo che politiche di “spinta dolce” potrebbero non bastare? Pensi, come noi, che serviranno a breve anche spinte decise (e pedate nel sedere!)?
Questo è un punto molto interessante. Questo tipo di politiche hanno conosciuto grande fortuna e popolarità negli ultimi anni, ma non sempre grande successo. Questo perché si sta capendo sono molto più dipendenti dal contesto dove vengono implementate di quanto si credesse. Di base, la stessa misura politica di “spinta dolce” applicata in Italia o in Regno Unito può portare ad esiti ben diversi.
Ultimamente si parla spesso in ambito accademico di come queste possano/debbano essere implementate da misure più “decise”, come dite voi. Queste possono essere tasse, divieti e regolamentazioni più severe che lasciano meno possibilità di scelta al cittadino. Tanti studi stanno dimostrando come l’uso combinato e integrato di spinte “dolci” e “decise” possa spesso portare risultati più desiderabili ed anche più efficaci/rapidi, che nel caso di misure rivolte a contrastare il cambiamento climatico servono nel modo più rapido possibile!
Ecoló: Sulla tua pagina istituzionale ti definisci “attivista per il clima”. È nato prima l’attivismo o la ricerca sulla sostenibilità delle nostre diete?
Assolutamente prima l’attivismo. Continuo a sperare che quel lato prevalga sempre su quello di ricerca (cosa non forse troppo conveniente per il mio futuro accademico). Devo ringraziare le persone incontrate ad Oxford e le tante discussioni che ho avuto modo di avere durante quel periodo di studio. Sono stato profondamente colpito dalla devozione di alcuni di loro alle cause per le quali combattevano, utilizzando gran parte del proprio tempo tra studi e vita privata. Mi hanno spinto a pensare che anche io potevo fare di più. Che dovevo fare di più facendo io parte di quella parte privilegiata della società che può permettersi di fare cambi di vita senza in fin dei conti troppi sforzi. Molti di noi, abitanti del ricco mondo occidentale, facciamo parte di questo gruppo, per quanto lo si voglia credere o no è così.
La ricerca sulla sostenibilità delle nostre diete è poi stata in gran parte ispirata dagli studi di mio fratello Dario, il quale faceva già parte di questo campo di studio, anche se più dal punto di vista della lotta verso una produzione agricola più solidale e che rispetti maggiormente sia il territorio che i suoi lavoratori.
Ecoló: C’è chi sostiene che la scienza debba studiare il mondo nel modo più oggettivo possibile. Talvolta i ricercatori sono accusati di approcciare i loro studi con una lente ideologica. Pensi che sia una critica fondata nel tuo caso? O avere una forte motivazione politica è un elemento di forza per la tua attività professionale?
Di certo approcciare il metodo scientifico influenzati dalla soggettività personale non è ideale se si vuole nel tempo condurre ricerca rigorosa e che abbia metodologicamente senso. In fin dei conti, ci fidiamo dei risultati scientifici esattamente perché la sua evidenza dovrebbe essere inconfutabile. Se manca il rigore, andiamo a parlare di pseudoscienza.
Ciò nonostante, nel mio caso particolare credo che una contaminazione ideologica possa anche risultare benefica. Nell’ultimo anno, ho più volte ascoltato le parole di un collega di Cambridge (Kristian Nielsen) durante le sue presentazioni. Sostiene che gli psicologi possono migliorare il loro contributo alla mitigazione del declino ambientale se ci si concentra principalmente sull’impatto dei fenomeni studiati, e solo secondariamente sulla rilevanza della teoria nel definire le priorità di ricerca. Il nostro campo di studio è di certo particolare e la scienza (della quale ci fidiamo) ci dice appunto che non abbiamo troppo tempo per cambiare le cose. Dunque, se la mia motivazione politica può portarmi a lavorare su progetti che cercano di avere un impatto nella vita reale piuttosto che solo a livello accademico, credo ne sarò solo contento. Se poi si riesce ad ottenere entrambi i risultati, ben venga.
Ecoló: Con le elezioni che si avvicinano in Italia la nostra impressione è che gli ecologisti rischino ancora una volta di dover scegliere fra partiti ben organizzati ma totalmente sordi alle urgenze della crisi climatica e partitini che, pur avendo chiare le priorità, non sono all’altezza della sfida in termini di classe dirigente e organizzazione. Cosa è mancato al movimento politico ecologista italiano in questi anni? Cosa possiamo fare per non ritrovarci fra qualche anno ancora in queste condizioni?
Questa è una domanda alla quale vorrei rispondere con la maggior umiltà possibile. Nel senso, non vivo in Italia da ormai tanti anni. Il mio occhio è sempre rimasto vigile su quanto accade nel nostro Paese, ma non vorrei mancare di rispetto al nostro movimento politico ecologista senza una totale cognizione di causa.
Quello che posso permettermi di dire, è che vedo in Inghilterra una larga e diffusa presenza di gruppi “grassroots”, ossia di gente comune che cerca il cambiamento dal basso. Comunità locali che operano principalmente a livello di quartiere, per poi spesso unirsi al medesimo movimento cittadino e nazionale. Giorno dopo giorno diffondono il loro messaggio e riescono così pian piano ad arrivare alla popolazione generale. Trovo in primo luogo un interesse verso quelle che sono appunto le problematiche di quartiere. Pensare sì alle sfide a livello globale, ma agire anche molto a livello locale. Forse questa è una delle chiavi del loro successo.
Molte persone si uniscono perché vedono un obiettivo comune che a loro interessa perché impatta direttamente la loro vita privata! Non tutti possono unirsi al movimento perché animati da forte spirito empatico, rivolto a comunità lontane nello spazio e/o nel tempo, al mondo naturale e/o animale. A tal punto, la psicologia e le scienze comportamentali possono sicuramente aiutare a trovare risposte. In questo momento, membri del mio gruppo (Planet Lab) stanno conducendo ricerca per conto di Extinction Rebellion.
Anche qui, non voglio intendere in Italia questi gruppi non esistano. Anzi, quelli che conosco operano anche bene a mio parere. Ma evidentemente si potrebbe operare anche meglio. Non sarebbe male avere il sostegno delle istituzioni, le quali oggi sembrano invece più al servizio di poteri ed interessi privati capitalisti che di veri processi democratici e popolari.
Grazie ai social media sono in contatto con tanti altri attivisti italiani, soprattutto giovani. Per me quella è la speranza: vedere una nuova ondata di energia e coraggio che può davvero cambiare le cose, con grande resilienza, una testa alla volta.
Sto imparando molto in questi mesi e spero di poter rispondere meglio a questa domanda la prossima volta che parleremo.
Ecolo’: grazie mille del tuo tempo Daniele. A presto!
Simona Larghetti, imprenditrice e cicloattivista ci racconta la strada che dalla sella di una bici l’ha condotta nel consiglio comunale di Bologna.
Ecolo’: Ciao Simona, grazie per la tua disponibilità a rispondere alle nostre domande. Cominciamo da te? Sappiamo che sei nata a Urbino, come sei arrivata a Bologna?
Simona Larghetti: Dopo Urbino sono andata a Roma per fare i provini dell’Accademia Silvio D’Amico, volevo fare l’attrice teatrale. L’impatto da un piccolo paese alla metropoli è stato devastante, mi ha colpito soprattutto la violenza del traffico e l’enorme difficoltà a spostarsi, anche per piccole distanze. Alla fine mi hanno presa all’Accademia Paolo Grassi a Milano, lì ho iniziato ad andare in bici. A Bologna sono arrivata due anni dopo per puro caso, ero rimasta delusa dal mondo del teatro e volevo scappare.l teatro e non sapevo bene cosa fare.
Com’è successo che Bologna ti ha adottata?
Mi sono iscritta all’Università, a Lettere, un po’ perché mi piaceva un po’ perché non sapevo bene cosa fare. Ho incontrato una ragazza del mio paese che faceva parte di un’associazione studentesca che si occupava del recupero di biciclette usate e di campagne contro il furto. Io già andavo in bici, mi sembravano cose bellissime. Sono diventata prima volontaria poi ho iniziato anche a lavorarci, facendo ufficio stampa e organizzazione eventi. Quel lavoretto è diventato la mia vita, e mi appassionava molto di più dello studio, che pure mi piaceva. Mi piaceva la prospettiva anche politica di quello che facevo, sentirmi parte della città e non un’ospite, una parte attiva, che si prende cura e responsabilità di quello che accade nello spazio pubblico.
Vorremmo chiederti del tuo lavoro. Dopo Paolo Pinzuti sei la seconda imprenditrice della bicicletta che intervistiamo. Come succede che una studentessa di lettere diventa imprenditrice?
Ho fatto tanti lavori tra la laurea e l’inizio dell’attività in Velostazione, sempre come dipendente o collaboratrice. Soffrivo moltissimo la mancanza di confronto con chi stava sopra di me, l’obbligo di eseguire delle mansioni senza alcuna possibilità di dare il mio contributo. Mi sembrava un sistema demenziale. Sono figlia di un piccolo imprenditore agricolo, abituata a dare il massimo per qualcosa che ami e che curi. Quando mi sono confrontata con altre persone dell’associazione che nel frattempo avevo fondato, Salvaiciclisti Bologna, aprire una cooperativa è stato quasi naturale. Una dimensione di impresa dove ognuna è nelle condizioni di dare il meglio e di costruire assieme la visione.
L’esperienza delle velostazioni in Italia è lastricata di speranza, successi ma anche tante difficoltà (pensiamo ad esempio all’esperienza di Bari). Cosa manca perché esperienze come è stata la vostra possano diventare una realtà in tutte i piccoli e grandi centri italiani?
Siamo ancora in una fase sperimentale, nonostante l’enorme ritardo. L’uso della bicicletta sta uscendo faticosamente dalla dimensione di emarginazione a chi la usava perché non aveva alternative e per molte sta diventando una scelta di vita. Iniziare a ragionare di servizi su cui investire, sia da parte del pubblico che del privato, non è più utopia, ma ancora l’agenda politica non vede la priorità assoluta di questi interventi: occorre un modello riconosciuto e riconoscibile di Velostazione, perché la riconoscibilità è parte dell’attrattività di un servizio, ma le condizioni della ciclabilità sono ancora molto disomogenee da città a città, ogni amministrazione vuole rinventare la ruota, invece bisogna standardizzare un luogo, magari modulare, e destinare delle risorse pubbliche come si fa per gli altri servizi di trasporto, coinvolgendo anche i privati. Ora invece vediamo solo i due estremi: il servizio standardizzato e assolutamente impersonale di grosse gabbie automatizzate, efficiente ma fallimentare perché non accompagna il servizio con un pensiero sulla città, o gli spazi privati e sociali portati avanti da gruppi di volonterosi, che finiscono per stancarsi e disperdersi dopo un po’. In un servizio pubblico la convenienza economica non c’è, spesso non avanzano neppure i soldi per pagare degli stipendi. Vi immaginate se il trasporto pubblico fosse affidato al volontariato?
Ci racconti della tua militanza come ciclista? Cosa vuol dire essere un’attivista del movimento ciclistico? Quali sono i vostri obiettivi e come contate di raggiungerli?
Attivismo vuol dire non rassegnarsi mai alle cose come stanno. Che non significa combattere contro i mulini a vento, ma trovare sempre la strada per il cambiamento, pure nella tempesta con cui la conservazione ci travolge ogni giorno. Sono sempre stata attratta dalla politica, ho partecipato alle mobilitazioni studentesche già dal liceo, ma non capivo bene come le nostre instanze potessero tradursi in qualcosa di concreto e fattibile che andasse oltre la mera protesta. Nel mondo del cicloattivismo ho trovato da subito la mia dimensione, perché occupare la strada con il proprio corpo, rallentando il traffico nei suoi inutili picchi di velocità, costringendo a guardarsi, a rispettarsi, a volte anche entrando in conflitto, è già un gesto politico. Un gesto che nega il consumismo della fretta, dell’isolamento, della morte delle relazioni sociali tipica della vita dentro l’abitacolo di un auto. La bici è un veicolo che ti costringe a entrare in relazione in modo autentico con il prossimo. Questa concretezza per me è stata la salvezza. Il movimento cicloattivista lotta per città diverse, dove le persone siano al centro. Alcune piccole battaglie sono state vinte: dopo secoli il finanziamento delle reti ciclabili è finalmente affidato al Ministero dei Trasporti e non al Ministero dell’Ambiente, qualche piccola innovazione nel codice della strada, una timida ripresa, almeno in alcune regioni, dell’interesse per il trasporto pubblico. Ma la grande guerra è ancora lontana dall’essere vinta: dobbiamo togliere l’auto privata dal centro del nostro modello di mobilità, smettere di costruire autostrade, di finanziare l’ACI, di finanziare l’acquisto di auto private, e dare quello di cui le persone hanno bisogno: spostarsi, meno e meglio.
Oggi dalla sella di una bici ti sei spostata sullo scranno del consiglio comunale di Bologna. Nel nostro immaginario sei una militante della strada, è difficile immaginarti nei meccanismi dell’amministrazione. Come è stato il passaggio dalla strada al palazzo?
Prima, lavorando in Velostazione e come presidente di Salvaiciclisti, vivevo tutto il giorno in mezzo a persone che la pensano come me, circondata da affetto, condivisione profonda, sintonia in ogni gesto e pensiero. Ora, per lo più, vivo in mezzo a persone che devo costantemente convincere delle mie posizioni, con risultati che a volte sono esaltanti, ma il più delle volte è una lotta. Ogni istante devo considerare le differenze di linguaggio, di galateo, di significato dei gesti e delle parole. La politica è un mondo parallelo, dove le cose non hanno mai un senso in sé, ma sempre in base a un alfabeto di rapporti di forza e di ruoli. La cosa più difficile è stato imparare quell’alfabeto, che sto ancora cercando di decifrare. Per il resto, chi amministra vive le stesse tragedie di tutti: in Comune si subiscono le decisioni della Regione, in Regione ci si lamenta del Governo, al Governo dicono che è colpa dell’Europa. Siamo tutte Davide contro Golia, alla fine anche il più indefesso ambientalista fa qualche compromesso per stare una società civile consumista e autodistruttiva. Cerco di restare lucida mantenendo le stesse abitudini di prima: mi muovo solo in bici o in treno, mangio vegetariano e locale, mi porto la borraccia anche ai convegni, non compro abiti fast fashion, vedo gli amici di sempre. Cerco di mettermi in discussione ogni giorno, chiedendomi se sto facendo davvero tutto il possibile.
La vostra lista ha scelto non solo di partecipare alle elezioni ma anche di partecipare al governo della città. A distanza di qualche mese dall’inizio della consiliatura pensi che sia stata una scommessa vinta?
Non si può dire dopo pochi mesi, potremo dircelo alla fine del mandato. Stiamo imbastendo tanti cantieri importanti: le comunità energetiche, l’obiettivo di Bologna carbon neutral entro il 2030, fare marcia indietro sul consumo di suolo, nuovi parchi e fasce boscate, sostegno alle persone fragili, aumentare le case popolari, i percorsi contro le discriminazioni, e naturalmente gli obiettivi sulla mobilità. Ci sono 32 milioni di Euro sul piatto per il finanziamento della rete ciclabile metropolitana e stiamo riavviando il progetto del Servizio Ferroviario Metropolitano, fermo dal 2013. Per ora il lavoro è trovare fondi, inserire voci di spesa nei bilanci, riorganizzare i settori perché si occupino di questi nuovi temi. Certo, Nessuna di queste cose si fa in sei mesi, ma ogni giorno bisogna aggiungere un pezzettino perché diventino una priorità politica condivisa, non solo da noi amministratori ma soprattutto dalle persone che rappresentiamo. Le due cose vanno assieme.
Sei stata accusata di aver appoggiato un progetto infrastrutturale antiecologico, quello del passante, come rispondi a questa critica?
Già, mentre cerchi di fare delle belle cose, provi a mettere una toppa alle scelte scellerate che sono state fatte nel passato, e non sempre si esce soddisfatte. Il capitolo dell’allargamento del Passante autostradale di Bologna è stato molto doloroso da vivere, entrando nei processi abbiamo trovato accordi già sottoscritti e un iter irreversibile, questo già prima delle elezioni. Si poteva fare senza di noi, senza alcuna compensazione ambientale, lasciando che si concludesse tutto entro il mandato precedente e uscendone con la faccia pulita, ma dal mio punto di vista, ben più responsabili. invece abbiamo voluto rinviare l’iter e includere le compensazioni nell’accordo di coalizione. Secondo qualcuno sarebbe stato meglio, politicamente, non essere coinvolti in quel voto. Io purtroppo sono una persona troppo pragmatica, penso che se c’è modo di migliorare un’opera dannosa, anche se politicamente ci si perde qualcosa, è giusto sporcarsi le mani. Per qualcuno aver ottenuto le fasce boscate e un impianto fotovoltaico capace di fornire energia pulita a 200 famiglie è stato inutile. Per me no, rimango contraria ad ogni autostrada, ma guardo in faccia la realtà e mi rende triste vedere arrivare critiche da gente che usa l’auto ben più di me.
Invece, anche se sono pochi mesi che lavori nell’istituzione comunale, c’è un risultato del quale sei orgogliosa?
La nascita di piazze e strade scolastiche, un risultato che è arrivato dopo anni di richieste, coinvolgimento delle comunità scolastiche, advocacy anche a livello nazionale, ma che si è concretizzato grazie alla convinzione del nostro Sindaco e della nostra Assessora, e che è entrato negli obiettivi di mandato come misura da estendere a tutte le scuole possibili. Spazi accoglienti e senza auto all’entrata e all’uscita da scuola. Perché la città è di tutte.
Dopo i primi lockdown molti amministratori ci hanno detto che “nulla sarebbe stato più come prima” in una narrativa che alludeva alla realizzazione di città più a misura di uomo (in sella o meno ad una bici). Ci pare che contrariamente a quanto stia avvenendo in altre città, come Parigi, in Italia non ci sia nessun cambiamento apprezzabile. Sei d’accordo?
Per Bologna fortunatamente non è così. Gli spostamenti in bici sono aumentati anche del 20/30% su alcune strade dove si sono fatti interventi e stiamo pianificando la città 30, l’abbassamento dei limiti di velocità e con il progetto Area Verde una continuità ciclopedonale tra tutte le aree verdi di Bologna. Il traffico auto è rimasto al di sotto dei livelli pre-covid, anche se purtroppo il trasporto pubblico non si è del tutto ripreso. Certo, a livello nazionale il Governo Draghi sta facendo molte marce indietro, tornando a politiche vecchissime e scoraggianti.
Qual è la singola cosa più importante che vorresti realizzare nei prossimi quattro anni?
Raddoppiare il numero di persone che si spostano in bici ogni giorno. Sembra una mia fissa, ma vuol dire meno incidenti, meno smog, persone più in salute, vuol dire aumentare la felicità collettiva.
Vorremmo farti anche una domanda un po’ più politica e generale. Secondo te cosa manca al movimento ecologista italiano per poter diventare efficace nell’azione come i partiti verdi della Germania o di altri paesi europei?
Purtroppo è semplice rispondere: manca la capacità di lavorare insieme, con meno protagonismo. Ognuno Purtroppo è semplice rispondere: manca la capacità di lavorare insieme, con meno protagonismo. Ognuno cerca il proprio palco e ci si accontenta di una enorme frammentazione. Serve spirito di servizio e pragmatismo.
A febbraio hai partecipato a Assemblea Ecologista a Firenze con un intervento molto applaudito. Cosa ti aspetti che possa diventare Assemblea Ecologista?
Spero che sia una piattaforma per creare un modo di fare politica riconoscibile ed efficace, ovviamente se si vuole essere efficaci bisogna produrre anche risultati misurabili e cambiare il modello di sviluppo. Sono sicura che in giro per l’Italia ci sono tante piccole esperienze che hanno bisogno solo della forza di un gruppo per emergere, come un vero movimento.
Grazie per il tuo tempo!
Di Guido Scoccianti
Fanalino di coda da sempre di tutte le politiche, ultimo dei settori nella destinazione dei fondi e delle risorse, da molti sostanzialmente ignorata o quantomeno considerata tema da ‘sentimentali’, la tutela della biodiversità ancora oggi stenta ad essere riconosciuta per quello che in realtà è, cioè uno degli elementi chiave per la nostra sopravvivenza.
Qualcosa però potrebbe cominciare a cambiare.
Se a poco o nulla sono serviti i gridi di allarme negli ultimi decenni di biologi e naturalisti, nonostante la mole di dati raccolti che mostrano in modo inequivocabile la gravità della situazione, finalmente adesso cominciano a parlare dell’importanza della biodiversità anche gli economisti. Una voce tipicamente tenuta in maggior considerazione dai nostri politici.
Quali sono infatti i costi economici per la nostra società della distruzione di specie e habitat?
Come segnala la Commissione Europea nella presentazione della Strategia Europea sulla Biodiversità per il 2030:
“la perdita di biodiversità e il collasso degli ecosistemi sono una minaccia anche per le fondamenta della nostra economia e si prevede che i costi dell’inazione, già alti, aumenteranno. Si stima che dal 1997 al 2011 i cambiamenti nella copertura del suolo abbiano causato perdite pari a 3500-18500 miliardi di euro l’anno in servizi ecosistemici a livello mondiale e che il degrado del suolo sia costato 5500-10500 miliardi di euro l’anno“.
“l rapporto benefici/costi complessivi di un programma mondiale efficace per la conservazione della natura ancora allo stato selvatico è stimato ad almeno 100 a 1. Gli investimenti nel capitale naturale, ad esempio nel ripristino di habitat ricchi di carbonio e nell’agricoltura rispettosa del clima, sono considerati tra le cinque politiche più importanti di risanamento del bilancio in quanto offrono moltiplicatori economici elevati e un impatto positivo sul clima“.
Basta inoltre pensare, per esempio, a come il declino degli insetti impollinatori, se non controvertito, può mettere in ginocchio la nostra agricoltura e di conseguenza tutta la catena della produzione alimentare, per comprendere bene come la tutela della biodiversità è una sicurezza anche per noi stessi.
Per questo la tutela della biodiversità, insieme al contrasto ai cambiamenti climatici, dovrebbe essere oggi elemento fondamentale ed anzi guida di tutte le politiche, in particolare di quelle che determinano le azioni per la ripresa economica dopo la pandemia.
E’ con questa consapevolezza che proprio nella primavera del 2020, in piena esplosione della crisi pandemica, la Commissione Europea ha avuto la volontà e la forza di approvare una nuova Strategia dell’UE sulla Biodiversità per il 2030, Strategia che dovrebbe guidare i Paesi europei in un cammino rivoluzionario per quanto riguarda i rapporti fra uomo e natura, con l’obiettivo conclusivo di giungere nel 2050 ad una situazione in cui tutti gli ecosistemi del pianeta siano ripristinati, resilienti e adeguatamente protetti e dove sia applicato il principio del “guadagno netto”, cioè restituire alla natura più di quanto le sottraiamo. Un obiettivo molto ambizioso, forse irraggiungibile nella sua interezza, ma che deve essere l’elemento su cui costruire fin da oggi tutte le nostre politiche, con una serie di passaggi intermedi di azione e di verifica. La strategia europea al 2030 vuole essere il primo di questi passaggi intermedi, prefiggendosi il traguardo di riportare la biodiversità in Europa sulla via della ripresa entro il 2030, in linea con l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, ed in connessione e sintonia con gli obiettivi di lotta ai cambiamenti climatici.
D’altronde tutela della biodiversità e tutela del clima sono strettamente interconnessi. La biodiversità ha un ruolo fondamentale nel sequestro e nell’immagazzinamento del carbonio. E’ facile pensare in questo senso alle foreste, ma anche altri ecosistemi hanno importanti ruoli. Per esempio le torbiere, che a livello globale contengono più di 550 giga tonnellate di carbonio e sono capaci di sequestrare 0.37 giga tonnellate di CO2 all’anno, e, come le torbiere, i suoli fertili in genere. Inoltre fondamentale è il ruolo del fitoplancton marino nell’accumulare CO2 rimuovendola dall’atmosfera.
Nello stesso tempo, la conservazione della biodiversità naturale rende gli ecosistemi maggiormente resilienti agli impatti da cambiamento climatico e inoltre ci offre soluzioni ‘nature-based’ che possono, e dovrebbero, svolgere un ruolo fondamentale nel contrasto al cambiamento climatico ed ai suoi effetti.
Non è un caso che, nel giugno 2021, è stato pubblicato un primo rapporto congiunto fra i due maggiori organismi internazionali che si occupano rispettivamente di clima e di biodiversità, cioè l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) e l’IPBES (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services), rapporto in cui si sottolinea l’importanza e la necessità di affrontare insieme la crisi climatica e la crisi della biodiversità congiuntamente ai loro combinati impatti sociali.
Allo stesso modo, tornando ai rapporti fra economia e biodiversità, un istituto come il World Economic Forum, ad oggi non proprio avvezzo a posizioni ecologiste e difficilmente tacciabile di posizioni ecologiste preconcette, ha pubblicato nel 2020 un dossier dall’eloquente titolo di ‘Nature risk rising: Why the crisis engulfing Nature matters for business and the economy’, in cui si sottolinea come più di metà del Prodotto Interno Lordo mondiale (44 miliardi di dollari) dipende in modo determinante dalla natura e dai suoi servizi ed è quindi esposto a rischio dalla perdita di capitale naturale.
E’ anche per questo che gli obiettivi della Strategia Europea sulla Biodiversità per il 2030 sono obiettivi che non ci possiamo permettere di perdere ed è importante notare che non sono solo obiettivi di ‘conservazione’ degli ecosistemi che ancora sopravvivono, ma anche di ripristino e ricreazione di ambienti che sono stati deteriorati. Uno degli obiettivi principali della strategia è infatti il ripristino di vaste superfici di ecosistemi degradati e ricchi di carbonio, obiettivo che coincide perfettamente con l’impegno che l’ONU ha voluto lanciare con la dichiarazione del decennio 2020-2030 come ‘Decade on Ecosystem restoration’.
E’ evidente che per raggiungere questi obiettivi ci vogliono volontà, scelte precise e anche destinazioni adeguate di fondi e risorse, nella consapevolezza però che questi fondi e risorse, se ben utilizzati, ci eviteranno disastrose e ben più alte perdite economiche, dovute alla depauperazione dei servizi ecosistemici.
Per iniziare a tutelare davvero la biodiversità, attraverso una svolta nelle politiche internazionali e locali, dovrebbe essere sufficiente la motivazione che anche tutte le altre forme di vita animale e vegetale di questo pianeta hanno diritto a continuare ad esistere, o almeno la considerazione che lasciare ai nostri figli un mondo senza biodiversità significa lasciare un mondo privo di gran parte della sua bellezza. Ma se ancora questo non fosse sufficiente, forse ci potrà far cambiare idea il fatto che senza biodiversità a crollare saranno la stessa nostra economia e con essa i già traballanti equilibri sociali. Lo sapremo nei prossimi anni.
La politica, a tutti i suoi livelli ed in modo coordinato, deve oggi fare una scelta, e deve farlo tenendo ben chiaro che, se così non sarà, non avremo un altro decennio a disposizione per recuperare ciò che non avremo fatto da qui al 2030, perché molto di tutto questo non sarà più recuperabile e saremo destinati a vivere sempre più poveri in un mondo sempre più povero, più insalubre, più inospitale, orfano di quella bellezza che rende la vita degna di essere vissuta.
di Sebastiano Nerozzi* e Giorgio Ricchiuti**
Pur pensando alla pandemia come una crisi sanitaria, non possiamo dimenticare che l’aumento delle zoonosi vede nell’uomo e nelle attività produttive il principale imputato. La crisi ecologica però ha portato alla ribalta, ancora di più di quella finanziaria di un decennio fa, la diseguaglianza diffusa che vediamo nell’accesso alle cure, così come nei problemi nell’accesso alla DAD o nelle sperequazioni fra lavori fra chi ha potuto lavorare in smartworking e chi ha continuato come prima o, peggio ha perso il lavoro. Per non dimenticare la forte diseguaglianza fra paesi nell’accesso ai vaccini. Questi elementi sottintendono una forte diseguaglianza di reddito e ricchezza.
Facciamo un piccolo passo indietro. Dopo la seconda guerra mondiale, la crescita economica dei paesi del blocco occidentale ha portato all’aumento di beni a disposizione di una crescente classe media. Una seconda ondata è arrivata con il processo di globalizzazione finanziaria e della produzione che, sul finire del secolo scorso, ha portato anche all’emersione di un gruppo di paesi (Cina, India, Brasile, fra gli altri) che si sono inseriti di diritto fra i protagonisti delle catene globali del valore. La loro crescita economica sostenuta ha portato alla riduzione della distanza (la diseguaglianza) fra paesi e alla riduzione della povertà assoluta (secondo l’ONU, 800 milioni di persone hanno superato la soglia di povertà assoluta), un miglioramento degli standard di vita, un miglior accesso all’istruzione (Global Multidimensional Poverty Index 2020).
Tuttavia non tutti hanno beneficiato della crescita sostenuta a cavallo del secolo. Sono state le élite di super-ricchi e le classi medie dei paesi emergenti ad ampliare redditi e ricchezza. La distribuzione dei benefici della crescita economica avvenuta nel trentennio glorioso della globalizzazione sono stati descritti in un celebre grafico dell’“elefante di Milanovic”, dal nome dell’economista Branko Milanovic che lo ha realizzato. Milanovic ha stimato infatti i tassi di crescita per ogni percentile di reddito dai più poveri ai più ricchi: dal 1988 al 2008 i nuovi ceti medi nei paesi emergenti hanno visto aumentare di oltre 60-70% il loro reddito (le spalle e la testa dell’elefante), in linea con il 2% più ricco della popolazione mondiale (la proboscide). Al contrario i lavoratori e i ceti medi dei paesi sviluppati (la bocca dell’elefante) hanno visto ristagnare i loro redditi, insieme con i più poveri dei paesi del Sud del mondo (la coda).
E la forte diseguaglianza di reddito e ricchezza è confermata dall’ultimo rapporto mondiale sulla diseguaglianza (WIR, 2022) appena pubblicato. Il rapporto sottolinea come le medie nascondono pericolosamente una forte disparità di reddito sia all’interno dei paesi che fra paesi. Il 10% più ricco della popolazione mondiale assorbe attualmente il 52% del reddito globale, mentre la metà più povera della popolazione ne guadagna l’8%. In media, chi sta fra il 10% più alto della distribuzione del reddito globale guadagna € 87.200 all’anno, mentre chi è nella metà più povera della distribuzione globale del reddito guadagna appena € 2.800 all’anno. E questa disparità è ancora più chiara e pronunciata guardando alla ricchezza. La metà più povera della popolazione mondiale possiede solo il 2% del totale. Al contrario, chi fa parte del decile più alto possiede il 76% di tutta la ricchezza.
D’altra parte la crescita economica non si è solo accompagnata alla diseguaglianza, ma ha anche portato alla “grande accelerazione”, per usare il termine coniato dagli storici dell’ambiente John H. Mc-Neill e Peter Engelke per indicare l’aumento delle emissioni di CO2 dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi e ripreso dalla figura qui sotto.
Se fino alla seconda rivoluzione industriale la biosfera era in grado di assorbire e rigenerare la quantità di CO2 prodotta dall’uomo, l’aumento della produzione si è accompagnato ad un forte aumento di gas climalteranti, causando l’aumento delle temperature globali. E l’aumento è ascrivibile ai paesi occidentali così come a quelli emergenti.
La crescita del PIL si è quindi accompagnata da una parte ad uno squilibrio distributivo e dall’altra ad uno ecologico. Per la teoria economica tradizionale sia l’effetto sulla diseguaglianza che l’impatto ambientale dovrebbero essere transitori. Diseguaglianza e impatto ambientale crescono in una prima fase di sviluppo per poi ridursi una volta che vengono introdotte politiche di protezione ambientale o redistributive. Questo è quello che suggerisce la suggestiva curva di Kuznetz a forma di “u rovesciata”, che associata alla diseguaglianza nella sua formulazione originaria, ha trovato una riproposizione anche in riferimento ai danni ambientali.
Viene delineato quindi un automatismo che però scarica di responsabilità gli attori in gioco: si tratta solo di accettare questi processi (c’è un livello buono di diseguaglianza e inquinamento) e aspettare la loro soluzione quasi naturale. Tuttavia, nel tempo, diversi studi hanno mostrato la fallacia di queste assunzioni e la loro insostenibilità sia sociale che ambientale. Allo stesso tempo, i tempi del cambiamento climatico non possono fermarsi ai se e alla lentezza di un processo così complicato.
Considerando i tempi stretti per ridurre le emissioni e evitare il disastro ecologico crediamo sia fondamentale ribaltare le idee dietro le curve a “u rovesciate” e comprendere come, le politiche di riduzione della diseguaglianza (e della povertà), non sono una conseguenza logica e inevitabile dello sviluppo ma un presupposto necessario per ogni strategia di sviluppo ecologico.
Facciamo un piccolo esperimento mentale, un mero esercizio contabile che può però aiutarci a comprendere meglio la relazione fra produzione (PIL), consumo di risorse e diseguaglianza. Diamo per buone la distribuzione trovata dal WIR: il 50% della popolazione mondiale (circa 4 miliardi di persone) guadagnaa solo l’8% del reddito, mentre il 10% più ricco (ottocento milioni di persone) ricevono il 52% del reddito prodotto, il restante 40% è nelle mani del resto della popolazione mondiale. Immaginiamo, per ipotesi, che questa distribuzione rimanga costante nel tempo e chiediamoci di quanto debba aumentare in reddito (la produzione) mondiale per aumentare di un solo euro il reddito del 50% più povero. Per dare a questa parte della popolazione 4 miliardi di euro, il reddito mondiale deve aumentare di 50 miliardi. Questi non vengono equamente distribuiti, infatti bene 26 (il 52%) arriva al 10% più ricco. Quindi per ogni euro dato a un povero, ne vengono dati 32,5 a chi è nel decile più alto. Facciamo notare che un super ricco (che è nell’1% più ricco) ne riceverà ancora di più.
Chiediamoci adesso cosa succederebbe se, attraverso politiche attive di redistribuzione, limitassimo la quota dei ricchi al 30%, innalzando la quota della metà più povera dall’8 al 20%. Per dare un euro in più dovremmo aumentare il reddito mondiale solo di 20 miliardi (meno della metà di prima). Potremmo quindi produrre di meno, inquinando meno, ma producendo uno stesso aumento di reddito per la parte bassa della distribuzione del reddito. Certo il decile più alto dovrebbe solo accontentarsi di 7,5 euro ma sarebbe sempre il 650% in più di quello ricevuto da un povero. L’effetto positivo sull’ambiente potrebbe essere ancora più elevato se consideriamo che alti livello di reddito sono correlati ad elevate emissioni (i ricchi viaggiano di più, usano meno i mezzi pubblici, etc..), così come mostrato da un OXFAM TECHNICAL BRIEFING del dicembre 2015.
C’è, infine, un ulteriore effetto che va considerato. L’aumento di reddito per le fasce più basse della distribuzione, portando fuori dalla condizione di povertà una buona parte della popolazione del sud del mondo, accellererebbe la transizione demografica in corso, favorendo un contenimento dell’aumento della popolazione mondiale, con un’ulteriore riduzione del consumo di risorse naturali.
Ribadiamo che il nostro è solo un esperimento mentale, un effettivo cambiamento di rotta richiede interventi fiscali su larga scala, il coordinamento di tutti i paesi e il riaggiustamento dei meccanismi e produttivi e redistribuivi (fra profitti e salari). Speriamo però che risulti chiaro come la riduzione della diseguaglianza, favorendo le fasce più disagiate della popolazione, permetterebbe una riduzione della pressione antropica sulla natura. Sviluppo ecologico e riduzione delle diseguaglianze non possono che coevolvere.
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* Sebastiano Nerozzi è professore associato di Storia del Pensiero Economico all’Università Cattolica di Milano ** Giorgio Ricchiuti è professore associato di Politica Economica all’Università di Firenze
Abbiamo intervistato Gianluca Ruggieri, ingegnere ambientale, ricercatore universitario e socio fondatore di ènostra.
Ecoló: Che cosa è ènostra?
Gianluca Ruggieri: ènostra è una cooperativa – probabilmente al momento la più importante cooperativa in Italia che si occupa di fonti rinnovabili – che produce e vende elettricità da fonti rinnovabili.
E: Ci dai tre buoni motivi per i quali un utente che non ha mai cambiato fornitore di energia dovrebbe scegliervi?
GR: Il primo è che cerchiamo di essere protagonisti della transizione energetica con un progetto che tiene insieme, da una parte l’efficienza energetica dall’altra la produzione di elettricità da fonti rinnovabili. Il secondo è che essendo una cooperativa non siamo a scopo di lucro e quindi tutti i benefici generati vengono poi ripartiti tra i soci. Il terzo è che è un vero progetto di comunità anche se di grandi dimensioni.
E: Quanti sono i soci?
GR: Siamo più di 9.000 oramai, in crescita da quando siamo nati. La cosa importante è che siamo arrivati alla soglia, per noi considerata critica, intorno alle 5.000 persone, che ci consente di essere sostenibili nel tempo e operare con maggiore tranquillità.
E: Come si fa in pratica a cambiare operatore?
GR: Essendo una cooperativa, ènostra, richiede di diventare soci con un versamento iniziale di 50€ per poter attivare il contratto. Detto questo, diventare socio, attivare il contratto di fornitura e interrompere il contratto precedente è un’unica operazione che si fa compilando una procedura online (pensiamo noi a contattare il precedente fornitore del passaggio). E’ tutto molto semplice e guidato, di solito per uno che ha una minima alfabetizzazione informatica non costituisce un problema. Una volta diventati soci, attraverso il pagamento di una sorta di prima bolletta “0” del valore di 50€, il trasferimento dell’utenza avviene in un’unica operazione. Se uno è titolare di più contratti l’iscrizione a socio è sufficiente effettuarla solo alla prima attivazione.
E: Mi posso aspettare che, almeno nel breve periodo, potrebbe aumentare il costo di quanto andrò a spendere?
GR: Al momento, per la tariffa standard dei soci cooperatori (che versano come si diceva 50€ una tantum), abbiamo un extra costo equivalente a un cappuccino al mese rispetto al servizio di maggior tutela (tra i 10 e 15 € all’anno per una bolletta media). Poi c’è la possibilità di diventare socio sovventore, con la possibilità di attivare una tariffa particolare chiamata “prosumer” che due caratteristiche particolari. La prima è di avere un prezzo fisso che dipende soltanto dalla prestazione dei nostri impianti, quindi completamente sganciato dal mercato dei fossili e, in un momento come questo in cui il gas ha un prezzo alto diventa molto conveniente. L’anno scorso invece, quando il costo di generazione era molto più basso ovviamente non eravamo competitivi. L’altra caratteristica è che ha un bonus e quindi vengono in qualche modo scalati dei kWh proporzionali con il tipo di investimento che si è fatto (stiamo parlando di investimenti di cifre relativamente piccole, dai 500 ai 1.000-2.000 €, poi ognuno trova la sua taglia, anche in funzione dei suoi consumi). In un momento in cui il kWh del mercato costa tanto – come questo – il beneficio economico è molto rilevante in termini proprio di rendimento percentuale sul capitale investito, con pochi concorrenti al momenti. (ndr … e che magari sono investimenti in mine antiuomo!).
E: Un freno al passaggio di fornitore potrebbero essere dubbi sulla vostra solidità societaria (pensiamo ai casi di Eviva e Gala). Si tratta di un dubbio infondato? O ènostra potrebbe andare a gambe all’aria nel giro di qualche mese mettendo in difficoltà chi vi sceglie?
GR: Ovviamente tutte le imprese, compresa ènostra, hanno un rischio che fa parte della vita delle imprese. Nel nostro caso il tentativo che è sempre stato fatto è quello di crescere in maniera equilibrata tra la nostra produzione e la nostra vendita e di avere contratti che ci garantiscano, difatti in questo momento tariffe fortemente convenienti riusciamo a farle soltanto per l’energia che produciamo noi. E’ chiaro che, per esempio, avendo appena inaugurato una pala eolica, se questa dovesse crollare costituirebbe un problema, però, per le dimensioni che abbiamo adesso, sarebbe un problema che saremmo in grado di gestire.
Eravamo molto più a rischio quando all’inizio eravamo una piccola società con 1000-2000 soci e per i primi anni abbiamo accumulato delle perdite, comunque previste dai nostri piani. L’idea era che essendo pochi non potevamo tenere i prezzi molto alti per non fare buchi in bilancio ma rischiando poi di non convincere nessuno a diventare socio. Abbiamo invece optato per tenere i prezzi relativamente bassi sapendo di correre qualche rischio iniziale, ma adesso che siamo alle dimensioni che dicevamo prima i conti tornano e con il 2020-2021 andremo a coprire una parte significativa delle perdite accumulate nei primi 5-6 anni di attività. Quindi il rischio c’è sempre, però per come si è costruito il modello, lontano da qualsiasi tipo di speculazione, questo è per sua natura anche un pochino più stabile e tranquillo.
E: In un mercato in cui tutto viene venduto come “green” come faccio ad essere sicuro che ènostra non sia l’ennesima operazione di greenwashing?
GR: Tre cose: la prima è che sulla totalità della nostra energia abbiamo le garanzie d’origine, certificazioni che garantiscono sulla provenienza da fonti rinnovabili. La seconda è che abbiamo degli impianti di proprietà che sono fatti secondo dei criteri, non solo di rinnovabilità, ma anche di basso impatto ambientale. Il terzo tema, che per noi è sempre fondamentale, è che il nostro è un progetto a 360°. Il supporto che diamo ai nostri soci che vogliano produrre energia elettrica a casa loro con un impianto fotovoltaico, o ridurre i loro consumi energetici, per esempio con operazioni come quelli presenti adesso favorite dal Superbonus 110% o altro tipo di detrazioni, fa sì che emerga chiaramente come il progetto della cooperativa sia quello di abbattere l’impronta ecologica dei nostri consumi energetici. Per assurdo, se un giorno tutti i nostri soci fossero totalmente autosufficienti in termini di consumo energetico, ènostra a quel punto potrebbe chiudere e lo farebbe avendo raggiunto il suo obiettivo, che è quello della transizione. Il nostro obiettivo non è quello di massimizzare il fatturato o il rendimento sul capitale investito, il nostro obiettivo è fare l’interesse dei soci. E’ un approccio molto diverso di quello che ha un grosso investitore che, in questo momento trova la tematica green molto interessante e ci si butta dentro e magari si fa pochi scrupoli su cosa c’è veramente dietro.
E: Esistono realtà simili a ènostra in Europa e nel mondo?
GR: ènostra fa parte di un movimento più ampio, in particolare facciamo parte di RESCOOP, associazione europea delle cooperative e iniziative di comunità che si occupano di rinnovabili in Europa. Lavoriamo soprattutto con altre realtà europee ma esistono altre realtà nel mondo, che hanno un approccio simile ma con modelli diversi, a seconda del contesto locale. Per chi fosse interessato ad approfondire recentemente è uscito “We the power” documentario prodotto da Patagonia ne racconta alcune.
GR: C’è un rapporto tra ènostra e comunità energetiche? Cosa pensi della modifica alla legge che le regolamenta e che futuro industriale vedi per questo tipo di progetti?
E: La nuova legge è ancora in bozza per cui ci sono ancora molti punti di domanda. Rispetto alla legge attualmente in vigore ci sono sicuramente aspetti positivi che allargano le dimensioni della comunità energetica. Le comunità energetiche sono per loro natura indipendenti a controllo locale ed i membri possono scegliere il fornitore, ma nell’ottica della transizione abbiamo lavorato, stiamo lavorando e lavoreremo alla promozione di realizzazioni di comunità energetiche: al momento stiamo portando avanti una dozzina di progetti, con differenti stati di avanzamento. Il nostro ruolo è di facilitatore iniziale del progetto con la redazione di studi di fattibilità, oppure con un ruolo più tecnico di assistenza nel dimensionamento e realizzazione del progetto collettivo, altrimenti è di dare supporto alla definizione dello statuto della comunità energetica che si va a formare. In sintesi abbiamo un ruolo di consulenza su tutto il percorso che porta alla creazione dell’ente giuridico. Anche se si potrebbero vedere questi progetti come concorrenti siamo contenti di aiutare allo sviluppo di questo approccio.
E: Se fossi un condominio che vuole creare una comunità energetica posso rivolgermi a ènostra per avere un supporto al loro percorso fornendo una consulenza? E quanto potrebbe costare?
GR: Il costo dipende da cosa ci viene chiesto di fare e non è detto che sia conveniente. Mentre in passato il “conto energia” era molto generoso adesso è necessario prestare molta attenzione, altrimenti la consulenza rischia di costare più del beneficio economico, per cui stiamo attenti a dosare il tipo di intervento che proponiamo a chi ci contatta. Nel caso di condominio, il consiglio è che sia il condominio stesso a fare la parte di discussione e partecipazione inziale, curando noi dimensionamento e valutazione tecnico-economica del progetto, con un costo di consulenza molto limitato.
E: Se oltre a cambiare operatore volessi investire in ènostra, quali prospettive e rendimenti mi aspetterei?
GR: Oltre a quanto detto prima, il motivo per cui immagino che qualcuno possa voler investire in ènostra è favorire l’uscita dalla dipendenza dei fossili. Dopodiché in un momento come questo, con il costo dei fossili molto alto, questa scelta può voler dire guadagnarci molto. In altri momenti potrebbe voler dire guadagnarci meno. La scelta quindi dipende molto dalle motivazioni personali. La tariffa è stata disegnata perché possa essere conveniente quasi sempre nelle condizioni di mercato che ci possiamo aspettare, però potrebbe ricapitare come l’anno scorso durante il lockdown che il prezzo dell’energia crolli a causa dell’eccesso di offerta in quel caso la nostra tariffa non sarebbe più conveniente. Certo se qualche calamità compromettesse il nostro impianto di Gubbio questo cambierebbe il beneficio per l’investitore.
E: L’investimento però è in ènostra, non in un unico impianto, corretto?
GR: Sì, ma un l’impianto appena realizzato è piuttosto grande rispetto al totale della nostra produzione.
E: Quanta energia producete attualmente?
GR: Con l’entrata in funzione di questo nuovo impianto arriveremo a 3 GWh/annui a regime e con il vento atteso, al momento la produzione è di 1,1 GWh/annui
E: Noi vediamo nel prosperare di esperienze come la vostra piccoli segni di transizione ancora in gran parte sulla carta nel nostro paese. Cosa pensi che manchi nel nostro paese perché possa prendere davvero il via il cambiamento necessario?
GR: Stiamo piano piano arrivando al momento in cui c’è una consapevolezza diffusa che la transizione e la decarbonizzazione siano una strada segnata. Ci abbiamo messo parecchio tempo: il protocollo di Kyoto è del 1997 e quindi sono passati quasi 25 anni, però alla fine ci siamo più o meno arrivati. Il punto è che ci possono essere modelli diversi di transizione, quelli in cui vengono ribaditi i poteri delle grandi aziende oligopoliste o modelli in cui c’è maggiore potere alle comunità e ai cittadini; modelli in cui c’è una maggiore attenzione al tema della povertà energetica, di una giusta transizione, e modelli in cui questi sono considerati perdite collaterali, come si diceva alle volte. Di sicuro è una buona notizia che nell’ultima settimana si è sentito il presidente Draghi dire delle cose che non ha mai detto nessun Presidente del Consiglio italiano. Probabilmente quello che manca è una visione di insieme che faccia sì che questa transizione, che più o meno adesso sappiamo che dobbiamo fare, venga disegnata in modo tale che se qualcuno deve pagare di più, sia qualcuno che se lo può permettere, e chi non se lo può permettere possa partecipare a questo processo senza essere escluso. Faccio esempi molto banali. E’ chiaro che nel momento in cui mettiamo forti incentivi sulle auto elettriche, che vanno a premiare auto di grande cilindrata, che magari costano 50 – 70 mila euro, disegniamo dei destinatari di questi benefici che non sono esattamente i ceti meno abbienti. Un altro esempio banale, nella Regione dove abito, la Lombardia, come operazione post-covid per rilanciare l’economia si è pensato di concludere la costruzione dell’autostrada pedemontana; io non credo che costruire nuove autostrade sia un modo per facilitare la transizione, almeno al momento. Magari fra 20 anni avremo tutti mezzi di trasporto super-efficienti e a zero emissioni, e allora ne riparliamo, ma al momento se ho delle risorse non le metto certo nella costruzione di nuove autostrade, perché vado esattamente nel senso opposto.
E: La politica potrebbe fare di più per aiutare progetti cooperativi come il vostro? Avete interlocutori utili nelle istituzioni? Sentite la mancanza di referenti credibili sulla transizione ecologica?
GR: Abbiamo avuto degli interlocutori e tuttora abbiamo interlocutori che ci ascoltano. In generale, mi sembra di poter dire che per fortuna siamo nati qualche anno fa e arriviamo a questo momento, che è un momento di grandi cambiamenti sia sul piano delle comunità energetiche sia sul piano della transizione in generale, avendo messo dietro le spalle un po’ di anni di attività, un po’ di credibilità , un po’ di numeri, che fanno sì che siamo un interlocutore credibile anche per le istituzioni, che non sono solo la politica, perché nel settore energetico ci sono enti e l’Autorità che hanno un ruolo importante.
Quando ormai tre anni fa si discuteva di come mettere nelle Direttive europee il tema delle comunità energetiche, abbiamo lavorato benissimo con esponenti italiani al Parlamento europeo e oggi lavoriamo bene con la Commissione Industria del Senato italiano. Quindi ci sono persone con cui abbiamo avuto relazioni, ma mi sembra che la cosa più interessante sia il fatto che siamo arrivati ad avere una dimensione ed una credibilità tale per cui siamo abbastanza riconosciuti al di là dell’avere un contatto nelle istituzioni che ti ascolta perché ti conosce personalmente e apprezza il tuo progetto.
Sul fatto che la politica possa fare di più per aiutare progetti imprenditoriali come il nostro, capisco che è complicato. Mi verrebbe da dire ‘semplificare’, ma è chiaro che c’è anche un tema di garanzia degli utenti finali.
E allora se semplificare poi rischia di introdurre situazioni come quella che citavi prima (ndr Gala), se tu favorisci la creazione di cooperative energetiche e lo fai in un modo che poi apre le porte a progetti speculativi, forse non stai facendo la cosa migliore.
Quindi io non saprei darti una risposta precisa su come poter favorire. Di sicuro c’è tutto un tema di semplificazione burocratica nel campo delle rinnovabili che però è più generale, cioè non riguarda solo noi ma più meno tutti gli operatori, che complica tanto, allunga i tempi e di conseguenza aumenta poi anche i costi. Cioè tecnologie che tecnicamente potrebbero essere anche competitive e convenienti, poi non lo sono perché tu inizi a fare un progetto e non sai quando finisce e non sai se finisce bene o se non finisce bene, cioè hai molto poche certezze.
E: Grazie del tuo tempo e della tua disponibilità Gianluca!
Sempre più spesso si sente parlare di “comunità energetiche”, ma probabilmente pochi sanno effettivamente cosa siano e come funzionino.
Abbiamo incontrato Giulio Signorini, geometra ecologista che ha fatto del risparmio energetico e delle rinnovabili una delle sue ragioni di vita.
Ecoló: iniziamo dalle basi: cos’è una comunità energetica?
Giulio Signorini: Essenzialmente la comunità energetica è la costituzione di un gruppo di persone che condividono l’autoproduzione di energia. In inglese si definiscono “prosumers” e sono al tempo stesso produttori ed utilizzatori di un bene, in questo caso dell’energia elettrica.
Esistono poi diversi tipi di comunità energetica: quella che fa riferimento ad una singola unità immobiliare (il grosso condomino, ad es.) e quella che collega più realtà sul territorio purché facciano capo alla stessa centralina.
Ecoló: Quindi anche un condominio potrebbe diventare comunità energetica? E quali sarebbero i pro e i contro?
GS: Certamente. Attualmente proprio un progetto di comunità energetica è stato proposto alle Piagge ad un condominio di 24 appartamenti. In questo modo si costituirebbe un’unica comunità dell’energia di 24 alloggi ed altrettanti garage. Si parla, in questi casi, di “autoconsumo collettivo” più che di comunità dell’energia, perché l’energia viene prodotta e consumata nello stesso luogo.
Certamente, quando la comunità è costituita da un blocco abitativo la produzione e il consumo sono leggermente squilibrati, perché proprio nelle ore di maggior produzione c’è, generalmente, un minor uso di energia. Si calcola che l’autoconsumo si aggiri, in questi casi, intorno al 30%-35%. È certamente possibile ovviare parzialmente a questo problema con gli accumulatori, così da poter fare l’autoconsumo anche la sera arrivando così ad un consumo del 50% dell’energia prodotta.
Ecoló: Questa idea di un condomino capace di auto-produrre l’energia di cui necessita ci sembra genaile! Ma ci sono soluzioni che consentono di consumarla interamente?
GS: La soluzione migliore sarebbe quella di coinvolgere nella comunità energetica anche altre attività con necessità ed orari diversi. La soluzione ideale sarebbe avere soggetti che si alternano nell’uso dell’energia, come ad esempio una scuola, delle abitazione e alcuni negozi e dei ristoranti.
Ecoló: Quali sono le difficoltà attuali nella creazione di comunità energetiche?
GS: Una comunità dell’energia deve oggi obbligatoriamente rientrare sotto una stessa cabina di trasformazione, rendendo più complicata la collaborazione tra strutture diverse all’interno dello stesso territorio.
Ecoló: Come si costituisce una comunità dell’energia?
GS: A livello formale serve un capofila, se c’è, oppure basta istituire un’associazione con codice fiscale. Gli associati possono decidere come dividere il consumo e se acquistare dai soci stessi l’energia non usata. I comuni potrebbero fare da promotori, come accade a Biccari, ed essere parte della comunità stessa.
Ecoló: Come influisce sui consumi essere produttori?
GS: L’essere responsabili dell’energia che si produce può certamente influire sui consumi. A Firenze l’ENEA (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, n.d.r.) ha installato in 150 abitazione un monitor che segnalava il consumo istantaneo, quotidiano e mensile di gas ed energia. In questo modo si è avuto una riduzione media dei consumi del 15%.
Quando si costituiste la comunità diventa necessario sapere quanto e quando si consuma!
Ecoló: Grazie per la tua disponibilità Giulio!
Le comunità energetiche sono una soluzione interessante per la riduzione del consumi e per acquisire una sempre maggiore consapevolezza sul valore economico, sociale ed ecologico dell’energia.
Per questo Ecoló Sesto ha tra i suoi obiettivi principali la realizzazione di comunità su territorio sestese per rendere il nostro comune sostenibile, consapevole ed ecologico.
L’idea di questa intervista ci è venuta mentre programmavamo i nostri prossimo viaggi di lavoro, in particolare un viaggio molto lungo, in Cile. Malgrado la scusa dei “viaggi di lavoro”, rimane il fatto che l’impatto di un volo è elevato, in particolare quello di un volo intercontinentale. Abbiamo chiesto a Francesco Capezzuoli di Italian Climate Network alcuni chiarimenti.
Paolo & Samuele: La prima domanda è: quanto inquino andando in aereo dall’Italia a Santiago del Cile?
Francesco Capezzuoli: Per calcolare le emissioni dei propri viaggi in aereo, esistono molti strumenti online direttamente fruibili dagli utenti che adottano metodologie di calcolo differenti. Personalmente utilizzo quello della ICAO (International Civil Aviation Organisation), un’agenzia ONU con sede a Montréal (Canada).
Ad esempio, se volassi da Roma per partecipare alla prossima COP25, che si terrà a Santiago del Cile il prossimo dicembre, emetterei 1.254,4 kg di CO2 (contando andata e ritorno). Una quantità emessa normalmente in due mesi da un cittadino italiano medio (considerate che se tutti emettessero tanta CO2 quanto un italiano medio avremmo bisogno di 3 pianeti per essere sostenibili!).
P&S: In rete si leggono statistiche riguardo al contributo dei viaggi aerei alle emissioni totali di CO2, sembra essere poca cosa, fra il 2 e il 3% del totale, perché è importante minimizzare l’uso dell’aereo?
FC: Sì, è vero. Ad esempio, le emissioni dirette dovute all’aviazione ammontano al 3% delle emissioni climalteranti europee. Tuttavia, le emissioni dovute all’aviazione civile cresceranno molto più rapidamente rispetto ad altre fonti. Al 2020, le emissioni globali relative all’aviazione aumenteranno del 70% rispetto ai livelli del 2005 e la stessa ICAO prevede che al 2040 triplicheranno almeno.
Altro punto: le emissioni rilasciate ad alta quota contribuiscono in maggior misura a quelle rilasciate “a terra”. Stando al meteorologo Luca Mercalli, questo impatto è misurabile al 5% del contributo al riscaldamento globale.
Infine c’è un dato secondo me molto significativo, circa l’85% della popolazione mondiale non ha mai viaggiato in aereo. Questo sembra essere un esempio perfetto di come il 15% più ricco della popolazione impatti sul mondo in maniera molto più che proporzionale rispetto alla sua numerosità.
P&S: Visto che in tanti andranno in vacanza nelle prossime settimane, puoi dirci qual è il modo meno impattante di spostarsi?
FC: Come abbiamo visto, i passeggeri e i voli dell’aviazione civile cresceranno ogni anno sempre più, occorre perciò fermarci un attimo e riflettere. È proprio indispensabile imbarcarsi su un aereo per godersi le vacanze? Esistono alternative molto meno inquinanti che permettono di raggiungere luoghi bellissimi, spesso vicino a noi ma completamente ignorati.
Questo grafico della EEA mostra l’impatto in termini di CO2 di un km percorso da un passeggero con vari mezzi di trasporto, e l’aereo risulta essere il mezzo di gran lunga più inquinante anche in termini climalteranti rispetto agli altri: il settore emette da 14 a 40 volte più CO2 rispetto ai treni, per chilometro percorso!
Purtroppo il mercato ci tenta continuamente con un’offerta di voli low cost continentali ed extracontinentali che permettono di visitare luoghi sì meravigliosi ma che in futuro non saranno più come li conosciamo (uno su tutti: la barriera corallina). È paradossale che esista già una “corsa” per visitare bellezze destinate a scomparire nei prossimi decenni, e che questa corsa sia parte del problema.
P&S: Spesso si legge della possibilità di compensare le emissioni degli spostamenti in aereo. Di cosa si tratta?
FC: Il meccanismo funziona così:
1 – calcolo le emissioni (in t o kg di CO2) dovute ai miei viaggi;
2 – acquisto di tasca mia qualcosa che permette di assorbire o di evitare l’emissione di una quantità di CO2 almeno pari a quella che ho emesso.
Che siano crediti di carbonio certificati o piantumazioni di nuovi alberi il risultato dovrà essere la compensazione delle emissioni.
P&S: Una delle critiche che viene fatta a chi vola pagando una compensazione per la CO2 emessa è che questo meccanismo sia un po’ come la compravendita delle indulgenze nel XVI secolo. I ricchi fanno scelte sbagliate e poi, pagando, si lavano la coscienza. In questo modo i comportamenti impattanti sono incentivati e non ridotti. Sei d’accordo?
FC: La compensazione non è di certo la soluzione, viviamo in un mondo finito e ad un certo punto lo spazio per compensare finirà. Senz’altro aiuta a guadagnare tempo ed a gestire le emissioni di viaggi difficili da evitare, come quelli di lavoro.
La compensazione viene usata da tantissimi operatori economici in tutto il mondo, anche multinazionali, e sono nate attività che fanno impresa con le attività di compensazione e dei crediti di carbonio (come le fiorentine Treedom e Carbon Sink).
P&S: Personalmente, sapendo come vengono usati molti dei soldi donati per progetti di sviluppo, rimane il dubbio che questa cifra non serva realmente a compensare le emissioni. Come posso essere sicuro dell’utilizzo dei soldi che verso?
FC: È un dubbio legittimo. Il consiglio è di rivolgersi a operatori che garantiscono autorevolezza e soprattutto tracciabilità delle azioni a cui il compensatore, ovvero il pagante, contribuisce. Ecco tre consigli:
P&S: Il sito www.co2.myclimate.org mi dice che se volo da Firenze a Parigi emetto 460 kg di CO2 e che posso compensare versando 10€. Questo numero ci stupisce, mi sembra molto basso, se davvero è così economico compensare le nostre emissioni di CO2 perché le emissioni continuano ad aumentare?
FC: Il motivo per cui il costo della compensazione è così basso è che ad oggi in pochi si pogono il problema di compensare. Questo fa si che esistano molti modi di farlo a basso costo. Piantare degli alberi in zone meno ricche del mondo, per esempio. Ma se tutti compensassimo per tutta la CO2 che emettiamo allora non sarebbe facile trovare un modo economico per compensare. I costi aumenterebbero molto.
Al contempo la popolazione e il PIL, in gran parte dei paesi in via di sviluppo in Africa e in Asia, sono destinati ad aumentare nei prossimi decenni con tutto ciò che questo comporta: più viaggi, più aerei per trasportare passeggeri e quindi più emissioni. Al tempo stesso bisogna riflettere sul fatto che il carburante degli aerei non rientra nell’Accordo di Parigi sul clima e, per giunta, grazie a un accordo del 1944 (Convenzione di Chicago) non è tassabile, e anzi il trasporto aereo beneficia di importanti incentivi che rendono l’uso di tale mezzo particolarmente conveniente. Un volo low cost costa mediamente 3 – 4 centesimi di euro al km, contro i 10 di un treno ad alta velocità e i 25 di un’automobile.
In uno studio condotto dal governo olandese, si afferma che una misura fiscale atta a tassare il kerosene degli aeromobili (ca 0,33 €/litro di carburante) ridurrebbe del 10-11% le emissioni di CO2 dell’aviazione senza impattare negativamente sul mercato del lavoro del settore.
P&S: Grazie e buone vacanze!
Come tutti i paesi europei, anche in Italia entro il prossimo 3 luglio deve essere recepita la Direttiva Europea SUP (Single Use Plastics), contro i prodotti in plastica monouso, pena una procedura di infrazione con tutti i costi connessi.
Nonostante il percorso di approvazione della Direttiva duri da tempo, ci troviamo alle porte di questa scadenza con resistenze dell’ultimo minuto, pressioni e richieste di deroghe e modifiche.
Rivolgiamo quindi 5 domande al Ministro Cingolani perché chiarisca e porti l’Italia nella giusta direzione di ridurre davvero la plastica e le criticità ambientali che la sua produzione e uso comporta.
La mattina del 3 maggio Luana, operaia tessile, termina la sua vita per un incidente mentre lavorava all’orditoio, macchinario utilizzato per distribuire i filati e comporre così il tessuto nella successiva fase di tessitura.
Luana aveva 22 anni, un figlio piccolo, tanti sogni che cercava di portare avanti grazie al lavoro che svolgeva, da circa un anno, nel distretto tessile della provincia di Prato, il più grande d’Europa. Casi come questo “fanno notizia” ma il problema delle morti sul lavoro è quotidiano, anche in settori, come quello della moda che continua a crescere a ritmi importanti e che, soprattutto nell’est asiatico, presenta condizioni di salute e sicurezza e rispetto dei diritti sociali fortemente critiche.
Tutto ciò suscita in noi delle domande, tentativi di capire perché siamo arrivati a questo punto e come se ne può uscire. Abbiamo chiesto qualche impressione a Francesca Rulli, CEO di Process Factory e founder di 4sustainability, marchio che attesta il rispetto di standard di sostenibilità ambientale e sociale nella filiera moda.
Ecoló: Ciao Francesca, grazie per la tua disponibilità. La notizia della morte di Luana d’Orazio ha sconvolto un po’ tutti. Al di là del giudizio del caso specifico che verrà accertato e che non spetta a noi dare, possiamo pensare che sia stata una fatalità? Quanto è diffuso il problema del rispetto delle condizioni di sicurezza nelle lavorazioni tessili?
Francesca Rulli: Per nostra fortuna, la normativa italiana – il Decreto 81/2008, in particolare – è largamente applicata e rispettata. L’aspetto che ci preoccupa è più che altro quello culturale. La norma è presidiata infatti in modo diverso a seconda delle professionalità presenti in azienda: esistono aziende dalla grande responsabilità in cui le nomine sono forti, altamente professionali e quindi anche l’attenzione dell’imprenditore e dei suoi dipendenti sono elevate, perché si investe in formazione e controlli. C’è ancora una quota di aziende, però, in cui questo tema della sicurezza è visto ancora e soltanto sotto il profilo della compliance: metto in ordine “le carte” per sentirmi a posto sul piano formale, ma non investo sulla cultura, sulla formazione, sui controlli, sulle responsabilità… In questi casi, può capitare ciò che si vorrebbe non capitasse mai e che invece è capitato di recente in alcune aziende del settore tessile, come hanno riportato i media. La sfida è riuscire a far in modo che le regole esistenti siano vissute in azienda non come meri adempimenti di legge, ma come una responsabilità e un impegno: in gioco, c’è la sicurezza dei lavoratori.
Ecoló: Quali possono essere le soluzioni per evitare situazioni come queste? Servono più controlli? Considerato anche che le due vittime che ci sono state nel distretto tessile pratese nei primi mesi dell’anno erano poco più che ventenni, serve investire di più nella formazione dei lavoratori?
FR: Io direi proprio di sì, la formazione è fondamentale e i controlli lo sono altrettanto. C’è da diffondere una cultura e un’attenzione a queste tematiche che passa proprio dai comportamenti delle persone, dai controlli dei supervisori o dei capi reparto, dagli aggiornamenti normativi, dalla verifica di macchinari… Tutto ha spesso a che fare con i ritmi di lavoro a cui sono sottoposte le persone, ritmi che portano spesso a trascurare alcuni fattori non irrilevanti di rischi. “Ho sempre fatto così”, “Tanto, cosa vuoi che succeda?”… E la tragedia è lì, in agguato.
Ecoló: Le aziende della filiera sono spesso sotto forte pressione per la richiesta dei grandi marchi di ottenere bassi costi di produzione e lavorazione, questo influenza la capacità di garantire il rispetto delle condizioni di sicurezza e di impatto ambientale per le piccole aziende del settore?
FR: Non possiamo generalizzare perché dipende da committente a committente, ma in linea di massima direi di sì. Ci sono marchi fortemente impegnati anche nel controllo delle loro filiere, ma molti altri che, guardando solo alla leva del profitto e quindi all’abbattimento del prezzo, sottopongono le filiere a una pressione veramente importante. Questo non giustifica, naturalmente, la ricerca del risparmio in laddove c’è in gioco la sicurezza delle persone o la tutela dell’ambiente, ma certo, può essere una causa. I livelli di responsabilità, in questo caso, sono due: del cliente che tira al minimo il prezzo di produzione, ma anche quello dell’azienda che pur di prendere l’ordine e mantenere il livello produttivo prova a risparmiare su temi che sono invece fondamentali per la sostenibilità e il buon andamento del business, nel rispetto dell’uomo e dell’ambiente. È un tema su cui c’è un’attenzione crescente… Noi per primi ci spendiamo ogni giorno per aiutare le imprese della filiera a sistematizzare i controlli, le procedure, gli strumenti più idonei a performare bene nel rispetto dell’ambiente e delle persone. E a crescere integrando etica e business, che poi significa adottare un modello di sviluppo autenticamente sostenibile. Tutto questo si scontra ancora con logiche di mercato fortemente orientate al profitto. Noi spingiamo perché tale paradigma cambi velocemente e la distribuzione del valore, piano piano, cominci a toccare tutte le filiere.
Ecoló: Quello che vediamo in Italia ci tocca da vicino, ma sappiamo bene che in altri paesi del mondo le condizioni di lavoro sono anche peggiori. Cosa ci puoi dire su questo e secondo te il settore come sta affrontando queste problematiche?
FR: Come dicevo, l’Italia è tra le realtà più avanzate sul piano normativo – addirittura un altro pianeta, se il confronto lo facciamo con i paesi in via di sviluppo dove mancano le condizioni minime per parlare di responsabilità sociale, di diritti umani, di uguaglianza, di sicurezza… e quindi anche di macchinari all’avanguardia. Se il tema è poi quello della tutela ambientale, sono tante le aree del mondo in cui il concetto di depurazione o di riduzione delle emissioni in atmosfera si applica solo a poche realtà eccellenti isolate. In Italia no, in Italia il numero di imprese che ha avviato in qualche forma la trasformazione del proprio modello di business verso la sostenibilità – grazie al contesto favorevole, alla lungimiranza dell’imprenditore… – sono sempre più numerose. Ma guai ad abbassare la guardia: ci sono distretti in cui bisogna ancora investire su materie come l’antincendio, la formazione, la cultura dei lavoratori… Resta tanto da fare anche da noi.
Ecoló: Gli standard del commercio internazionale e i requisiti sulle merci possono essere un possibile strumento di controllo? Come mai aspetti di sostenibilità ambientale e sociale non fanno parte di questi standard?
FR: Non siamo arrivati ancora a questo punto, ma ci sono dei segnali incoraggianti. È in corso di definizione, infatti, la due diligence legislation[1], votata a marzo scorso dal Parlamento Europeo e relativa alla due diligence delle imprese in materia di diritti umani e ambiente. Lanciata un anno fa dal commissario UE della giustizia Didier Reynders, l’iniziativa comporterà l’obbligo per i paesi membri di dare evidenza della trasparenza delle filiere, arrivando a monitorarne i requisiti ambientali e sociali, appunto, il rispetto dei diritti umani, della sicurezza, dell’impatto ambientale.
Questo sul fronte normativo. Di iniziative volontarie da parte di molti grandi brand sulle proprie filiere globali possiamo già contarne diverse da anni, ma è chiaro che non potremo assistere a un vero cambio sistemico finché non ci sarà una legge uguale per tutti. La due diligence legislation potrebbe essere un fattore non trascurabile di cambiamento proprio perché interesserà le filiere globali: se l’azienda ha sede in Europa ma si approvvigiona ovunque, nel mondo, dovrà dare evidenza del rispetto dei requisiti ambientali e sociali della filiera da cui si approvvigiona.
Ecoló: Per concludere, cosa è 4sustainability e come, con le vostre attività, cercate di portare quel cambiamento di cui ci hai parlato? Quale prospettiva vedi per i prossimi anni?
FR: 4sustainability è un protocollo, un sistema di implementazione di filiera basato su sei dimensioni di sostenibilità e concepito per supportare l’impresa nella realizzazione di un modello di business sostenibile e quindi nella verifica di tutti i requisiti ambientali e sociali necessari per poterlo definire tale. Partendo da una fotografia iniziale, il protocollo consente di mettere a punto un serie di procedure, regole di implementazione e misurazione relative all’impatto sociale e ambientale del proprio sistema produttivo per dimostrare un miglioramento continuo nel tempo. Al momento, con nostra grande soddisfazione, vediamo che in Italia sono tantissime le aziende che hanno voglia di scommettere su questo e si stanno mettendo in discussione, aziende che, partendo da performance ambientali e sociali già molto buone, vogliono continuare a crescere, a innovare, a cercare soluzioni per ridurre il proprio impatto ambientale e migliorare le condizioni sociali. Dal nostro osservatorio – principalmente italiano, ma con numeri interessanti anche a livello globale – vediamo che questo trend è già in essere e che alcuni grandi nomi della moda stanno facendo da apripista. Pochi, purtroppo, ma volenterosi! Mi riferisco per lo più a gruppi internazionali che hanno dedicato budget e risorse importanti per trainare e formare le filiere mondo, sviluppando sistemi di controllo e in alcuni casi anche di riconoscimento. Noi, con loro, ci diamo da fare sulla filiera perché questo si realizzi e sia monitorato e misurato costantemente, con un sistema trasparente di condivisione dei risultati a marchio 4sustainability.
Un’ultima considerazione voglio farla sul tema dell’educazione alla responsabilità, che negli ultimi 30-40 anni ci siamo persi, troppo occupati a guardare solo al profitto. Fare sostenibilità – evitando incidenti come quello drammatico in cui ha perso la vita Luana – significa invece recuperare i principi della responsabilità: nelle famiglie, nella scuola, in azienda… L’etica nel business nasce da qui, è ciò che porta le imprese (e gli individui) a immaginare un modello operativo diverso che si rivela anche, peraltro, il più efficace sul piano delle performance.
[1] http://www.vita.it/it/article/2021/04/27/governance-societaria-sostenibile-un-passo-avanti/159140/