La bicicletta è il mezzo di trasporto su cui puntare per i prossimi cinque anni e sul quale gettare le basi per un futuro sostenibile.
La bici non è solo un mezzo di trasporto attivo, che fa bene all’ecosistema e alla salute di chi lo utilizza, è anche il sistema più rapido per raggiungere destinazioni entro il raggio di 5 km!
La distanza media degli spostamenti interni al comune, a differenza di quanto accade nelle città limitrofe di Firenze e Prato, è inferiore ai 5 km. I tragitti sono per la maggior parte pianeggianti e la rete di piste ciclabili protette è ormai piuttosto estesa.
Sesto Fiorentino ha perciò tutte le qualità per favorire una modalità di trasporto dolce come la bicicletta, destinata ad essere potenziata sul territorio della Piana con il progetto della SuperStrada Ciclabile FI-PO, infrastruttura che raggiungerà Sesto Fiorentino attraverso Via delle Due case fino alla pista su Via Pasolini, già collegata dalla attuale amministrazione al confine con il Comune di Firenze. La struttura della rete ciclabile prevede inoltre un ulteriore connessione con Firenze tramite il tratto che costeggia l’Aeroporto, attraversa il quartiere di Peretola e giunge infine al Ponte all’Indiano, cioè al Parco delle Cascine.
La principale rete ciclabile di Sesto, rappresentata in figura, è caratterizzata da un grande anello attorno al centro Storico che si interconnette alle direttrici su Viale dei Mille e Via Pasolini. La rete è così collegata a quella proveniente dal Comune di Firenze, unendo sul proprio percorso punti nevralgici del territorio come il Polo Scientifico, la futura sede del Liceo Scientifico Agnoletti ed i centri commerciali adiacenti.
La rete delle piste sul nostro territorio comunale
Si segnala che il Comune di Sesto Fiorentino ha partecipato al bando “Modalità per la progettazione degli interventi di riforestazione” con un progetto che prevede al suo interno la realizzazione di un nuovo tratto di pista ciclabile che, in caso di aggiudicazione, collegherebbe la stazione ferroviaria all’area industriale di Viale Togliatti, completando una nuova direttrice dell’anello.
Siamo di fronte ad una buona situazione di partenza, sia in merito alle azioni portate avanti dell’attuale amministrazione, sia da un punto di vista infrastrutturale. Nonostante ciò Ecoló per Sesto Fiorentino ha realizzato uno studio sulla potenziale mobilità ciclistica, analizzando il territorio e confrontandosi con altre associazioni, in particolare con SestoInBici, la sezione locale di FIAB Firenze Ciclabile. Sono stati individuati i seguenti punti di intervento e miglioramento della ciclabilità sestese:
Favorire l’uso della bici non passa solo attraverso la creazione di piste dedicate. Una città in cui ci si possa muovere in sicurezza in bici e a piedi è anche una città dove le automobili non circolano in alcune zone, pedonalizzate, e circolano lentamente in altre. La realizzazione di “zone 30” è sicuramente un obiettivo a cui mirare anche per Sesto Fiorentino, prevedendo delle sperimentazioni già ad iniziare dai primi mesi della prossima consiliatura.
Infine l’arrivo della tramvia, che sembra ormai concretizzarsi, ridurrà notevolmente le dimensioni della sede stradale, tale impatto non dovrà provocare l’eliminazione di collegamenti ciclabili (Viale dei Mille) già oggi strategici per servire il Polo Scientifico, la zona industriale dell’Osmannoro ed il collegamento con Firenze tramite Peretola e le Cascine, oltre alla futura Superstrada Ciclabile FI-PO. Quest’ultima sarà fondamentale per incentiuvare gli spostamenti intercomunali in bicicletta fra Sesto e Firenze.
Ci sono infine azioni immateriali ma importanti che l’amministrazione si dovrà impegnare ad assumere. È importante che vi sia, all’interno dell’organico del Comune, una figura di riferimento formata sulla mobilità ciclistica, che possa favorire e coordinare gli interventi che verranno progettati nei prossimi cinque anni. L’esperienza di alcune città in Italia e all’estero, come quella di Nantes, mostrano come possa essere previsto un ufficio dedicato.
Un piccolo sforzo ulteriore dovrà essere fatto anche sul lato della comunicazione. Occorre tenere a mente che ogni auto che viene sostituita con una bici si traduce in una riduzione di costo per la comunità (meno incidenti, meno malattie, meno ingorghi). Per questo motivo occorrerà usare tutti i mezzi disponibili sia per la promozione dell’uso della bicicletta in ambito urbano, sia per la valorizzazione della infrastruttura creata. Possono essere interventi proficui l’apposizione di cartellonistica di segnalazione aggiuntiva, la condivisione di materiale informativo sul sito del Comune e la messa a punto di progetti con scuole, università, associazioni e imprese.
Complice la crisi climatica che stiamo vivendo e la necessità di ridurre drasticamente l’uso dei combustibili fossili si parla sempre più di transizione energetica. Per fare ciò ci sono studi e articoli che teorizzano la possibilità di arrivare a una produzione energetica che sia al 100% derivante da fonti rinnovabili entro il 2050 (note 1 e 2).
L’obiettivo di andare verso le rinnovabili trova spesso convergenza. Diventa spesso tema di discussione e confronto invece quale debba essere il ruolo del gas naturale in questo percorso, con divisioni tra chi sostiene che per una transizione radicale debba essere abbandonato fin da oggi e chi invece ritiene necessario continuare a investirci, essendo il “meno” inquinante tra i combustibili fossili, con tecnologie consolidate e necessario proprio per portare avanti la transizione verso fonti più pulite.
Da questo dibattito emerge anche una riflessione sul ruolo dello Stato in tale percorso, considerando, tra le altre cose, la presenza di azioni pubbliche per circa il 30% in ENI, attiva nella ricerca e sfruttamento di idrocarburi, come è stato messo in evidenza da Greenpeace e Re:Common in merito a un progetto di estrazione e liquefazione di gas naturale nell’Artico (nota 3).
Per provare ad entrare nel merito della questione ne parliamo con Ivan Manzo, giornalista ambientale facente parte del Segretariato di ASviS.
Ecoló: Ciao Ivan, intanto ti ringraziamo per la tua disponibilità a discutere insieme di un tema cruciale e dibattuto come questo. Vuoi raccontarci più in generale di cosa ti occupi?
Ivan Manzo: Dopo essermi laureato in economia dell’ambiente e dello sviluppo all’Università di Siena, spinto dalle mie passioni sui temi legati allo sviluppo sostenibile sono approdato nel mondo dell’informazione scientifica e ambientale. Attualmente faccio parte del Segretariato ASviS, lavoro sia in redazione e sia con i Gruppi di Lavoro sull’Agenda 2030 (sono referente del GdL sugli Obiettivi di sviluppo sostenibile 6-14-15, rispettivamente “Acqua pulita e servizi igienico-sanitari”, “Vita sott’acqua” e “Vita sulla Terra”), e collaboro con una serie di testate tra cui Giornalisti nell’Erba, Ecofuturo e Tekneco.
Ecoló: A livello generale, considerando la necessità di una transizione energetica verso le rinnovabili, quale può essere secondo te un motivo per cui il gas naturale può essere utile e come.
IM: In una fase di transizione, come quella che stiamo vivendo, abbiamo bisogno di cambiare nel modo più veloce possibile il mix energetico a disposizione. Nonostante le tante pubblicità green che ci ‘bombardano’ quotidianamente attraverso i media, bisogna ricordare che ancora oggi circa l’80% dell’energia prodotta nel mondo proviene da fonti fossili. Un dato che parla da solo, e che ci fa capire la grandezza della sfida a cui siamo chiamati. Pur essendo anche il gas un combustibile fossile, in fase di combustione questo ha un impatto minore sul clima rispetto a carbone, che resta la forma più ‘sporca’ per produrre energia, e petrolio. Motivo per cui il gas deve essere utilizzato come elemento in grado di accompagnare la crescita esponenziale delle rinnovabili. Se invece pensiamo di farne la fonte energetica del futuro, stiamo di nuovo sbagliando tutto e, in un momento così delicato dove la comunità scientifica ribadisce che la finestra dell’azione per la lotta al cambiamento climatico si sta chiudendo, non possiamo permettercelo.
Ecoló: E quale invece un motivo per cui il gas naturale deve essere abbandonato il prima possibile e come farlo.
IM: Proprio per il motivo citato in precedenza. Stiamo parlando comunque di una fonte fossile che, sebbene in fase di combustione produca meno CO2 di carbone e petrolio, ha grossi impatti sul sistema climatico. Mi spiego. Prendiamo il metano, in genere questo per arrivare nelle nostre case deve essere prima trivellato o recuperato attraverso l’attività di “fracking”, poi spostato lungo i gasdotti, trasformato in liquido, traportato magari su una nave, rimesso in un gasdotto, ecc… Parliamo di un lungo processo. Durante questo processo si generano diverse perdite che, di fatto, liberano il gas in atmosfera. Ecco, attualmente il metano è meno presente della CO2 in atmosfera, ma dobbiamo ricordare che una molecola di metano (CH4) ha un “potere climalterante”, nel breve termine, di 72 volte maggiore della molecola di CO2.
Ecoló: Date le implicazioni del tema a livello globale, come vedi la posizione dell’Unione Europea in merito? Nel Green New Deal come è considerato il ruolo del gas?
IM: L’Unione Europea prima dell’esplosione della pandemia, grazie anche alla nuova Commissione guidata da Ursula Von der Leyen, ha puntato forte sul Green New Deal. Una decisione confermata anche attraverso la creazione del piano di ripresa post Covid-19. Basti pensare che il fondo Next Generation EU intende destinare il 37% delle risorse su transizione energetica ed ecologica. Obiettivo dichiarato dell’Unione è quello di essere neutrale da un punto di vista climatico al 2050, dove per neutralità si intende che il totale delle emissioni gas serra prodotte dal Continente saranno completamente assorbite dagli ecosistemi. Per questo si fa riferimento a “emissioni nette zero”. Sulla base dei piani attuali l’Europa, però, non è sulla buona strada. Secondo infatti uno scenario costruito dall’IRENA (International Renewable Energy Agency), per centrare l’obiettivo al 2050 l’energia rinnovabile deve raggiungere il 71% dell’offerta totale di energia, mentre il sistema elettrico deve essere alimentato per l’86% da fonti rinnovabili. Nel dibattito europeo il gas è diventato centrale ma non dobbiamo commettere l’errore di creare infrastrutture energetiche che per essere alimentate necessitano di un combustibile fossile, infrastrutture che poi dobbiamo tenerci per diversi anni e che rischiano di minare alla base l’ambizioso obiettivo europeo. Per esempio, negli ultimi tempi cresce il dibattito sul ruolo dell’idrogeno, tanto che molti analisti dicono che l’utilizzo di questa fonte esploderà nei prossimi dieci anni, anche perché incentivata dalle politiche europee. Ma di che tipo di idrogeno stiamo parlando? Perché tutt’ora nel mondo la quasi totalità dell’idrogeno, circa il 90%, viene estratta da fonti fossili. Per essere coerente l’Europa dovrà quindi puntare sulla crescita dell’idrogeno “verde”, lo è per esempio quello estratto da rifiuti, tenendo ben presente però che la forte espansione delle rinnovabili è la vera soluzione da mettere in campo.
Ecoló: In Italia invece, qual è al momento il ruolo dello Stato nella gestione della transizione energetica, alla luce anche del Piano Nazionale Energia e Clima?
IM: Il ruolo dello Stato è determinante per incentivare e accelerare la transizione energetica. Non possiamo, per esempio, pretendere di utilizzare i fondi europei per la transizione e continuare ogni anno a spendere 19 miliardi di euro l’anno in sussidi dannosi per l’ambiente. È un controsenso che va eliminato dal bilancio dello Stato. Il Piano Nazionale Energia e Clima (PNIEC) è uno strumento fondamentale per guidare il processo di decarbonizzazione ed è una delle urgenze di cui questo governo dovrebbe occuparsi. Il nostro PNIEC non è infatti in linea con quanto deciso dall’Europa, e cioè il taglio del 55% delle emissioni climalteranti entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990. Inoltre negli ultimi tempi il Parlamento europeo si è espresso per un taglio al 60%, l’obiettivo Ue potrebbe quindi diventare ancor più ambizioso. Inoltre, Governo e Parlamento italiano devono approvare il prima possibile anche il Piano Nazionale di Adattamento al Cambiamento Climatico per mettere in sicurezza i territori martoriati dagli effetti della crisi climatica, che ha un sempre maggiore impatto sugli ecosistemi e sul nostro benessere. Abbiamo bisogno di coerenza tra politiche, e di una governance che si ispiri al concetto di resilienza.
Ecoló: A livello statale, negli ultimi anni, ci sono molte critiche anche in progetti infrastrutturali legati al gas naturale, come è stato per il TAP o più di recente per la metanizzazione in Sardegna. Cosa ne pensi?
IM: Un po’ sulla falsariga di quanto detto fino a ora: il TAP è strategico per la sicurezza energetica nazionale ed europea e per un futuro rinnovabile? È questa la domanda a cui bisogna dare risposta, senza perdere l’obiettivo reale che è il contrasto al cambiamento climatico e il mantenimento dell’aumento medio della temperatura terrestre entro i 2°C, limite consigliato dalla comunità scientifica per evitare i più gravi disastri imposti dalla crisi climatica. Quello che vedo io è che ci sono un po’ troppi “TAP” in giro per il mondo da costruire.
Ecoló: Ci rendiamo conto che il tema è complesso e riunisce aspetti tecnici, finanziari, ambientali e non solo. Forse l’aspetto cardine da cui partire però dovrebbe essere quello strategico, partendo dal fatto che come paese siamo fortemente dipendenti dall’estero per il nostro approvvigionamento energetico e, in qualche modo, il ruolo statale in ENI è oggi un fattore di competitività. Questo rischia di determinare un comportamento di ENI a due facce: immagine green e sviluppo di rinnovabili in Italia e continua crescita negli idrocarburi all’estero per mantenere redditività ma, se proviamo a guardare più avanti, con una visione di lungo termine, una transizione energetica che abbandoni completamente i combustibili fossili potrebbe diventare essa stessa un fattore di competitività per il futuro?
IM: La mia personale opinione è che se ENI vuole essere una risorsa per questo Paese deve operare una rapida e totale riconversione di tutti i suoi asset produttivi. Il tempo stringe, non si può continuare a basare la stragrande maggioranza della propria produzione sui combustibili fossili. Ricordo che l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), l’ente scientifico di supporto alla Conferenza ONU sul cambiamento climatico, in tal senso è stato chiaro: per vincere la sfida climatica bisogna lasciare l’80% dei combustibili fossili conosciuti sottoterra. E lo diceva in un suo rapporto nel 2012, quindi oggi la percentuale andrebbe rivista al rialzo. Il tempo è scaduto, l’azione non è più rimandabile.
Ecoló: In un’ottica di sviluppo sostenibile, le grandi aziende sono sempre più soggette a rendicontare le loro attività e i risultati raggiunti attraverso indicatori non finanziari, quali i parametri ESG (Environmental, Social and Governance). Come possono coniugarsi gli investimenti in progetti legati al gas naturale rispetto a percorsi di miglioramento secondo le nuove metriche di sostenibilità e in quali altri ambiti energetici si potrebbe invece investire?
IM: Se i progetti legati al gas sono quelli che contribuiscono alla decentralizzazione del sistema energetico e sono a impatto zero, allora si sposano perfettamente con questi criteri. Facciamo un altro esempio. Se l’idrogeno utilizzato, che quando viene bruciato emette solo vapore acqueo, è prodotto da elettrolisi dell’acqua o da rifiuti l’intero processo è privo di emissioni, e dunque di sicuro rappresenta un aiuto in termini ambientali. In generale, l’obbligo di rendicontazione non finanziaria per le imprese rappresenta un importante passo avanti per la sostenibilità aziendale, ma l’Italia ha sbagliato in passato a non estendere questo obbligo anche alle PMI. Un errore che si potrebbe correggere già nella prossima Legge di Bilancio. Perché parliamo di uno strumento che guida e aiuta le imprese a essere più virtuose, e perché nel corso degli ultimi anni si è capito che la sostenibilità non è un costo ma rappresenta un forte elemento di competitività. A conferma di ciò basta guardare i dati ISTAT. Secondo un’indagine del 2019 emerge che, a parità di condizioni, l’investimento in sostenibilità si traduce in un aumento di produttività del 15% per le aziende di grandissime dimensioni, del 10% per quelle grandi e del 5% per quelle medie. Inoltre, sempre l’Istat, ha certificato recentemente che le imprese che avevano investito in sostenibilità sono anche ripartite meglio dopo il lockdown.
Ecoló: Grazie del tuo tempo a presto!
Siamo con Yamuna Giambastiani, giovane fiorentino, co-fondatore di Forest Sharing, un’innovativa piattaforma che si occupa di gestione condivisa di terreni agricoli e boschivi.
Nelle strategie di lotta ai cambiamenti climatici e all’impatto antropico sul pianeta, il contributo di boschi e foreste è e sarà fondamentale. Se Next Generation EU destina il 37% dei fondi alla transizione ecologica, in che modo queste risorse possono essere convogliate, coinvolgendo settore pubblico e privato, in una rinascita verde dell’Europa che parta proprio dal tessuto forestale e boschivo?
La transizione ecologica ha bisogno di una solida base culturale, che oggi manca in seguito all’allontanamento dalle zone rurali e montane. In città si vive molto lontano dai processi naturali e quindi anche la loro comprensione è più difficoltosa. Il primo passo è culturale. Come è importare sapere da dove arriva l’uovo o la zucchina che mangiamo, è importante sapere come viene prodotta la corrente elettrica che ci ricarica lo smartphone, o l’energia che riscalda le nostre case d’inverno. Questa cultura deve essere a disposizione di tutti e non solo degli esperti, in quanto il comportamento di tutti incide moltissimo sull’uso delle risorse, il riciclo, gli sprechi.
Questo riguarda anche i boschi, anzi soprattutto i boschi! Oggi chi è proprietario di un bosco, crede di avere poco in mano, qualcosa che gli crea preoccupazione per i rischi frane, incendio, caduta rami, etc…invece è proprietario di qualcosa che protegge le valli e le città dalle alluvioni, purifica l’acqua, genera ossigeno, regola la CO2 atmosferica, e tanti altri benefici chiamati servizi ecosistemici.
Nel passato questi aspetti erano più conosciuti, o meglio erano vissuti dalle persone. Oggi i processi naturali sono (un po’) più chiari a livello scientifico, ma ben poco vissuti. Per me, la transizione ecologica dovrà passare dall’unione di questi due aspetti: conoscere e vivere i benefici delle nostre foreste (quindi delle risorse naturali) anche grazie all’uso di processi innovativi e tecnologici. Questo non vuole dire che dobbiamo fare le valigie dalle città e tornare a vivere in montagna, ma riportare un’economia sostenibile nelle nostre montagne, a beneficio delle nostre città. Le risorse che l’Europa si prepara a investire nella rinascita verde dovranno passare dalla crescita culturale dei cittadini, al fine di innescare un vero e proprio interesse verso la cura del territorio. Se tutto funzionerà, troveremo la sostenibilità dei processi, quindi senza bisogno di investimenti a fondo perduto per il mantenimento del territorio, ma un sistema in equilibrio.
Esattamente come possiamo spiegare l’idea del Forest Sharing ai “non addetti ai lavori”?
Forest Sharing è un nuovo metodo di gestire i boschi: non guardare il singolo bosco, ma assumere una posizione più alta e guardare l’intera foresta che questi boschi compongono. La foresta essendo un sistema naturale complesso non può essere scomposta in piccole unità omogenee, semplicemente perché omogenee non sarebbero. Ogni porzione di territorio ha le sue caratteristiche, pertanto dovrò tenere di conto di molti fattori, nel momento in cui vado a pianificare degli interventi e delle attività antropiche. In questo modo potrò bilanciare al meglio l’impatto e tutelare le porzioni o gli aspetti più suscettibili. Oggi vediamo le proprietà molto frammentate e piccole, e gli interventi sono scollegati tra di loro, spesso progettati su un orizzonte temporale di brevissimo tempo. Il tutto porta ad un impoverimento della risorsa, un aumento di costi, l’assenza di programmazione e prospettiva della filiera.
Mi potresti dire: “non sarebbe meglio non avere affatto un impatto, quindi ridurre a zero le attività e gli interventi?”
Non c’è alcun dubbio che l’impatto minore è “il non intervento”, allontanarsi. Ma sarebbe possibile? Possiamo fare a meno della risorsa legno (e prodotti secondari)?
Inoltre, dobbiamo considerare che il nostro territorio è altamente antropizzato, non c’è rimasto niente di “naturale”. L’attuale brusco cambio di tendenza, lasciando molti luoghi abbandonati, quindi alla libera evoluzione, porta ad eventi molto distruttivi, in quanto la natura non sostiene ciò che è fatto dall’uomo, ma distrugge e ricomincia. Quindi lasciare tutto alla libera evoluzione non è sostenibile e potrebbe avere un impatto sull’uomo molto più significativo.
Forest Sharing cerca di risolvere questi problemi. Creare una comunità di proprietari boschivi, gestire in modo unificato le proprietà e condividere i benefici. Chi possiede un bosco protettivo, condivide la capacità del suo bosco nel proteggere la città dalle alluvioni; chi possiede un bosco produttivo, condivide la legna che ne trae, etc. I benefici sono posti sul solito piano, e insieme portano ad un equilibrio “circolare” economico ed ambientale.
La piattaforma facilita l’incontro tra proprietari, eliminando i processi di aggregazione, riunioni, assemblee, etc. Mantiene le volontà dei singoli proprietari (che definiscono come prima atto dell’iscrizione), permette lo scambio di informazioni tra proprietari e aziende e professionisti che lavorano con i boschi.
Inoltre, grazie alle innovazioni sviluppate, è possibile accedere facilmente a sistemi tecnologici per il monitoraggio delle risorse naturali, sistemi di supporto decisionale per la pianificazione, controllo qualità e certificazione forestale.
Come è nata l’idea? Esistono esperienze simili nel mondo?
L’idea è nata da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di scienze forestali dell’Università di Firenze: gli studi e le attività sul campo individuano nella frammentazione e nell’abbandono uno dei principali problemi nel settore forestale italiano. Forest Sharing nasce come uno strumento per provare a risolvere questo problema, per dare alla filiera del settore (proprietari, aziende) la possibilità di mettere in campo quello che la ricerca scientifica (penso alla selvicoltura di precisione) ed il progresso tecnologico (le piattaforme di condivisione ed ingaggio digitale proprie della sharing economy) sono in grado di offrire. Se guardiamo ad altri paesi a noi vicini (Spagna, Francia, Slovenia, Belgio) posso dire che esistono piattaforme con peculiarità simili alla nostra, che puntano a risolvere più o meno le stesse problematiche: quello che rende Forest Sharing un po’ diversa è il suo essere potenzialmente replicabile ovunque le condizioni di mercato ed ambientali lo permettano, tanto è vero che sono allo studio dei progetti di “personalizzazione” di questo strumento in Spagna e Croazia.
Il vostro progetto ha già ricevuto alcuni riconoscimenti a livello europeo, ed in Italia siete stati premiati da Legambiente e Programme for Endorsement of Forest Certification schemes come il progetto Comunità Forestali Sostenibili 2020. Potresti aiutarci a capire in che modo il Forest Sharing si possa inserire in un’economia circolare, aiuti ed incentivi l’ecosostenibilità e se sia quantificabile il suo impatto nella lotta ai cambiamenti climatici?
Forest Sharing è uno strumento che lavora secondo le logiche dell’economia circolare, guardando al processo, e non al prodotto; provo a spiegarmi meglio. Uno strumento che metta diversi attori in connessione tra loro intorno ad un progetto comune (la gestione di un bosco, nel nostro caso), rende la filiera circolare: al centro del processo non c’è il possesso del bene che si intende gestire (che è e rimarrà sempre di proprietà dell’utente che decide di aderire a Forest Sharing), bensì il suo utilizzo: questo rende la filiera circolare. Aggiungo che produrre e condividere i dati acquisiti sul campo (fine ultimo della selvicoltura di precisione) è un modo per rendere circolare la conoscenza. Ci tengo ad aggiungere che questo nostro strumento è (lo speriamo) un modo per creare anche in ambito forestale quella filiera corta della quale in ambito agricolo si sente parlare ormai da un bel po’, per fortuna. Avere il bosco sotto casa in stato di abbandono e nello stesso tempo importare legname dall’altro capo d’Europa non è sostenibile né sensato: Forest Sharing vuole contribuire a spezzare questa catena.
Gli standard gestionali di PEFC (ai quali abbiamo fin da subito deciso di aderire) sono il nostro modo per parlare di sostenibilità nella gestione del patrimonio forestale. Esistono degli strumenti che sono stati sviluppati nell’ambito della ricerca universitaria, utili alla misurazione dei servizi ecosistemici di cui parlavo prima, cioè di quanto i nostri boschi siano in grado di portare un beneficio all’ambiente ed alla collettività.
Se volessimo fare qualche esempio circa l’utilizzo che potreste fare di un bosco, privato o pubblico, che vi venisse affidato?
Un proprietario forestale può (ad esempio) rivolgersi a Forest Sharing per effettuare un piano di gestione e manutenzione della viabilità forestale, utile alla creazione di percorsi fruitivi per i turisti o la cittadinanza, o funzionale alla gestione anti incendio (un fuoristrada impiega molto meno tempo ad arrivare sul luogo di incendio, è possibile intervenire più tempestivamente, inoltre inquina un po’ meno di un Canadair….). Quando l’aggregazione di boschi di più proprietari raggiungono un’estensione sufficiente e l’attività in campo sia tecnicamente ed economicamente sostenibile, Forest Sharing stipula un mandato di gestione tramite il quale il proprietario lo autorizza ad agire in suo nome nei confronti dei fornitori coinvolti, in una logica chiavi in mano. Finché, l’estensione non è sufficiente (cosa che molto spesso accade, vista la frammentazione delle proprietà), Forest Sharing “ingaggia” il proprietario nella ricerca e coinvolgimento dei proprietari confinanti, in una logica (anche qui) circolare e condivisa, o comunque si adopera per stimolare la partecipazione.
Altro tema riguarda poi quello delle risorse: se da parte dei proprietari non c’è la possibilità di sostenere finanziariamente le attività in campo, si possono percorrere le strade della progettazione ai fini dell’erogazione dei contributi regionali previsti per il settore (e su questo il team di Forest Sharing può fornire supporto e consulenza, come farebbe uno studio di professionisti “classico”), o in alternativa si può proporre quella che noi chiamiamo la gestione integrata: portare a vocazione produttiva la parte (dei boschi interessati) sufficiente e sostenibile al fine di creare le risorse necessarie alla gestione complessiva prescelta dall’utente; creare risorse da reinvestire nel territorio stesso, a vantaggio della filiera coinvolta. Anche questo crediamo sia un modo per fare economia circolare.
Abbiamo letto di un progetto in particolare che ci ha incuriosito che avete seguito in provincia di Pistoia sulla sistemazione idraulica attraverso l’utilizzo di una specie arborea divenuta infestante in quelle zona. Puoi raccontarci di cosa si è trattato?
Questo è un semplice esempio di una tipologia di progetti che stiamo provando a promuovere, in particolare in provincia di Pistoia e Lucca, abbiamo sottoposto un progetto che riguarda la valorizzazione dei soprassuoli di Robinia, o comunemente conosciuta come Acacia. Questa specie ha caratteristiche ecologiche molto invasive, avvantaggiandosi di aree degradate, in pochi anni riesce a colonizzare vaste aree di territorio, anche con boschi in evoluzione.
La Robinia è una specie esotica, proviene dal Nord America, e come spesso succede, quando si trova in un luogo nuovo prende il sopravvento e domina le altre specie, con una riduzione della biodiversità e l’alterazione degli habitat. La robinia non ha però solo aspetti negativi, in quanto ha un legname molto durevole (pari al castagno), è azotofissatrice, consente la produzione di miele di elevate qualità organolettiche, ha un apparato radicale che contribuisce alla stabilità dei pendii. Questa specie è presente e ci dobbiamo convivere, e da qui l’idea di valorizzarla e gestirla, in modo da contenerla nell’invasione e allo stesso tempo dare la possibilità a questi soprassuoli di esprimere al meglio le proprie funzionalità.
Il progetto di valorizzazione si basa sulla gestione dei soprassuoli al fine di ottenere assortimenti legnosi di maggiore qualità e valore, principalmente pali da lavoro, per realizzare staccionate, recinzioni, ma soprattutto per impieghi in opere di ingegneria naturalistica (strutture per il ripristino e prevenzione dei dissesti idrogeologici), sfruttando al meglio l’elevata durabilità del legname naturale.
Ci sono prospettive anche in ambito piu prettamente urbano per il Forest Sharing? Possiamo pensare che il progetto possa in qualche modo aiutare le amministrazioni comunali ad affrontare problematiche come ad esempio la riduzione dell’inquinamento?
Forest Sharing nasce per combattere la frammentazione e l’abbandono delle proprietà forestali, prima di tutto private ma anche pubbliche: stanno nascendo dei contatti con alcune amministrazioni comunali dell’hinterland fiorentino e non solo, interessate a fare sinergia con noi per coinvolgere la propria cittadinanza in attività di gestione integrata delle proprietà forestali, pubbliche e private.
Abbiamo creato uno strumento che nelle esperienze degli altri paesi europei che ho citato prima è gestito spesso e volentieri in prima persona dal regolatore pubblico: nel nostro piccolo, pensiamo di poter dare un servizio che sia di utilità ed interesse pubblico, oltre che privato. Per quanto riguarda l’ambito urbano, Forest Sharing ha un forte impatto, dovuto alla stretta connessione tra quello che facciamo sui monti e quello che succede a valle (dove troviamo le città). Le alluvioni, oltre ad essere calamità naturali, sono il risultato di pratiche sbagliate di cura del territorio. Posso aggiungere che l’approccio “di precisione” alla selvicoltura che utilizziamo nei servizi che Forest Sharing offre, lo si può utilizzare anche in ambito urbano (e noi lo facciamo): produrre conoscenza sulle condizioni delle alberature urbane è utile ad esempio per realizzare piani di manutenzione preventiva delle stesse.
Nel dibattito sulla forestazione spesso si sente dire che l’Italia è un paese virtuoso in cui il patrimonio boschivo è in costante aumento. Un argomento usato spesso per minimizzare la necessità di ridurre il consumo di suolo. Cosa c’è di vero in questa affermazione? In che modo un progetto come Forest Sharing può essere utile ad avvicinare il nostro paese agli obiettivi (urgenti) di neutralità carbonica?
Il problema del consumo di suolo nel nostro paese non deve e non può essere minimizzato e non crediamo che l’aumento della superficie forestale possa essere un alibi per minimizzare il problema, visti anche i dati preoccupanti riportati nell’ultimo rapporto ISPRA 2020 sul consumo del suolo dove viene indicato che nel nostro paese c’è una perdita di circa 14 ettari al giorno, soprattutto di superfici agricole e/o con vegetazione erbacea non impermeabilizzate.
Però, se da un lato c’è una costante perdita di superfici non impermeabilizzate, è altrettanto vero che il patrimonio boschivo in Italia ed in Europa in generale è in costante aumento. I dati riportati nel Rapporto dello Stato delle Foreste Italiane indicano che 2019 la superficie coperta da foreste nel nostro paese ha superato la superficie agricola, e questo non accadeva dal medioevo. L’aumento della superficie forestale è quindi una buona notizia, poiché le foreste e il loro impatto a larga scala è cruciale per contrastare le emissioni antropiche di CO2, così come la strategia di emissioni zero.
Le foreste sono un asse chiave della strategia europea di riduzione del carbonio (“decarbonizzazione”) ed agire per proteggerle e possibilmente aumentare la loro capacità come serbatoio di carbonio è di primaria importanza. Infatti, l’Europa indica che azioni come i rimboschimenti, il ripristino delle foreste degradate e le pratiche di gestione forestale sostenibili, inclusa la protezione delle foreste, sono misure chiave per mantenere e migliorare il delle foreste come serbatoi di carbonio.
È altrettanto vero però che l’Europa e le istituzioni scientifiche indicano che questi risultati possono esser raggiunti solo se si passa da una stretta interazione di governance locale, nazionale e ed europea. Quindi per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione non basta lasciare crescere una foresta in autonomia. È proprio in questo contesto che Forest Sharing opera proponendo tra l’altro, grazie ai risultati della ricerca scientifica, un approccio di “Climate Smart Forestry”, dove la gestione forestale sostenibile mira ad integrare le misure di mitigazione e adattamento legate alle foreste e migliorare la resilienza delle foreste e dei servizi ecosistemici forestali.
Forest Sharing consente agli utenti di diventare attori attivi nell’azione per il clima e nella decarbonizzazione. Infatti, tornare a gestire un bosco abbandonato significa tornare a conoscerlo e questo può consentire di migliorare la sua resilienza, mitigare i rischi dovuti ad eventi estremi come siccità, incendi e tempeste di vento ed avere benefici economici e ambientali più ampi associati ai servizi ecosistemici forestali. Infatti, crediamo che anche se un bosco viene lasciato crescere o in rewilding debba sempre essere previsto un piano di monitoraggio che consenta la valutazione di fattori complessi utili a capire e a misurare anche come si possono raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione che ci siamo posti come Italia, Europa ma in generale nel mondo.
Grazie per la tua disponibilità Yamuna!
Mattia Venturato, socio di Ecoló, ha intervistato Alessandro Cosci, di FIAB – Firenze ciclabile Onlus, per capire l’origine, la funzione e il destino delle nuove corsie ciclabili comparse in città.
Mattia Venturato, Ecoló: Ciao Alessandro, grazie per la tua disponibilità a risponderci, vorrei partire con una domanda piuttosto specifica: qualche mese fa sono apparse queste strane corsie tratteggiate, cui non eravamo abituati. Di cosa si tratta?
Alessandro Cosci, FIAB – Firenze Ciclabile Onlus: A maggio, appena terminato il primo lockdown, il decreto “rilancio” ha previsto la possibilità di introdurre piste ciclabili di nuova concezione: non più la classica pista in sede protetta, separata dalla careggiata destinata alle auto, ma una “corsia”, uno strumento di rapida ed economica realizzazione, da fare “da una notte all’altra”.
Era tutto un altro clima rispetto ad oggi…
Sì, il momento era molto favorevole. Sull’onda delle dichiarazioni del sindaco di Milano, Giuseppe Sala, anche il nostro sindaco sembrava orientato a favorire il più possibile la ciclabilità: la pandemia ci chiedeva di trovare soluzioni alternative al trasporto pubblico e la bicicletta ovviamente era la principale soluzione. Questa novità (la corsia ciclabile, ndr) appariva un po’ come la classica “bacchetta magica”…
Avete partecipato anche voi alla progettazione?
Sì, anche se buona parte delle strade destinatarie dell’intervento le aveva già individuate il Comune. Eravamo ovviamente favorevoli a sperimentare questo nuovo genere di pista ciclabile. Abbiamo visionato e dato il nostro parere su tutti i progetti prima che diventassero definitivi.
Quali sono gli obblighi delle auto quando si trovano a percorrere una strada con corsia ciclabile non protetta?
Inizialmente il testo del decreto prevedeva una sorta di promiscuità totale: la corsia doveva servire solo a segnalare la presenza di un percorso ciclabile all’interno della careggiata. Con la conversione in legge, però, le cose sono cambiate: adesso la corsia è effettivamente riservata; le auto, quando lo spazio della careggiata è sufficiente, devono lasciarla libera e possono impegnarla solo per brevi tratti, ad esempio per effettuare un parcheggio. Questo potrebbe spiegare il “raffreddamento” dell’amministrazione comunale dopo l’entusiasmo iniziale.
Da 1 a 10 quanto contribuiscono realmente le nuove piste ciclabili a un progetto di città sostenibile, sicura, adatta ai soggetti più deboli e non soffocata dal traffico privato?
La mia risposta è sette, un valore tra il quattro e il dieci. Dipenderà dalle future scelte dell’amministrazione comunale: si limiterà a decantare la presenza di chilometri di nuove piste ciclabili sulla carta o investirà su un progetto integrato di moderazione del traffico che riesca a valorizzarle? Per il momento non possiamo saperlo.
Il Comune ha effettuato un monitoraggio sugli effetti di questa sperimentazione?
No.
Si potrebbe pensare al classico provvedimento a basso costo che mette insieme capra e
cavoli, la mobilità sostenibile con il primato dell’auto privata, che nessuno sembra voler
mettere realmente in discussione.
E’ un buon provvedimento tampone che non può certo risolvere un problema culturale che dovrà essere affrontato per i prossimi 20/30 anni. Bisogna investire sulla moderazione del traffico e non sulla separazione dei flussi. Il punto non è iniziare una guerra per la distribuzione dello spazio urbano, ma renderlo adatto a tutti i tipi di mobilità.
Domanda diretta: secondo te queste strisce verranno mantenute o scoloriranno fino a essere dimenticate?
Queste nuove corsie ciclabili sono ormai “istituite” e dovranno essere sottoposte a normale manutenzione, come per qualsiasi segnaletica orizzontale presente sulle strade. La loro eventuale eliminazione dovrebbe essere giustificata con oggettive e valide motivazioni, tutte da dimostrare.