Ecolo’ è fra le venti associazioni, movimenti, soggetti economici, interrogano la politica e chiedono una vera svolta rinnovabile per l’Italia
Venti grandi associazioni nazionali coordinate da Cittadini per l’Italia Rinnovabile chiedono alla politica garanzie e impegni precisi, per una svolta rinnovabile necessaria, senza più tentennamenti.
E lo faranno in una maratona on line, in diretta su facebook, dalle ore 16 alle ore 22, domenica 18 settembre 2022, che sarà trasmessa sui canali fb di vari associazioni promotrici, tra cui Ecofuturo, Ecolobby e, appunto, Cittadini per l’Italia Rinnovabile.
Il parterre dei promotori è davvero ricco.
Ci sono associazioni ecologiste storiche (e più recenti) come Legambiente, Wwf, Kyoto Club, Ecofuturo, Ecolobby, Ecolo’, Rinascimento Green, Cetri-Tires.
Ci sono le sezioni italiane dei nuovi movimenti mondiali contro il climate change come Fridays for Future ed Extinction Rebellion.
Ci sono associazioni legate all’imprenditoria rinnovabile e dell’efficienza energetica, come Coordinamento free, Italia Solare, Giga, i produttori di pompe di calore (Arse), e di biometano (Cib).
C’è la stampa di settore come Greenreport e QualEnergia.
C’è una grande associazione sociale storica come l’Arci nazionale, che ha da tempo sposato una riflessione molto forte sul tema energetico, e l’Isde, Associazione Nazionale Medici per l’Ambiente.
“Chiediamo a tutte le liste presenti alle elezioni e a tutte e tutti i candidati di rispondere in merito alla nostra agenda politica, con un breve video o un post, e di rendersi disponibili ad intervenire in diretta al nostro evento on line del 18 Settembre ” – dichiarano i promotori dell’iniziativa.
Alcuni interventi alla maratona on line già assicurati sono quelli di Gianni Silvestrini, Francesco Ferrante, Annalisa Corrado, Fabio Roggiolani, Katiuscia Eroe, Maria Grazia Midulla, Agnese Casadei, Luca Sardo, Giovanni Mori, Sergio Ferraris, Michele Dotti, Daniela Passeri, Elena Pagliai, Gaia Pedrolli, Mauro Romanelli, Ricccardo Bani, Giovanni Graziani, Averaldo Farri, Stephanie Brancaforte … “ma ce ne saranno diversi altri”, si assicura.
I candidati che per adesso hanno garantito la propria partecipazione sono per il Pd Chiara Braga, per il csx Rossella Muroni, per il M5s Livio de Santoli, Patty l’Abate e Tony Trevisi, per Più Europa Simona Viola, per Noi Moderati Sergio Santoro, per Sin Ita/Verdi/Possibile Angelo Bonelli, per Unione Popolare Francesca Conti e Maurizio Acerbo.
La piattaforma politica è molto chiara, concisa e senza ambiguità, e si legge in un fiato: sbloccare i Gw fermi causa burocrazia, riscrivere il piano nazionale energia e clima e il capacity market, puntare senza indugi su comunità energetiche, mobilità elettrica, agrivoltaico e biometano, migliorare il superbonus ed estenderlo al’edilizia pubblica.
Le domande sono sul piatto, ora vediamo le risposte.
E’ giusto che le istituzioni si interessino di cosa mangiamo? Come scegliamo da un menù cosa mangiare e che conseguenze ha questo sul nostro pianeta? Abbiamo Intervistato Daniele Pollicino, Messinese trapiantato a Londra, dottorando di Psicologia e Scienze Comportamentali alla London School of Economics.
Ecoló: Ciao Daniele e grazie per il tempo che ci dedichi per questa intervista. Per prima cosa ci racconti chi sei?
Mi chiamo Daniele Pollicino, ho 28 anni ed al momento ricopro una posizione come dottorando di ricerca presso la London School of Economics and Political Science (LSE). Mi ritengo un ragazzo semplice, cresciuto in Sicilia e da sempre affascinato dal funzionamento della mente umana (che non smetterà mai di sorprendermi e stupirmi).
Dopo circa una decade di frequenti spostamenti per motivi di studio, oggi vivo a Londra e faccio parte del Dipartimento di Psicologia e Behavioural Science (Scienze Comportamentali) della LSE, dove studio meccanismi e dinamiche di comportamento umano legati al mondo della sostenibilità alimentare. Sono profondamente grato ad i miei due supervisori (Ganga Shreedhar e Matteo Galizzi) per aver creduto nella validità del mio progetto di ricerca ed avermi dato la possibilità di unirmi a questo incredibile Dipartimento.
Ecoló: Ci racconti il percorso che ti ha portato a Londra?
Londra è sempre stata nei miei pensieri. Sono siciliano, di Messina, ma ho vissuto e studiato per tanti anni fuori. Dalla prima esperienza negli U.S.A. a diciassette anni dove ho frequentato il quarto anno di liceo, agli anni di università in Trentino, per poi trasferirmi prima a Maastricht in Olanda e poi ad Oxford in UK. Un lungo percorso universitario che mi ha permesso di realizzare un sogno: vivere e fare ricerca a Londra.
Dopo essermi laureato e specializzato nel campo delle Neuroscienze, ho deciso di intraprendere un percorso leggermente diverso ma che mi permettesse di rispondere a domande di ricerca che ritengo fondamentali in questo particolare momento storico della nostra società. Per me oggi è un sogno poter studiare e lavorare sul tema che più mi sta a cuore. Londra è una città dove ero sicuro avrei trovato ciò che cercavo e che potrei riassumere come un intreccio di interessi e passioni che includono la ricerca scientifica, l’attivismo climatico e la musica.
Ecoló: Puoi spiegarci in modo comprensibile di cosa si occupano le tue ricerche?
Il mio progetto di ricerca riguarda i comportamenti alimentari. Individuali e collettivi, a partire da chi va a fare la spesa a chi va a cena al ristorante. Ciò che studio mi permette di esplorare i fattori che motivano le varie scelte alimentari e le barriere che le ostacolano, per poter capire come intervenire e potenzialmente influenzarle. Nel campo della sostenibilità alimentare questo si traduce ad esempio nel promuovere una riduzione del consumo di prodotti a base animale e promuovere l’adozione di abitudini di tipo “plant-based”, ossia derivante da un utilizzo di risorse a base di piante. Una dieta quindi prevalentemente vegetariana.
Se vogliamo essere più specifici, sono personalmente interessato allo studio delle norme sociali riguardo ciò che mangiamo. Le norme sociali possono essere descritte come un insieme di regole o standard di comportamento informali e non scritti. Molto spesso aderiamo a questo tipo di norme senza rendercene conto. Possono riferirsi a ciò che la maggior parte delle persone in un gruppo pensa o fa. Questo esercita una forte influenza sul nostro comportamento, perché seguire (o non seguire) le norme è associato a giudizi sociali. Ecco un esempio. Quando parliamo di cibo, ciò si traduce spesso nell’associazione di una dieta vegetariana ad una ridotta mascolinità della persona. Un’associazione che a livello percettivo costituisce una forte barriera all’adozione del tipo di alimentazione vegetariana. Cambiare queste narrative sociali è oggi fondamentale per muoversi verso una società che deve urgentemente prendere una posizione forte e consapevole contro i cambiamenti climatici.
Ecoló: Spesso l’opinione pubblica ironizza su chi pone l’accento sull’insostenibilità di come mangiamo. Come se non fosse un elemento centrale della transizione. Quando introduci le tue ricerche quali evidenze risultano convincenti nello spiegare che si tratta invece di un aspetto fondamentale?
Assolutamente vero, si parla ancora poco di cibo e della transizione che l’industria alimentare dovrà affrontare. Sinceramente, comprendo l’ironia. Il cibo è un argomento davvero complicato. Ciascuno di noi ha con esso una relazione molto intima e personale ed è per questo che è davvero difficile cambiare le abitudini alimentari. Tuttavia, è una conversione che dobbiamo iniziare a compiere. Quando mi presento e spiego cosa faccio cerco sempre di affrontare l’argomento a piccole dosi.
Non essendoci grande divulgazione di informazione al riguardo, la maggior parte di noi ignora i lati distruttivi della moderna industria del cibo e di come le lunghe filiere che ci fanno arrivare il cibo in tavola stiano compromettendo il futuro del nostro pianeta su diversi livelli. Tanto si parla di transizione energetica e di macchine elettriche, ma in tanti non sanno che il sistema alimentare mondiale è responsabile della produzione di circa un terzo delle emissioni climalteranti (CO2 equivalenti), che sono oggi la principale causa del riscaldamento globale. Un sistema molto complesso sì, ma nel quale alcuni semplici cambi di abitudine alimentare possono già avere grande impatto.
Ad esempio, sostituire prodotti a base animale con prodotti a base di piante potrebbe ridurre le emissioni derivanti dalla produzione alimentare del 55% pro capite rispetto ai modelli alimentari previsti per il 2050. Il consenso scientifico al riguardo è ormai indiscutibile: abbandonare la carne e i latticini è il modo più efficace per rigenerare i nostri ecosistemi e prevenirne la distruzione. Per non parlare del profilo più sociale della questione, ad esempio soltanto in Italia l’industria si sporca le mani del sudore e sangue di manodopera/lavoratori a basso costo (principalmente immigrati). Caso più noto quello del sistema del caporalato e della produzione di pomodori.
Ecoló: Nella tua ricerca ti sei occupato di nudging (spesso tradotto in italiano con “spingere dolcemente”), strumenti che le istituzioni possono utilizzare per modificare la percezione delle persone che compiono scelte e che alla fine li inducono a comportarsi in un modo piuttosto che in un altro. Qualcuno potrebbe vedere in questi strumenti una forma di manipolazione. In che misura pensi che sia legittimo per lo stato usare questi strumenti?
Devo dire non ero al corrente di questa traduzione “spingere dolcemente”, la trovo interessante e probabilmente rende abbastanza bene l’idea. Nudging significa orientare scelte di comportamento e azioni di individui e gruppi di persone verso direzioni desiderabili. Sottolineando che questo non comporta la perdita di libertà di scelta di queste persone! L’opzione A e l’opzione B sono entrambe presenti nel panorama di scelta, tu hai ancora tutte le capacità e risorse per scegliere quella che preferisci. Quello che succede è che “io” cercherò di indirizzarti verso una delle due. Nel caso della sostenibilità alimentare, sarà quella che a livello scientifico risulta essere meno nociva e più benefica nei confronti del pianeta, la nostra salute e del mondo animale.
Chi oggi contesta il nudging come una forma di manipolazione poco etica lo fa anche perché rimane comunque viva la domanda etica e filosofica, “chi sei tu per decidere cosa è desiderabile?”. Una posizione comprensibile che porta a conversazioni interessanti. Negli ultimi mesi ho tanto sentito parlare di come rendere strategie di nudging sempre più trasparenti e sincere, cercando di rendere le persone il più coinvolte possibile nei processi di formulazione ed implementazione di queste strategie.
Dalla mia mi sento di difendere questa pratica in quanto, in particolar modo nel mio caso, essa deriva da lunghi processi di studio su come rendere il nostro futuro meno incerto e più equo nei confronti di chi già oggi subisce le conseguenze di scelte da noi, più o meno inconsapevolmente, fatte. Sfido chi ritiene “le mie dolci spinte” poco legittimate a riflettere sulla quantità di strumenti di promozione e marketing delle quali ogni giorno siamo vittima. In un mondo dove si stima l’americano medio veda circa 5000 messaggi commerciali al giorno, cosa che induce poi a ritenere il consumo e lo spendere come unica fonte di appagamento e soddisfazione personale.
Ecoló: Vuoi farci un esempio di utilizzo virtuoso di questi strumenti per il quale è possibile quantificare la riduzione di emissioni ottenuta?
Per riprendere ciò che dicevo prima, si stima che nel Regno Unito il passaggio da una dieta ad alto contenuto di carne (>100g al giorno) a una dieta interamente vegetariana ridurrebbe le emissioni climalteranti del consumo di una persona del 47%. Se parliamo di singoli cambi comportamentali nella nostra vita quotidiana, questa è una percentuale altissima!
Nell’ambito delle politiche alimentari, utilizzare “default verdi” sembra essere un intervento efficace per ridurre il consumo di carne; si tratta di presentare scelte vegetariane come impostazione predefinita. Nel caso di una cena al ristorante, il menù principale conterrà solo opzioni vegetariane, ma sottolineando la possibilità di indicare la propria preferenza non vegetariana e scegliere altro. Molte scelte alimentari tendono ad essere fatte in modo rapido e intuitivo, e la maggior parte di noi preferisce così non deviare dalla scelta predefinita, per motivi di pigrizia o magari perché deduciamo tutti siano d’accordo con essa. È stato dimostrato che questo tipo di strategie incoraggiano un consumo più sostenibili. In studi provenienti da tre conferenze nel 2019, l’uso di default ha permesso a un gruppo di ricercatori in Danimarca di aumentare la percentuale di scelta del menù vegetariano dal 2% al 87%. Non tutti gli studi hanno risorse sufficienti per poi quantificare oggettivamente la riduzione di emissioni ottenute, spesso ci si limita a calcolare la differenza nel numero di vendite/ordini e stimare i benefici.
Ecoló: La nostra impressione è che il Regno Unito sia più avanti dell’Italia nella transizione, sei d’accordo, qual è il primo e più urgente intervento che importeresti nella penisola dalla Gran Bretagna?
Chi mi conosce sa bene che non sono un italiano estremamente patriottico, ma in questo caso devo esserlo. Se ci spingiamo a dire che il Regno Unito è più avanti nella transizione alimentare, io mi spingo a dire che l’Italia è così indietro che si trova in realtà avanti. Mi spiego. Il consumo alimentare in Italia segue pratiche che per nostra fortuna sono già più sostenibili di natura. La dieta Mediterranea è un piccolo gioiello del quale dovremmo gioire e riconoscerne il privilegio di poterne usufruire, mentre la dieta media UK segue consumi diversi che portano ad esempio ad avere prodotti a base di carne in quasi tutti i pasti. Sono forse più avanti, ma anche perché hanno più strada da fare.
Ciò detto, preferirei non essere frainteso. Anche noi in Italia dovremo cambiare i nostri consumi. In effetti mi sembra personalmente più facile influenzare futuri consumi alimentari in UK piuttosto che in Italia, forse perché la nostra tradizione e il nostro patrimonio culturale di cibo è qualcosa di davvero fortemente radicato nella nostra storia e società. Al momento vedo il concetto del plant-based, di una riduzione del consumo di carne, dell’adozione di diete vegetariane/vegane essere più in voga in UK. Ma anche per questo tipo di sfide ritengo interessante il lavoro che faccio questi giorni.
Ecoló: Sei d’accordo che politiche di “spinta dolce” potrebbero non bastare? Pensi, come noi, che serviranno a breve anche spinte decise (e pedate nel sedere!)?
Questo è un punto molto interessante. Questo tipo di politiche hanno conosciuto grande fortuna e popolarità negli ultimi anni, ma non sempre grande successo. Questo perché si sta capendo sono molto più dipendenti dal contesto dove vengono implementate di quanto si credesse. Di base, la stessa misura politica di “spinta dolce” applicata in Italia o in Regno Unito può portare ad esiti ben diversi.
Ultimamente si parla spesso in ambito accademico di come queste possano/debbano essere implementate da misure più “decise”, come dite voi. Queste possono essere tasse, divieti e regolamentazioni più severe che lasciano meno possibilità di scelta al cittadino. Tanti studi stanno dimostrando come l’uso combinato e integrato di spinte “dolci” e “decise” possa spesso portare risultati più desiderabili ed anche più efficaci/rapidi, che nel caso di misure rivolte a contrastare il cambiamento climatico servono nel modo più rapido possibile!
Ecoló: Sulla tua pagina istituzionale ti definisci “attivista per il clima”. È nato prima l’attivismo o la ricerca sulla sostenibilità delle nostre diete?
Assolutamente prima l’attivismo. Continuo a sperare che quel lato prevalga sempre su quello di ricerca (cosa non forse troppo conveniente per il mio futuro accademico). Devo ringraziare le persone incontrate ad Oxford e le tante discussioni che ho avuto modo di avere durante quel periodo di studio. Sono stato profondamente colpito dalla devozione di alcuni di loro alle cause per le quali combattevano, utilizzando gran parte del proprio tempo tra studi e vita privata. Mi hanno spinto a pensare che anche io potevo fare di più. Che dovevo fare di più facendo io parte di quella parte privilegiata della società che può permettersi di fare cambi di vita senza in fin dei conti troppi sforzi. Molti di noi, abitanti del ricco mondo occidentale, facciamo parte di questo gruppo, per quanto lo si voglia credere o no è così.
La ricerca sulla sostenibilità delle nostre diete è poi stata in gran parte ispirata dagli studi di mio fratello Dario, il quale faceva già parte di questo campo di studio, anche se più dal punto di vista della lotta verso una produzione agricola più solidale e che rispetti maggiormente sia il territorio che i suoi lavoratori.
Ecoló: C’è chi sostiene che la scienza debba studiare il mondo nel modo più oggettivo possibile. Talvolta i ricercatori sono accusati di approcciare i loro studi con una lente ideologica. Pensi che sia una critica fondata nel tuo caso? O avere una forte motivazione politica è un elemento di forza per la tua attività professionale?
Di certo approcciare il metodo scientifico influenzati dalla soggettività personale non è ideale se si vuole nel tempo condurre ricerca rigorosa e che abbia metodologicamente senso. In fin dei conti, ci fidiamo dei risultati scientifici esattamente perché la sua evidenza dovrebbe essere inconfutabile. Se manca il rigore, andiamo a parlare di pseudoscienza.
Ciò nonostante, nel mio caso particolare credo che una contaminazione ideologica possa anche risultare benefica. Nell’ultimo anno, ho più volte ascoltato le parole di un collega di Cambridge (Kristian Nielsen) durante le sue presentazioni. Sostiene che gli psicologi possono migliorare il loro contributo alla mitigazione del declino ambientale se ci si concentra principalmente sull’impatto dei fenomeni studiati, e solo secondariamente sulla rilevanza della teoria nel definire le priorità di ricerca. Il nostro campo di studio è di certo particolare e la scienza (della quale ci fidiamo) ci dice appunto che non abbiamo troppo tempo per cambiare le cose. Dunque, se la mia motivazione politica può portarmi a lavorare su progetti che cercano di avere un impatto nella vita reale piuttosto che solo a livello accademico, credo ne sarò solo contento. Se poi si riesce ad ottenere entrambi i risultati, ben venga.
Ecoló: Con le elezioni che si avvicinano in Italia la nostra impressione è che gli ecologisti rischino ancora una volta di dover scegliere fra partiti ben organizzati ma totalmente sordi alle urgenze della crisi climatica e partitini che, pur avendo chiare le priorità, non sono all’altezza della sfida in termini di classe dirigente e organizzazione. Cosa è mancato al movimento politico ecologista italiano in questi anni? Cosa possiamo fare per non ritrovarci fra qualche anno ancora in queste condizioni?
Questa è una domanda alla quale vorrei rispondere con la maggior umiltà possibile. Nel senso, non vivo in Italia da ormai tanti anni. Il mio occhio è sempre rimasto vigile su quanto accade nel nostro Paese, ma non vorrei mancare di rispetto al nostro movimento politico ecologista senza una totale cognizione di causa.
Quello che posso permettermi di dire, è che vedo in Inghilterra una larga e diffusa presenza di gruppi “grassroots”, ossia di gente comune che cerca il cambiamento dal basso. Comunità locali che operano principalmente a livello di quartiere, per poi spesso unirsi al medesimo movimento cittadino e nazionale. Giorno dopo giorno diffondono il loro messaggio e riescono così pian piano ad arrivare alla popolazione generale. Trovo in primo luogo un interesse verso quelle che sono appunto le problematiche di quartiere. Pensare sì alle sfide a livello globale, ma agire anche molto a livello locale. Forse questa è una delle chiavi del loro successo.
Molte persone si uniscono perché vedono un obiettivo comune che a loro interessa perché impatta direttamente la loro vita privata! Non tutti possono unirsi al movimento perché animati da forte spirito empatico, rivolto a comunità lontane nello spazio e/o nel tempo, al mondo naturale e/o animale. A tal punto, la psicologia e le scienze comportamentali possono sicuramente aiutare a trovare risposte. In questo momento, membri del mio gruppo (Planet Lab) stanno conducendo ricerca per conto di Extinction Rebellion.
Anche qui, non voglio intendere in Italia questi gruppi non esistano. Anzi, quelli che conosco operano anche bene a mio parere. Ma evidentemente si potrebbe operare anche meglio. Non sarebbe male avere il sostegno delle istituzioni, le quali oggi sembrano invece più al servizio di poteri ed interessi privati capitalisti che di veri processi democratici e popolari.
Grazie ai social media sono in contatto con tanti altri attivisti italiani, soprattutto giovani. Per me quella è la speranza: vedere una nuova ondata di energia e coraggio che può davvero cambiare le cose, con grande resilienza, una testa alla volta.
Sto imparando molto in questi mesi e spero di poter rispondere meglio a questa domanda la prossima volta che parleremo.
Ecolo’: grazie mille del tuo tempo Daniele. A presto!
Qualsiasi studio e previsione attuale indica che con un riscaldamento globale di 1,5°C, nei prossimi due decenni il mondo affronterà conseguenze disastrose. Anche il superamento temporaneo di questo livello di riscaldamento sta provocando gravi impatti, alcuni dei quali irreversibili.
Oggi siamo già costretti a subire i cambiamenti climatici, come se il pianeta ci stesse dando uno schiaffo per ricordarci in che direzione lo stiamo obbligando ad andare. L’attuale stato di siccità è il semplice risultato del nuovo “equilibrio” al quale ci dovremo abituare a meno di una rapida e rivoluzionaria inversione di tendenza.[1]
Affrontando i 40 gradi a Firenze di questi giorni è bastato sporgersi da un muretto per fotografare la morte di un ecosistema. La natura non può far altro che semplificarsi con tutti i danni che questo fenomeno comporta. Lo sforzo mentale necessario in questa fase è riuscire a vedere in qualsiasi bene con cui interagiamo una risorsa: il sole, il vento, i rifiuti ancora capaci di contenere beni riutilizzabili fino al singolo litro d’acqua trattenuto prima di essere drenato dal sistema fognario.
In attesa di un coraggio in materia di cambiamenti climatici ancora latitante nella politica locale, nazionale e internazionale, c’è sempre la possibilità di minimizzare il proprio impatto sul pianeta. Dato che siamo in una fase di calamità naturale dovuta alla siccità una proposta semplice e che se adottata in modo esteso può avere un grande impatto sul territorio è il recupero dell’acqua piovana.
Recupero dell’acqua piovana
Gli impianti per raccogliere e conservare le acque piovane, ad esempio provenienti dai pluviali delle abitazioni civili, consentono di avere una fonte d’acqua altrimenti dispersa. Bisogna considerare infatti che le acque meteoriche sono una risorsa che una volta cadute su una superficie impermeabilizzata si trasformano in un problema da allontanare dai centri abitati, perdendo così la possibilità di ricaricare le falde acquifere e andando a generare un rischio idraulico.
Il funzionamento dei sistemi di recupero di acqua piovana per una civile abitazione è molto semplice ed avviene tramite serbatoi fino ad alcune migliaia di litri collegati ai pluviali dell’edificio e dotati di sistemi di filtraggio, facili da manutenere. Con un sistema a gravità o tramite pompaggio si alimenta direttamente l’irrigazione del verde, il wc del bagno, gli impianti di casa etc utilizzando una risorsa (priva di cloro) che preserverebbe l’acqua del rubinetto, frutto invece di un processo di potabilizzazione andato sprecato.
Recuperare l’acqua conviene?
E’ possibile valutare la piovosità per la quale sia più o meno conveniente l’investimento necessario al recupero dell’acqua piovana, ma in realtà il fenomeno dei cambiamenti climatici fa perdere di significato alle serie storiche precedenti e si attesta su quelle degli eventi estremi. Soprattutto l’ottica del recupero non è solo il vantaggio economico bensì il contributo alla mitigazione dei fenomeni, non quantificabile e necessario.
Si può fare?
Installare sistemi di recupero non è solo possibile ma è in qualche modo suggerito dalla legge. A livello normativo (legge 244/2007) il permesso a costruire è vincolato anche a caratteristiche di risparmio idrico, seppur non tutte le Regioni abbiano ancora recepito le modalità di applicazione della norma e spesso sia demandato ai singoli regolamenti urbanistici. Ma è la modifica dell’esistente che potrebbe avere numeri capaci di impattare sulla risorsa idrica.
Numeri?
In Italia ci sono 12 milioni circa di edifici residenziali abitati in media da più di 4 persone (fonte Istat), di cui circa la metà di tipo indipendente o semi-indipendente (fonte Eurostat). Per ciascun abitante la dotazione idrica giornaliera è stimata in 150 litri/giorno, di cui la metà sostituibile da acque piovane.
Se i regolamenti urbanistici imponessero la raccolta delle acque meteoriche a questa tipologia di edifici avremmo serbatoi diffusi sul territorio capaci di trattenere e riusare più di 500 milioni di metri cubi di acqua all’anno. Indipendentemente dal risparmio economico sarebbe una misura di mitigazione capace di rispondere alle siccità a cui andremo incontro.
Esistono incentivi?
In ultima analisi quali sono gli aiuti economici attuali per installare un sistema di recupero delle acqua? Rispetto ad altri incentivi fiscali legata alla casa (facciate, sismica e risparmio energetico) per il recupero dell’acqua ci sono incentivi decisamente meno consistenti. Al momento è possibile usufruire del“bonus verde” per il 2022, come agevolazione fiscale per gli interventi straordinari di sistemazione di terrazzi, giardini e aree scoperte di pertinenza compresi gli interventi realizzati nei condomini. La detrazione massima è di 1.800 euro.
E’ chiaro che si tratta di un incentivo insufficiente l’urgenza dovuta all’insostenibilità ambientale dell’utilizzo di acqua richiederebbe soluzioni di recupero obbligate dall’Amministrazione e finanziate quasi interamente.
Di seguito la foto di un intervento di recupero delle acque piovane eseguito da un socio di Ecolò, per un riutilizzo di 60 l/giorno, una cisterna da 5000 litri e un costo totale di circa 3000 euro.
[1] Per approfondimenti si rimanda alla pagina IPCC Italia che ospita il Sesto rapporto di valutazione dell’IPCC su risorse idriche e siccità
Abbiamo incontrato Beatrice e Michele, due fra i fondatori e leader di Ultima Generazione, un gruppo di attivisti ecologisti convinti che serva creare un’avanguardia consapevole, disposta a rischiare il proprio benessere e la propria libertà, per innescare il cambiamento necessario. Michele è fra gli arrestati in Aprile a seguito di una manifestazione di fronte a un Eni store a Roma.
Ecoló: Ciao, ci parlate un po’ di voi e di come siete arrivati in Ultima Generazione?
Michele: Non so quanto è importante chi sono: una persona abbastanza comune, ho studiato filosofia e insegnato nelle scuole. Gli ultimi mesi li ho passati in montagna, con degli amici, a costruire una comunità agricola. L’esperienza in montagna mi ha aiutato a concentrarmi sul necessario. Sotto il monte Rosa, in montagna, con il freddo, si fa una vita basata sulle necessità in cui si taglia tutto quello che non è strettamente necessario. Ma mentre ero lì, pur nel posto più bello del mondo, continuavo a vedere i segni di come stiamo mandando tutto a puttane, le nostre speranze, quelle delle prossime generazioni, lo vedevo nei boschi conciati male, negli alberi ammalati. Mi sono reso conto che per me quel posto bellissimo non sarebbe potuto essere “casa” finché non avessi affrontato il problema. Così ho rinunciato ad altre ambizioni, come quella di fare un dottorato, e ho co-fondato Ultima Generazione. Ora vivo a Roma perché qui c’è il governo e ci sono le persone con cui dobbiamo parlare.
Beatrice: io ho 29 anni e sono una veterinaria, mi sono laureata nel 2018 e ho conosciuto Extinction Rebellion (XR) nel 2019 quando ho iniziato a realizzare che non avrei potuto avere una vita normale. La mia vita ha avuto un’accelerazione l’anno scorso, dopo la prima ondata del Covid. A quei tempi avevo deciso di iscrivermi ad una scuola di specializzazione. Per la paura di affrontare il futuro mi stavo aggrappando al modello classico in cui cerchi un lavoro un po’ più stabile per avere uno stipendio un po’ più alto. Ma la situazione era diventata ridicola perché stavo facendo una vita assurda: lavoravo 10 ore al giorno per pagare la scuola di specializzazione, solo nei ritagli di tempo riuscivo ad occuparmi di XR, il tutto forse per riuscire un domani ad avere una vita leggermente migliore. Quando siamo andati in montagna, mi sono liberata di tutto ciò che non era essenziale e ho iniziato a liberarmi dalle ansie che sono in realtà autocostruite e non ci permettono di vedere e dare priorità a ciò che è importante ed essenziale.
Ecoló: Nella nostra percezione il vostro movimento è quasi sovrapponibile a Extinction Rebellion, cosa distingue Ultima Generazione e XR?
Michele: Ultima Generazione nasce dentro XR. Il 60% di noi sono stati o sono ancora parte di XR. Dentro XR abbiamo sentito l’esigenza di avere maggiore autonomia nelle strutture organizzative e operative. Ma non solo: con il tempo sono emerse anche delle priorità e una visione differenti rispetto al progetto di XR. C’è stata, quindi, la necessità di creare un’identità differente, questo è avvenuto circa un mese e mezzo fa.
Ecoló: L’esigenza, quindi, è quella di avere strumenti differenti?
Michele: Ci sono due questioni fondamentali. Per prima cosa c’è un tema organizzativo. XR ha una struttura molto decentralizzata e orizzontale. Questo approccio ha dei pregi, ma rende difficile creare un’unità in grado di sostenere un piano strategico comune. Esiste un rischio di frammentazione e dispersione sul territorio che noi vogliamo evitare. Ci ispiriamo al funzionamento delle campagne elettorali americane, dove c’è un nucleo centrale di poche persone e tante persone che si attivano seguendo indicazioni chiare e semplici. Per esempio, guardiamo con interesse alla prima campagna elettorale di Bernie Sanders in cui 10 persone hanno mobilitato e dato direttive molto chiare a centomila persone. Persone che avevano istruzioni. Questo è il tipo di modello che vorremmo seguire.
C’è poi un aspetto culturale. XR ha fatto un lavoro eccezionale recuperando la modalità della disobbedienza civile e l’ha veicolata a migliaia di persone. Però bisogna anche ammettere che le pratiche di XR in molti casi si fa fatica a chiamarle veramente disobbedienza civile. Noi siamo convinti che per mobilitare più persone, che magari abbracceranno modalità di lotta meno radicali, c’è bisogno di una minoranza di persone disposte a tutto e che hanno una visione chiara di qual è il tipo di sacrificio che questo richiede.
Se non mobilitiamo una minoranza di persone che sono disposte al sacrificio, così come successo ai nostri nonni o come succede in tanti luoghi nel sud del mondo dove i movimenti di disobbedienza civile sono in grado di rovesciare dittatori, allora sarà difficile che tantissime persone possano essere ispirate a fare un passo avanti. Questo è quello che stiamo cercando di realizzare con Ultima Generazione e una rete di altri novi movimenti nazionali sparsi per l’Europa.
Ecoló: Hai fatto riferimento ad altri paesi, quindi Ultima Generazione è collegata ad altre realtà nel mondo?
Beatrice: Sì, siamo una rete di 10 movimenti europei, ci chiamiamo A22 perché esistiamo dal mese scorso, Aprile 2022, abbiamo dato vita ad azioni sincrone di disobbedienza civile coordinata e ad oggi condividiamo sia il supporto finanziario che la comunicazione e le richieste, siamo una rete che fornisce supporto.
Ecoló: Avete parlato di strumenti più estremi rispetto a quelli di XR. Il nostro punto di vista è che la non violenza sia un elemento fondante della visione ecologista. Vorremmo chiedervi se condividete questa visione e se all’interno di Ultima Generazione c’è un dibattito riguardo all’utilizzo di strumenti come il sabotaggio.
Michele: Non so se esiste un dibattito, non prendiamo queste decisioni in modo orizzontale. Posso dirti quello che penso io. Su questo riprendo la visione di XR che ha redatto un manuale riguardo la possibilità di danneggiare una proprietà privata. Ci sono regole molto strette che lo prevedono a patto che si prendano una serie di precauzioni: non solo deve essere certo che nessuno si farà male, ma deve anche essere garantito che nessuno si spaventerà.
Beatrice: Ovviamente noi non prendiamo in considerazione né pianifichiamo azioni violente. Per noi la non-violenza è un elemento strategico della nostra azione. Il sabotaggio però può rientrare fra le tattiche non violente. In Germania, ad esempio, ci sono stati attivisti che hanno chiuso, senza danneggiarli, dei rubinetti della rete di petrolio, non so se è sabotaggio, ma sicuramente non è violenza. Non stai nemmeno manomettendo un’infrastruttura in modo permanente. Ma ovviamente che cosa sia violento è anche una valutazione soggettiva, anche un blocco stradale può essere considerato una forma di violenza da parte di qualcuno.
Ecoló: Noi contestiamo ai partiti tradizionali la mancanza di responsabilità verso le comunità che dovrebbero rappresentare. Per noi la relazione dialettica e responsabile fra leadership e comunità è un valore da recuperare. Volete dirci di più su questa idea di modello organizzativo in cui un gruppo ristretto dà direttive? Perché ci vediamo delle criticità.
Michele: È un tema fondamentale. Secondo noi non si può decentralizzare in modo efficace se prima non hai costruito un’organizzazione centrale e un piano. Un’organizzazione basata su molti gruppi autonomi finisce sistematicamente per cadere nel meccanismo del doppio conflitto. Ci si trova in disaccordo su qualcosa, ma non siamo nemmeno d’accordo su chi debba risolvere questo conflitto prendendo una decisione. Questa è un’esperienza raccontata molto efficacemente nel testo “La tirannia dell’assenza di struttura” scritto da Jo Freeman, una femminista e scrittrice americana. I grandi movimenti di resistenza civile non si basavano su assemblee, ma su una leadership. Il problema non è il leader ma quando questi si sconnettono dalla loro comunità. La questione è quindi chi è il leader e se è degno e ha l’umiltà per svolgere quel ruolo. Il ruolo non è fare il leader d’azienda, ma mettere in pratica un piano. Le persone che si avvicinano a Ultima Generazione credono nel progetto e si fidano della leadership e… sorpresa, sorpresa… non hanno voglia di fare 40 assemblee a settimana per definire il progetto. La gente ha voglia di lavorare al progetto. L’idea che “nessuno può dirmi cosa devo fare nel mio spazio” non è un’idea popolare, è un’idea borghese.
Beatrice: vorrei parlare della mia esperienza. Anche XR in realtà ha un modello semi-centralizzato in cui il gruppo strategico ha definito una serie di cose. In Italia non c’è mai stato un gruppo strategico sicuramente anche a causa della pandemia. Noi pensiamo che questa mancanza abbia in parte limitato l’efficacia dell’azione di XR Italia. La sensazione è che ogni gruppo proceda in ordine sparso. Ancora oggi ci troviamo di fronte a questo problema perché, ora che siamo fuori e cerchiamo di lavorare con XR, non riusciamo ad avere un interlocutore che sia in grado di prendere decisioni riguardo ad azioni comuni. Noi abbiamo poco tempo, due anni, e non possiamo aspettare un mese per ogni decisione. Anche se personalmente mi sento scomoda in questa posizione di leadership, devo dire che apprezzo sempre di più i pregi che la nostra organizzazione porta con sé.
È anche importante per me che in questo modo la dinamica di potere è esplicitata. In tutti i movimenti orizzontali il potere di prendere certe decisioni c’è. Anche quando non è esplicitato ed anche quando è esercitato non prendendo una decisione. Non ne faccio una questione di cattiva fede. Ma occorre riconoscere che spesso nelle organizzazioni orizzontali esiste una leadership implicita che prende decisioni senza assumersi la responsabilità del ruolo. Quando ci confrontiamo con tutti i comitati e i collettivi marxisti e di estrema sinistra questo è particolarmente evidente. C’è sempre questo feticismo della decisione collettiva in assemblea e poi nella sostanza ti ritrovi quattro persone, generalmente uomini di mezza età, che parlano 25 minuti a testa e la maggior parte della gente sta zitta. Questo per me non è potere diffuso. È una centralizzazione mascherata che unita alla disorganizzazione finisce anche per essere completamente inconcludente.
Ecoló: Quindi esiste un gruppo strategico. Come funzionate?
Michele: ad oggi siamo quattro. È difficile trovare qualcuno che sia disposto ad assumere un impegno di 12 ore al giorno.
Beatrice: per quanto mi riguarda il mio ruolo nel gruppo strategico è dovuto principalmente alla disponibilità di tempo. Siamo persone che hanno deciso di cancellare la propria vita per dedicarsi a questo.
Ecoló: Come si sostiene economicamente un gruppo di persone che lavorano a tempo pieno come militanti?
Michele: Abbiamo un crowdfunding, la gestione finanziaria è centralizzata fra i 10 movimenti. Inoltre lavoriamo a stretto contatto con finanziatori e influencer. Ci sono sempre più persone che stanno capendo quanto è grave la situazione. Ma viste anche le spese legali che dovremo affrontare ci serve l’aiuto di tutti e invitiamo chi legge a darci una mano (in fondo all’articolo trovate il link).
Ecoló: Vorremmo chiedervi proprio delle vicende giudiziarie che coinvolgono tre di voi di cui sorprendentemente si è parlato pochissimo sui media. Volete spiegarci cosa è successo?
Beatrice: abbiamo fatto una serie di azioni contro l’ENI. Abbiamo iniziato dall’Eur e poi ci siamo spostati verso gli ENI Store sparsi per Roma. Sono azioni di imbrattamento e microdanneggiamento. Questo danneggiamento alla vetrina, ad esempio, è stato fatto in modo simbolico evitando accuratamente una crepa che avrebbe potuto far crollare la vetrina e far male a qualcuno. Un’azione simbolica che vuole mostrare anche la sproporzione fra i danni che possiamo fare a ENI a confronto con i danni che ENI fa a noi.
Michele: Siamo stati arrestati Io, Laura e Chloe, il 20 Aprile. Andremo a processo il 15 Settembre.
Ecoló: Che cosa vi contestano?
Michele: Violenza privata, danneggiamento e possesso illecito di armi. L’unica sensata è la seconda. È vero, c’è stato un danneggiamento. Violenza privata assolutamente no. Armi… non so. Se esci di casa con uno scalpello, scalfisci una vetrina e lo appoggi a terra quando si avvicina qualcuno è un possesso illecito di armi? Vorrei far notare che non è ENI che ci ha denunciato. Il PM ha chiesto l’obbligo di firma tre volte alla settimana ma il giudice ha rifiutato.
Devo anche dire che sono rimasto colpito da quanto il giudice mi ha fatto parlare della crisi climatica: mi sono sentito ascoltato.
Beatrice: l’arresto non è arrivato alla prima azione ma alla quarta. All’inizio ci sono stati solo fermi e denunce. Si è verificato quanto già successo a febbraio quando siamo andati ripetutamente ad imbrattare il ministero della transizione ecologica fino a che le forza dell’ordine hanno reagito. Credo che la frustrazione che innesca la reazione sia in buona misura ottenuta attraverso una ripetizione prolungata dell’azione di protesta.
Michele: Vorrei aggiungere che questa nostra esperienza con l’arresto e il processo è solo un barlume di quello che è per noi la disobbedienza civile. Noi in occidente concepiamo la non violenza come una forma pacifica e difensiva. Non è così. I grandi modelli di disobbedienza civile sono piazza Tahrir e la Marcia dei bambini fra Birmingham e Selma del 1963. Disobbedienza civile non è fare una manifestazione ogni sei mesi e poi tornare nel proprio mondo di privilegi. Avremo bisogno di tante persone che non hanno paura. Le grandi rivoluzioni sono state fatte da persone che erano consapevoli dei rischi che correvano.
I nostri figli in Italia rischiano di morire di fame in ogni caso. E noi stiamo qui a dire a noi stessi che non possiamo rinunciare ai nostri privilegi?
Ultima Generazione ha richieste molto chiare per il governo e per le sue aziende, ma non proponiamo una retorica in cui loro sono cattivi e gli altri sono buoni. Il conflitto è orizzontale. Io sono qui a scagliarmi contro l’opinione pubblica ipocrita della sinistra e degli ambientalisti che fanno una marcia ogni sei mesi. Dovrebbero guardare i propri figli e dire loro: “tu stai per morire e io faccio una marcia ogni sei mesi e firmo le petizioni”. Noi non diciamo “quanto è cattivo Draghi”, noi consideriamo veri assassini delle generazioni future i cittadini e soprattutto quelli politicamente attivi che non prendono sul serio la drammaticità della situazione.
Non stiamo veramente combattendo, sono tutte scuse. Hannah Arendt diceva “ci sono due cose che fai davanti a un genocidio: o ti ribelli o sei complice”.
La maggior parte degli attivisti oggi è complice.
——————————————
È possibile sostenere Ultima Generazione con una donazione a questo link: https://www.produzionidalbasso.com/project/ultima-generazione-assemblee-ora/ .
A22 è una rete di movimenti europei diffusa in 10 paesi:
ITALIA https://www.ultima-generazione.com/
INGHILTERRA https://juststopoil.org/
GERMANIA https://letztegeneration.de/
CANADA https://save-old-growth.ca/
AUSTRALIA https://fireproof.news/
STATI UNITI https://www.declareemergency.org/
FRANCIA https://derniererenovation.fr/
SVIZZERA https://renovate-switzerland.ch/
SVEZIA https://www.facebook.com/aterstallvatmarker/
INTERNATIONAL https://scientistrebellion.com/
Di Guido Scoccianti
Fanalino di coda da sempre di tutte le politiche, ultimo dei settori nella destinazione dei fondi e delle risorse, da molti sostanzialmente ignorata o quantomeno considerata tema da ‘sentimentali’, la tutela della biodiversità ancora oggi stenta ad essere riconosciuta per quello che in realtà è, cioè uno degli elementi chiave per la nostra sopravvivenza.
Qualcosa però potrebbe cominciare a cambiare.
Se a poco o nulla sono serviti i gridi di allarme negli ultimi decenni di biologi e naturalisti, nonostante la mole di dati raccolti che mostrano in modo inequivocabile la gravità della situazione, finalmente adesso cominciano a parlare dell’importanza della biodiversità anche gli economisti. Una voce tipicamente tenuta in maggior considerazione dai nostri politici.
Quali sono infatti i costi economici per la nostra società della distruzione di specie e habitat?
Come segnala la Commissione Europea nella presentazione della Strategia Europea sulla Biodiversità per il 2030:
“la perdita di biodiversità e il collasso degli ecosistemi sono una minaccia anche per le fondamenta della nostra economia e si prevede che i costi dell’inazione, già alti, aumenteranno. Si stima che dal 1997 al 2011 i cambiamenti nella copertura del suolo abbiano causato perdite pari a 3500-18500 miliardi di euro l’anno in servizi ecosistemici a livello mondiale e che il degrado del suolo sia costato 5500-10500 miliardi di euro l’anno“.
“l rapporto benefici/costi complessivi di un programma mondiale efficace per la conservazione della natura ancora allo stato selvatico è stimato ad almeno 100 a 1. Gli investimenti nel capitale naturale, ad esempio nel ripristino di habitat ricchi di carbonio e nell’agricoltura rispettosa del clima, sono considerati tra le cinque politiche più importanti di risanamento del bilancio in quanto offrono moltiplicatori economici elevati e un impatto positivo sul clima“.
Basta inoltre pensare, per esempio, a come il declino degli insetti impollinatori, se non controvertito, può mettere in ginocchio la nostra agricoltura e di conseguenza tutta la catena della produzione alimentare, per comprendere bene come la tutela della biodiversità è una sicurezza anche per noi stessi.
Per questo la tutela della biodiversità, insieme al contrasto ai cambiamenti climatici, dovrebbe essere oggi elemento fondamentale ed anzi guida di tutte le politiche, in particolare di quelle che determinano le azioni per la ripresa economica dopo la pandemia.
E’ con questa consapevolezza che proprio nella primavera del 2020, in piena esplosione della crisi pandemica, la Commissione Europea ha avuto la volontà e la forza di approvare una nuova Strategia dell’UE sulla Biodiversità per il 2030, Strategia che dovrebbe guidare i Paesi europei in un cammino rivoluzionario per quanto riguarda i rapporti fra uomo e natura, con l’obiettivo conclusivo di giungere nel 2050 ad una situazione in cui tutti gli ecosistemi del pianeta siano ripristinati, resilienti e adeguatamente protetti e dove sia applicato il principio del “guadagno netto”, cioè restituire alla natura più di quanto le sottraiamo. Un obiettivo molto ambizioso, forse irraggiungibile nella sua interezza, ma che deve essere l’elemento su cui costruire fin da oggi tutte le nostre politiche, con una serie di passaggi intermedi di azione e di verifica. La strategia europea al 2030 vuole essere il primo di questi passaggi intermedi, prefiggendosi il traguardo di riportare la biodiversità in Europa sulla via della ripresa entro il 2030, in linea con l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, ed in connessione e sintonia con gli obiettivi di lotta ai cambiamenti climatici.
D’altronde tutela della biodiversità e tutela del clima sono strettamente interconnessi. La biodiversità ha un ruolo fondamentale nel sequestro e nell’immagazzinamento del carbonio. E’ facile pensare in questo senso alle foreste, ma anche altri ecosistemi hanno importanti ruoli. Per esempio le torbiere, che a livello globale contengono più di 550 giga tonnellate di carbonio e sono capaci di sequestrare 0.37 giga tonnellate di CO2 all’anno, e, come le torbiere, i suoli fertili in genere. Inoltre fondamentale è il ruolo del fitoplancton marino nell’accumulare CO2 rimuovendola dall’atmosfera.
Nello stesso tempo, la conservazione della biodiversità naturale rende gli ecosistemi maggiormente resilienti agli impatti da cambiamento climatico e inoltre ci offre soluzioni ‘nature-based’ che possono, e dovrebbero, svolgere un ruolo fondamentale nel contrasto al cambiamento climatico ed ai suoi effetti.
Non è un caso che, nel giugno 2021, è stato pubblicato un primo rapporto congiunto fra i due maggiori organismi internazionali che si occupano rispettivamente di clima e di biodiversità, cioè l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) e l’IPBES (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services), rapporto in cui si sottolinea l’importanza e la necessità di affrontare insieme la crisi climatica e la crisi della biodiversità congiuntamente ai loro combinati impatti sociali.
Allo stesso modo, tornando ai rapporti fra economia e biodiversità, un istituto come il World Economic Forum, ad oggi non proprio avvezzo a posizioni ecologiste e difficilmente tacciabile di posizioni ecologiste preconcette, ha pubblicato nel 2020 un dossier dall’eloquente titolo di ‘Nature risk rising: Why the crisis engulfing Nature matters for business and the economy’, in cui si sottolinea come più di metà del Prodotto Interno Lordo mondiale (44 miliardi di dollari) dipende in modo determinante dalla natura e dai suoi servizi ed è quindi esposto a rischio dalla perdita di capitale naturale.
E’ anche per questo che gli obiettivi della Strategia Europea sulla Biodiversità per il 2030 sono obiettivi che non ci possiamo permettere di perdere ed è importante notare che non sono solo obiettivi di ‘conservazione’ degli ecosistemi che ancora sopravvivono, ma anche di ripristino e ricreazione di ambienti che sono stati deteriorati. Uno degli obiettivi principali della strategia è infatti il ripristino di vaste superfici di ecosistemi degradati e ricchi di carbonio, obiettivo che coincide perfettamente con l’impegno che l’ONU ha voluto lanciare con la dichiarazione del decennio 2020-2030 come ‘Decade on Ecosystem restoration’.
E’ evidente che per raggiungere questi obiettivi ci vogliono volontà, scelte precise e anche destinazioni adeguate di fondi e risorse, nella consapevolezza però che questi fondi e risorse, se ben utilizzati, ci eviteranno disastrose e ben più alte perdite economiche, dovute alla depauperazione dei servizi ecosistemici.
Per iniziare a tutelare davvero la biodiversità, attraverso una svolta nelle politiche internazionali e locali, dovrebbe essere sufficiente la motivazione che anche tutte le altre forme di vita animale e vegetale di questo pianeta hanno diritto a continuare ad esistere, o almeno la considerazione che lasciare ai nostri figli un mondo senza biodiversità significa lasciare un mondo privo di gran parte della sua bellezza. Ma se ancora questo non fosse sufficiente, forse ci potrà far cambiare idea il fatto che senza biodiversità a crollare saranno la stessa nostra economia e con essa i già traballanti equilibri sociali. Lo sapremo nei prossimi anni.
La politica, a tutti i suoi livelli ed in modo coordinato, deve oggi fare una scelta, e deve farlo tenendo ben chiaro che, se così non sarà, non avremo un altro decennio a disposizione per recuperare ciò che non avremo fatto da qui al 2030, perché molto di tutto questo non sarà più recuperabile e saremo destinati a vivere sempre più poveri in un mondo sempre più povero, più insalubre, più inospitale, orfano di quella bellezza che rende la vita degna di essere vissuta.
di Sebastiano Nerozzi* e Giorgio Ricchiuti**
Pur pensando alla pandemia come una crisi sanitaria, non possiamo dimenticare che l’aumento delle zoonosi vede nell’uomo e nelle attività produttive il principale imputato. La crisi ecologica però ha portato alla ribalta, ancora di più di quella finanziaria di un decennio fa, la diseguaglianza diffusa che vediamo nell’accesso alle cure, così come nei problemi nell’accesso alla DAD o nelle sperequazioni fra lavori fra chi ha potuto lavorare in smartworking e chi ha continuato come prima o, peggio ha perso il lavoro. Per non dimenticare la forte diseguaglianza fra paesi nell’accesso ai vaccini. Questi elementi sottintendono una forte diseguaglianza di reddito e ricchezza.
Facciamo un piccolo passo indietro. Dopo la seconda guerra mondiale, la crescita economica dei paesi del blocco occidentale ha portato all’aumento di beni a disposizione di una crescente classe media. Una seconda ondata è arrivata con il processo di globalizzazione finanziaria e della produzione che, sul finire del secolo scorso, ha portato anche all’emersione di un gruppo di paesi (Cina, India, Brasile, fra gli altri) che si sono inseriti di diritto fra i protagonisti delle catene globali del valore. La loro crescita economica sostenuta ha portato alla riduzione della distanza (la diseguaglianza) fra paesi e alla riduzione della povertà assoluta (secondo l’ONU, 800 milioni di persone hanno superato la soglia di povertà assoluta), un miglioramento degli standard di vita, un miglior accesso all’istruzione (Global Multidimensional Poverty Index 2020).
Tuttavia non tutti hanno beneficiato della crescita sostenuta a cavallo del secolo. Sono state le élite di super-ricchi e le classi medie dei paesi emergenti ad ampliare redditi e ricchezza. La distribuzione dei benefici della crescita economica avvenuta nel trentennio glorioso della globalizzazione sono stati descritti in un celebre grafico dell’“elefante di Milanovic”, dal nome dell’economista Branko Milanovic che lo ha realizzato. Milanovic ha stimato infatti i tassi di crescita per ogni percentile di reddito dai più poveri ai più ricchi: dal 1988 al 2008 i nuovi ceti medi nei paesi emergenti hanno visto aumentare di oltre 60-70% il loro reddito (le spalle e la testa dell’elefante), in linea con il 2% più ricco della popolazione mondiale (la proboscide). Al contrario i lavoratori e i ceti medi dei paesi sviluppati (la bocca dell’elefante) hanno visto ristagnare i loro redditi, insieme con i più poveri dei paesi del Sud del mondo (la coda).
E la forte diseguaglianza di reddito e ricchezza è confermata dall’ultimo rapporto mondiale sulla diseguaglianza (WIR, 2022) appena pubblicato. Il rapporto sottolinea come le medie nascondono pericolosamente una forte disparità di reddito sia all’interno dei paesi che fra paesi. Il 10% più ricco della popolazione mondiale assorbe attualmente il 52% del reddito globale, mentre la metà più povera della popolazione ne guadagna l’8%. In media, chi sta fra il 10% più alto della distribuzione del reddito globale guadagna € 87.200 all’anno, mentre chi è nella metà più povera della distribuzione globale del reddito guadagna appena € 2.800 all’anno. E questa disparità è ancora più chiara e pronunciata guardando alla ricchezza. La metà più povera della popolazione mondiale possiede solo il 2% del totale. Al contrario, chi fa parte del decile più alto possiede il 76% di tutta la ricchezza.
D’altra parte la crescita economica non si è solo accompagnata alla diseguaglianza, ma ha anche portato alla “grande accelerazione”, per usare il termine coniato dagli storici dell’ambiente John H. Mc-Neill e Peter Engelke per indicare l’aumento delle emissioni di CO2 dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi e ripreso dalla figura qui sotto.
Se fino alla seconda rivoluzione industriale la biosfera era in grado di assorbire e rigenerare la quantità di CO2 prodotta dall’uomo, l’aumento della produzione si è accompagnato ad un forte aumento di gas climalteranti, causando l’aumento delle temperature globali. E l’aumento è ascrivibile ai paesi occidentali così come a quelli emergenti.
La crescita del PIL si è quindi accompagnata da una parte ad uno squilibrio distributivo e dall’altra ad uno ecologico. Per la teoria economica tradizionale sia l’effetto sulla diseguaglianza che l’impatto ambientale dovrebbero essere transitori. Diseguaglianza e impatto ambientale crescono in una prima fase di sviluppo per poi ridursi una volta che vengono introdotte politiche di protezione ambientale o redistributive. Questo è quello che suggerisce la suggestiva curva di Kuznetz a forma di “u rovesciata”, che associata alla diseguaglianza nella sua formulazione originaria, ha trovato una riproposizione anche in riferimento ai danni ambientali.
Viene delineato quindi un automatismo che però scarica di responsabilità gli attori in gioco: si tratta solo di accettare questi processi (c’è un livello buono di diseguaglianza e inquinamento) e aspettare la loro soluzione quasi naturale. Tuttavia, nel tempo, diversi studi hanno mostrato la fallacia di queste assunzioni e la loro insostenibilità sia sociale che ambientale. Allo stesso tempo, i tempi del cambiamento climatico non possono fermarsi ai se e alla lentezza di un processo così complicato.
Considerando i tempi stretti per ridurre le emissioni e evitare il disastro ecologico crediamo sia fondamentale ribaltare le idee dietro le curve a “u rovesciate” e comprendere come, le politiche di riduzione della diseguaglianza (e della povertà), non sono una conseguenza logica e inevitabile dello sviluppo ma un presupposto necessario per ogni strategia di sviluppo ecologico.
Facciamo un piccolo esperimento mentale, un mero esercizio contabile che può però aiutarci a comprendere meglio la relazione fra produzione (PIL), consumo di risorse e diseguaglianza. Diamo per buone la distribuzione trovata dal WIR: il 50% della popolazione mondiale (circa 4 miliardi di persone) guadagnaa solo l’8% del reddito, mentre il 10% più ricco (ottocento milioni di persone) ricevono il 52% del reddito prodotto, il restante 40% è nelle mani del resto della popolazione mondiale. Immaginiamo, per ipotesi, che questa distribuzione rimanga costante nel tempo e chiediamoci di quanto debba aumentare in reddito (la produzione) mondiale per aumentare di un solo euro il reddito del 50% più povero. Per dare a questa parte della popolazione 4 miliardi di euro, il reddito mondiale deve aumentare di 50 miliardi. Questi non vengono equamente distribuiti, infatti bene 26 (il 52%) arriva al 10% più ricco. Quindi per ogni euro dato a un povero, ne vengono dati 32,5 a chi è nel decile più alto. Facciamo notare che un super ricco (che è nell’1% più ricco) ne riceverà ancora di più.
Chiediamoci adesso cosa succederebbe se, attraverso politiche attive di redistribuzione, limitassimo la quota dei ricchi al 30%, innalzando la quota della metà più povera dall’8 al 20%. Per dare un euro in più dovremmo aumentare il reddito mondiale solo di 20 miliardi (meno della metà di prima). Potremmo quindi produrre di meno, inquinando meno, ma producendo uno stesso aumento di reddito per la parte bassa della distribuzione del reddito. Certo il decile più alto dovrebbe solo accontentarsi di 7,5 euro ma sarebbe sempre il 650% in più di quello ricevuto da un povero. L’effetto positivo sull’ambiente potrebbe essere ancora più elevato se consideriamo che alti livello di reddito sono correlati ad elevate emissioni (i ricchi viaggiano di più, usano meno i mezzi pubblici, etc..), così come mostrato da un OXFAM TECHNICAL BRIEFING del dicembre 2015.
C’è, infine, un ulteriore effetto che va considerato. L’aumento di reddito per le fasce più basse della distribuzione, portando fuori dalla condizione di povertà una buona parte della popolazione del sud del mondo, accellererebbe la transizione demografica in corso, favorendo un contenimento dell’aumento della popolazione mondiale, con un’ulteriore riduzione del consumo di risorse naturali.
Ribadiamo che il nostro è solo un esperimento mentale, un effettivo cambiamento di rotta richiede interventi fiscali su larga scala, il coordinamento di tutti i paesi e il riaggiustamento dei meccanismi e produttivi e redistribuivi (fra profitti e salari). Speriamo però che risulti chiaro come la riduzione della diseguaglianza, favorendo le fasce più disagiate della popolazione, permetterebbe una riduzione della pressione antropica sulla natura. Sviluppo ecologico e riduzione delle diseguaglianze non possono che coevolvere.
___________________
* Sebastiano Nerozzi è professore associato di Storia del Pensiero Economico all’Università Cattolica di Milano ** Giorgio Ricchiuti è professore associato di Politica Economica all’Università di Firenze
Abbiamo intervistato Gianluca Ruggieri, ingegnere ambientale, ricercatore universitario e socio fondatore di ènostra.
Ecoló: Che cosa è ènostra?
Gianluca Ruggieri: ènostra è una cooperativa – probabilmente al momento la più importante cooperativa in Italia che si occupa di fonti rinnovabili – che produce e vende elettricità da fonti rinnovabili.
E: Ci dai tre buoni motivi per i quali un utente che non ha mai cambiato fornitore di energia dovrebbe scegliervi?
GR: Il primo è che cerchiamo di essere protagonisti della transizione energetica con un progetto che tiene insieme, da una parte l’efficienza energetica dall’altra la produzione di elettricità da fonti rinnovabili. Il secondo è che essendo una cooperativa non siamo a scopo di lucro e quindi tutti i benefici generati vengono poi ripartiti tra i soci. Il terzo è che è un vero progetto di comunità anche se di grandi dimensioni.
E: Quanti sono i soci?
GR: Siamo più di 9.000 oramai, in crescita da quando siamo nati. La cosa importante è che siamo arrivati alla soglia, per noi considerata critica, intorno alle 5.000 persone, che ci consente di essere sostenibili nel tempo e operare con maggiore tranquillità.
E: Come si fa in pratica a cambiare operatore?
GR: Essendo una cooperativa, ènostra, richiede di diventare soci con un versamento iniziale di 50€ per poter attivare il contratto. Detto questo, diventare socio, attivare il contratto di fornitura e interrompere il contratto precedente è un’unica operazione che si fa compilando una procedura online (pensiamo noi a contattare il precedente fornitore del passaggio). E’ tutto molto semplice e guidato, di solito per uno che ha una minima alfabetizzazione informatica non costituisce un problema. Una volta diventati soci, attraverso il pagamento di una sorta di prima bolletta “0” del valore di 50€, il trasferimento dell’utenza avviene in un’unica operazione. Se uno è titolare di più contratti l’iscrizione a socio è sufficiente effettuarla solo alla prima attivazione.
E: Mi posso aspettare che, almeno nel breve periodo, potrebbe aumentare il costo di quanto andrò a spendere?
GR: Al momento, per la tariffa standard dei soci cooperatori (che versano come si diceva 50€ una tantum), abbiamo un extra costo equivalente a un cappuccino al mese rispetto al servizio di maggior tutela (tra i 10 e 15 € all’anno per una bolletta media). Poi c’è la possibilità di diventare socio sovventore, con la possibilità di attivare una tariffa particolare chiamata “prosumer” che due caratteristiche particolari. La prima è di avere un prezzo fisso che dipende soltanto dalla prestazione dei nostri impianti, quindi completamente sganciato dal mercato dei fossili e, in un momento come questo in cui il gas ha un prezzo alto diventa molto conveniente. L’anno scorso invece, quando il costo di generazione era molto più basso ovviamente non eravamo competitivi. L’altra caratteristica è che ha un bonus e quindi vengono in qualche modo scalati dei kWh proporzionali con il tipo di investimento che si è fatto (stiamo parlando di investimenti di cifre relativamente piccole, dai 500 ai 1.000-2.000 €, poi ognuno trova la sua taglia, anche in funzione dei suoi consumi). In un momento in cui il kWh del mercato costa tanto – come questo – il beneficio economico è molto rilevante in termini proprio di rendimento percentuale sul capitale investito, con pochi concorrenti al momenti. (ndr … e che magari sono investimenti in mine antiuomo!).
E: Un freno al passaggio di fornitore potrebbero essere dubbi sulla vostra solidità societaria (pensiamo ai casi di Eviva e Gala). Si tratta di un dubbio infondato? O ènostra potrebbe andare a gambe all’aria nel giro di qualche mese mettendo in difficoltà chi vi sceglie?
GR: Ovviamente tutte le imprese, compresa ènostra, hanno un rischio che fa parte della vita delle imprese. Nel nostro caso il tentativo che è sempre stato fatto è quello di crescere in maniera equilibrata tra la nostra produzione e la nostra vendita e di avere contratti che ci garantiscano, difatti in questo momento tariffe fortemente convenienti riusciamo a farle soltanto per l’energia che produciamo noi. E’ chiaro che, per esempio, avendo appena inaugurato una pala eolica, se questa dovesse crollare costituirebbe un problema, però, per le dimensioni che abbiamo adesso, sarebbe un problema che saremmo in grado di gestire.
Eravamo molto più a rischio quando all’inizio eravamo una piccola società con 1000-2000 soci e per i primi anni abbiamo accumulato delle perdite, comunque previste dai nostri piani. L’idea era che essendo pochi non potevamo tenere i prezzi molto alti per non fare buchi in bilancio ma rischiando poi di non convincere nessuno a diventare socio. Abbiamo invece optato per tenere i prezzi relativamente bassi sapendo di correre qualche rischio iniziale, ma adesso che siamo alle dimensioni che dicevamo prima i conti tornano e con il 2020-2021 andremo a coprire una parte significativa delle perdite accumulate nei primi 5-6 anni di attività. Quindi il rischio c’è sempre, però per come si è costruito il modello, lontano da qualsiasi tipo di speculazione, questo è per sua natura anche un pochino più stabile e tranquillo.
E: In un mercato in cui tutto viene venduto come “green” come faccio ad essere sicuro che ènostra non sia l’ennesima operazione di greenwashing?
GR: Tre cose: la prima è che sulla totalità della nostra energia abbiamo le garanzie d’origine, certificazioni che garantiscono sulla provenienza da fonti rinnovabili. La seconda è che abbiamo degli impianti di proprietà che sono fatti secondo dei criteri, non solo di rinnovabilità, ma anche di basso impatto ambientale. Il terzo tema, che per noi è sempre fondamentale, è che il nostro è un progetto a 360°. Il supporto che diamo ai nostri soci che vogliano produrre energia elettrica a casa loro con un impianto fotovoltaico, o ridurre i loro consumi energetici, per esempio con operazioni come quelli presenti adesso favorite dal Superbonus 110% o altro tipo di detrazioni, fa sì che emerga chiaramente come il progetto della cooperativa sia quello di abbattere l’impronta ecologica dei nostri consumi energetici. Per assurdo, se un giorno tutti i nostri soci fossero totalmente autosufficienti in termini di consumo energetico, ènostra a quel punto potrebbe chiudere e lo farebbe avendo raggiunto il suo obiettivo, che è quello della transizione. Il nostro obiettivo non è quello di massimizzare il fatturato o il rendimento sul capitale investito, il nostro obiettivo è fare l’interesse dei soci. E’ un approccio molto diverso di quello che ha un grosso investitore che, in questo momento trova la tematica green molto interessante e ci si butta dentro e magari si fa pochi scrupoli su cosa c’è veramente dietro.
E: Esistono realtà simili a ènostra in Europa e nel mondo?
GR: ènostra fa parte di un movimento più ampio, in particolare facciamo parte di RESCOOP, associazione europea delle cooperative e iniziative di comunità che si occupano di rinnovabili in Europa. Lavoriamo soprattutto con altre realtà europee ma esistono altre realtà nel mondo, che hanno un approccio simile ma con modelli diversi, a seconda del contesto locale. Per chi fosse interessato ad approfondire recentemente è uscito “We the power” documentario prodotto da Patagonia ne racconta alcune.
GR: C’è un rapporto tra ènostra e comunità energetiche? Cosa pensi della modifica alla legge che le regolamenta e che futuro industriale vedi per questo tipo di progetti?
E: La nuova legge è ancora in bozza per cui ci sono ancora molti punti di domanda. Rispetto alla legge attualmente in vigore ci sono sicuramente aspetti positivi che allargano le dimensioni della comunità energetica. Le comunità energetiche sono per loro natura indipendenti a controllo locale ed i membri possono scegliere il fornitore, ma nell’ottica della transizione abbiamo lavorato, stiamo lavorando e lavoreremo alla promozione di realizzazioni di comunità energetiche: al momento stiamo portando avanti una dozzina di progetti, con differenti stati di avanzamento. Il nostro ruolo è di facilitatore iniziale del progetto con la redazione di studi di fattibilità, oppure con un ruolo più tecnico di assistenza nel dimensionamento e realizzazione del progetto collettivo, altrimenti è di dare supporto alla definizione dello statuto della comunità energetica che si va a formare. In sintesi abbiamo un ruolo di consulenza su tutto il percorso che porta alla creazione dell’ente giuridico. Anche se si potrebbero vedere questi progetti come concorrenti siamo contenti di aiutare allo sviluppo di questo approccio.
E: Se fossi un condominio che vuole creare una comunità energetica posso rivolgermi a ènostra per avere un supporto al loro percorso fornendo una consulenza? E quanto potrebbe costare?
GR: Il costo dipende da cosa ci viene chiesto di fare e non è detto che sia conveniente. Mentre in passato il “conto energia” era molto generoso adesso è necessario prestare molta attenzione, altrimenti la consulenza rischia di costare più del beneficio economico, per cui stiamo attenti a dosare il tipo di intervento che proponiamo a chi ci contatta. Nel caso di condominio, il consiglio è che sia il condominio stesso a fare la parte di discussione e partecipazione inziale, curando noi dimensionamento e valutazione tecnico-economica del progetto, con un costo di consulenza molto limitato.
E: Se oltre a cambiare operatore volessi investire in ènostra, quali prospettive e rendimenti mi aspetterei?
GR: Oltre a quanto detto prima, il motivo per cui immagino che qualcuno possa voler investire in ènostra è favorire l’uscita dalla dipendenza dei fossili. Dopodiché in un momento come questo, con il costo dei fossili molto alto, questa scelta può voler dire guadagnarci molto. In altri momenti potrebbe voler dire guadagnarci meno. La scelta quindi dipende molto dalle motivazioni personali. La tariffa è stata disegnata perché possa essere conveniente quasi sempre nelle condizioni di mercato che ci possiamo aspettare, però potrebbe ricapitare come l’anno scorso durante il lockdown che il prezzo dell’energia crolli a causa dell’eccesso di offerta in quel caso la nostra tariffa non sarebbe più conveniente. Certo se qualche calamità compromettesse il nostro impianto di Gubbio questo cambierebbe il beneficio per l’investitore.
E: L’investimento però è in ènostra, non in un unico impianto, corretto?
GR: Sì, ma un l’impianto appena realizzato è piuttosto grande rispetto al totale della nostra produzione.
E: Quanta energia producete attualmente?
GR: Con l’entrata in funzione di questo nuovo impianto arriveremo a 3 GWh/annui a regime e con il vento atteso, al momento la produzione è di 1,1 GWh/annui
E: Noi vediamo nel prosperare di esperienze come la vostra piccoli segni di transizione ancora in gran parte sulla carta nel nostro paese. Cosa pensi che manchi nel nostro paese perché possa prendere davvero il via il cambiamento necessario?
GR: Stiamo piano piano arrivando al momento in cui c’è una consapevolezza diffusa che la transizione e la decarbonizzazione siano una strada segnata. Ci abbiamo messo parecchio tempo: il protocollo di Kyoto è del 1997 e quindi sono passati quasi 25 anni, però alla fine ci siamo più o meno arrivati. Il punto è che ci possono essere modelli diversi di transizione, quelli in cui vengono ribaditi i poteri delle grandi aziende oligopoliste o modelli in cui c’è maggiore potere alle comunità e ai cittadini; modelli in cui c’è una maggiore attenzione al tema della povertà energetica, di una giusta transizione, e modelli in cui questi sono considerati perdite collaterali, come si diceva alle volte. Di sicuro è una buona notizia che nell’ultima settimana si è sentito il presidente Draghi dire delle cose che non ha mai detto nessun Presidente del Consiglio italiano. Probabilmente quello che manca è una visione di insieme che faccia sì che questa transizione, che più o meno adesso sappiamo che dobbiamo fare, venga disegnata in modo tale che se qualcuno deve pagare di più, sia qualcuno che se lo può permettere, e chi non se lo può permettere possa partecipare a questo processo senza essere escluso. Faccio esempi molto banali. E’ chiaro che nel momento in cui mettiamo forti incentivi sulle auto elettriche, che vanno a premiare auto di grande cilindrata, che magari costano 50 – 70 mila euro, disegniamo dei destinatari di questi benefici che non sono esattamente i ceti meno abbienti. Un altro esempio banale, nella Regione dove abito, la Lombardia, come operazione post-covid per rilanciare l’economia si è pensato di concludere la costruzione dell’autostrada pedemontana; io non credo che costruire nuove autostrade sia un modo per facilitare la transizione, almeno al momento. Magari fra 20 anni avremo tutti mezzi di trasporto super-efficienti e a zero emissioni, e allora ne riparliamo, ma al momento se ho delle risorse non le metto certo nella costruzione di nuove autostrade, perché vado esattamente nel senso opposto.
E: La politica potrebbe fare di più per aiutare progetti cooperativi come il vostro? Avete interlocutori utili nelle istituzioni? Sentite la mancanza di referenti credibili sulla transizione ecologica?
GR: Abbiamo avuto degli interlocutori e tuttora abbiamo interlocutori che ci ascoltano. In generale, mi sembra di poter dire che per fortuna siamo nati qualche anno fa e arriviamo a questo momento, che è un momento di grandi cambiamenti sia sul piano delle comunità energetiche sia sul piano della transizione in generale, avendo messo dietro le spalle un po’ di anni di attività, un po’ di credibilità , un po’ di numeri, che fanno sì che siamo un interlocutore credibile anche per le istituzioni, che non sono solo la politica, perché nel settore energetico ci sono enti e l’Autorità che hanno un ruolo importante.
Quando ormai tre anni fa si discuteva di come mettere nelle Direttive europee il tema delle comunità energetiche, abbiamo lavorato benissimo con esponenti italiani al Parlamento europeo e oggi lavoriamo bene con la Commissione Industria del Senato italiano. Quindi ci sono persone con cui abbiamo avuto relazioni, ma mi sembra che la cosa più interessante sia il fatto che siamo arrivati ad avere una dimensione ed una credibilità tale per cui siamo abbastanza riconosciuti al di là dell’avere un contatto nelle istituzioni che ti ascolta perché ti conosce personalmente e apprezza il tuo progetto.
Sul fatto che la politica possa fare di più per aiutare progetti imprenditoriali come il nostro, capisco che è complicato. Mi verrebbe da dire ‘semplificare’, ma è chiaro che c’è anche un tema di garanzia degli utenti finali.
E allora se semplificare poi rischia di introdurre situazioni come quella che citavi prima (ndr Gala), se tu favorisci la creazione di cooperative energetiche e lo fai in un modo che poi apre le porte a progetti speculativi, forse non stai facendo la cosa migliore.
Quindi io non saprei darti una risposta precisa su come poter favorire. Di sicuro c’è tutto un tema di semplificazione burocratica nel campo delle rinnovabili che però è più generale, cioè non riguarda solo noi ma più meno tutti gli operatori, che complica tanto, allunga i tempi e di conseguenza aumenta poi anche i costi. Cioè tecnologie che tecnicamente potrebbero essere anche competitive e convenienti, poi non lo sono perché tu inizi a fare un progetto e non sai quando finisce e non sai se finisce bene o se non finisce bene, cioè hai molto poche certezze.
E: Grazie del tuo tempo e della tua disponibilità Gianluca!
Non è un caso se gli alberi ci piacciono così tanto. Gli alberi sono sempre stati fonte di vita, protezione e progresso per la nostra specie. E anche nella transizione ecologica che dobbiamo affrontare gli alberi saranno nostri alleati. Assorbendo CO2 ci aiutano a frenare il riscaldamento globale, ma soprattutto sono nostri alleati nel renderci meno fragili di fronte alla crisi climatica in atto, mitigano le isole di calore, diminuiscono il rischio di smottamenti durante i fenomeni di precipitazioni estreme. E poi gli alberi sono l’habitat naturale di tanti animali, tutelano la biodiversità nelle nostre città e sono incredibilmente belli!
Per questo motivo il primo dei nostri cinque punti è dedicato agli alberi. Abbiamo deciso di lanciare uno slogan semplice e orecchiabile “10 alberi al giorno” ma questa formula merita di essere spiegata e approfondita. Di quali alberi parliamo? È importante non fermarsi a un mero conto degli alberi che riusciremo a far piantare nei prossimi cinque anni. Questo potrebbe indurci a piantare molti alberi giovani, magari sostituendone di più vecchi, malgrado godano di buona salute. Il nostro progetto di forestazione urbana dovrà invece partire da un monitoraggio attento del patrimonio arboreo presente sul territorio comunale, in particolare per quanto riguarda le zone urbane e periurbane. Questo monitoraggio dovrà essere pubblico: vogliamo che il Comune realizzi un open database dell’alto fusto consultabile da tutti i sestesi on-line. Questo metterà in grado il cittadino di verificare, per tutti gli alberi in zona urbana, l’età, la storia della manutenzione, gli interventi programmati e la classe di rischio.
È importante che la classe di rischio degli alberi sia conosciuta e che i cittadini possano segnalare situazione dubbie per evitare, in presenza di fenomeni estremi sempre più frequenti, situazioni come quella avvenuta a metà frebbraio in vicinanza dell’asilo Il Gatto e la Volpe.
Crediamo che le piante non pericolose, anche se vecchie, non vadano sostituite ma salvaguardate. Se è vero che le piante giovani sono molto attive nella cattura di CO2 è infatti anche vero che le dimensioni di una pianta adulta consentono maggiori servizi ecosistemici, che non si limitano, ma comprendono anche l’assorbimento e lo stoccaggio dell’anidride carbonica.
Il progetto che immaginiamo ha due obiettivi: la messa a dimora di alberi in tutta la città, ad iniziare dalle zone più spoglie in periferia che si trasformano in estate in terribili isole di calore (e sempre più lo faranno!). Ma anche la piantumazione di una vera e propria zona di bosco, fuori dalla città, come ad esempio attorno all’area Perfetti-Ricasoli.
La forestazione urbana di Sesto potrà comprendere anche progetti affascinanti come quelli della piantumazione sugli edifici in via di realizzazione a Prato all’interno del progetto Prato Urban Jungle. È affascinante vedere come si possa aumentare il verde anche senza necessariamente creare foreste urbane. Orti sui tetti, giardini verticali e tetti erbosi sono progetti interessanti che il Comune dovrebbe sperimentare nei prossimi cinque anni, anche sfruttando finanziamenti legati al PNRR.
Ma è importante sperimentare in modo oculato, tenendosi alla larga da progetti spettacolari che non hanno capacità di essere sostenibili nel lungo periodo o che necessitano di ingenti quantità di acqua ed energia per rimanere in vita. Qualcuno ha notato che fine ha fatto il giardino verticale de Le Murate a Firenze?
Lo sforzo per piantare oltre 15mila alberi in cinque anni dovrà essere grandioso. In termini di risorse e di capacità amministrativa. Stiamo parlando sicuramente del progetto più complesso che Sesto abbia realizzato negli ultimi decenni.
Ma ci sono alcuni accorgimenti necessari e non secondari alla realizzazione del nostro progetto di forestazione urbana:
Laura Santi e Zoe Tartaro sono due attiviste di Fridays For Future Firenze e stanno preparando, con tanti altri volontari, la manifestazione globale per la crisi climatica del 24 Settembre. Le abbiamo incontrate e ci siamo fatti raccontare come procedono i preparativi e tanto altro sulla loro militanza in FFF.
Ecoló: Iniziamo subito dalle cose importanti: cosa succede il 24 settembre?
Laura Santi e Zoe Tartaro: Ci sarà lo Sciopero Globale per il Clima in tutto il mondo e a Firenze ci sarà il corteo che partirà da Santa Maria Novella alle 9.30 e finirà in SS. Annunziata qualche ora dopo. Oltre al corteo e ad alcuni interventi ci sarà musica con i Pulsar, una band dal vivo che animerà la manifestazione.
Ecoló: Oltre a venire in piazza con voi venerdì che cosa possiamo fare in concreto per darvi una mano?
LS e ZT: Diffondere la voce il più possibile, fare informazione, mobilitare tutte le persone che conoscete, gli iscritti alla vostra associazione, qualsiasi persona. Bisogna soprattutto ricordare che non è lo sciopero dei Fridays, è lo sciopero di tutti, interessa tutti, è l’emergenza di tutti, perciò bisogna impegnarsi per trasmettere questo senso di urgenza. Per dare concretamente una mano all’organizzazione può essere molto utile dare un contributo economico attraverso il crownfunding (https://www.indiegogo.com/projects/sostieni-fff-firenze-e-pistoia–2#/ ), con la possibilità di acquistare un adesivo o un termoadesivo. Ancora più importante sarà partecipare alla manifestazione.
Ecoló: Ora, se non vi dispiace, vorremmo fare un passo indietro. Cosa vuol dire per voi essere attiviste di FFF? Come vi siete convinte a essere parte attiva del movimento?
LS: Essere attivista significa prendere parte al cambiamento del pianeta e cercare di far capire alla gente che cosa sta succedendo, quindi lottare per avere un futuro. Inoltre, per me è bello far parte di un gruppo, stare con persone che hanno a cuore le tue stesse cose. Io sono in Fridays da Dicembre scorso e sono entrata forse nel peggiore momento per il movimento, ma nonostante questo è molto bello fare qualcosa di concreto e condividere pensieri e preoccupazioni riguardo alla questione climatica.
Ecoló: Tre anni fa è sembrato che il mondo occidentale si svegliasse tutto insieme, migliaia di manifestazioni in tutto il mondo, fiumi di ragazzi che si riversavano in strada. I politici sembravano rendersi conto che FFF era il grande movimento progressista e di cambiamento emergente… poi cos’è successo?
ZT: Io mi sono unita al movimento dei FFF al secondo presidio, nel 2019, quando ero ancora all’ultimo anno di liceo. Dopo non molto è arrivata la pandemia. A mio avviso è stata la comunicazione online che ha limitato e frenato il coinvolgimento delle persone, che hanno patito a fare tutto attraverso uno schermo. Il COVID ha messo in crisi un po’ tutto il movimento non potendosi vedere in presenza, linfa vitale dell’attivismo. Però il movimento, pur affievolendosi un poco, ha sempre resistito.
Ecoló: Qual’ è lo stato oggi del movimento in Toscana e in Italia?
LS e ZT: Ci sono città che sono rimaste più attive di altre (Milano, Torino, Brescia ad esempio, mentre ad esempio Roma si è un po’ affievolita rispetto al suo periodo glorioso, come anche Firenze). Qualche gruppo locale è andato un po’ in letargo ma con questa manifestazione siamo ritornati tantissimi, come si può vedere anche dai social della pagina la quale ha pubblicato la mappa di tutti i gruppi locali che manifestano.
Ecoló: Pensate che ci sia anche qualcosa di più profondo che si è modificato con la pandemia? C’è stato anche un rimescolamento delle priorità nell’immaginario delle persone? C’è una tendenza maggiore a salvaguardare il proprio spazio sicuro, messo cosi in crisi dalla pandemia?
LS e ZT: Sì certo, la pandemia ha messo in crisi tutto, ha creato molta ansia, ha aumentato il disagio sociale ma ha ridotto le energie, ci siamo abituati a restare in casa, a salvaguardarsi, a pensare che la pandemia non è conclusa, e in effetti non lo è. E poi la pandemia ha fatto mettere da parte per mesi l’argomento della crisi clima, che si è perso nell’opinione pubblica.
Ecoló: Torniamo allo sciopero del 24. Per la prima volta questo settembre ci saranno in piazza con voi anche simboli di associazioni. Inizialmente era richiesto che nessuno esponesse simboli di appartenenza, cosa è successo?
Inizialmente volevamo rendere la piazza più omogenea e unita possibile. Evitare scontri ed evitare di dire a qualcuno sì e a qualcuno no. Anche se vedere la molteplicità delle realtà in piazza sembra bello, avevamo timore che potessero nascere tensioni. Ora abbiamo deciso di permettere qualche simbolo in piazza alle associazioni che si occupano di tutela del territorio e a quelle che si occupano di tutela dei diritti delle persone discriminate e marginalizzate dalla società. Questo perché in questa fase secondo noi è necessario fare rete con queste realtà nel territorio: per noi giustizia climatica significa anche giustizia sociale. La crisi climatica non colpisce e non colpirà tutti nello stesso modo. Vorremmo anche intervenire in piazza su questi argomenti, perché sia chiaro che giustizia climatica e sociale vanno necessariamente di pari passo e che anzi, giustizia sociale sia sottointesa in giustizia climatica, o meglio, quasi sinonimo.
Ecoló: E i partiti? Pensate che possano avere un ruolo?
LS e ZT:I partiti ce l’hanno già un ruolo: affrontare questa situazione nel miglior modo possibile nelle istituzioni in cui sono già presenti. Sarebbe meglio che lavorino insieme, FFF è apartitico, si rivolge a tutti. Quello che ci aspetteremmo è che i partiti si unissero per lavorare sulla transizione ecologica. La crisi climatica non ha colore di partito, secondo noi dovrebbe appartenere a qualsiasi partito.
Ecoló: Dopo le prossime elezioni quindi il vostro scenario ideale è un governo di unità nazionale che faccia la transizione ecologica?
LS: Il nostro scenario ideale è che non ci siano ostacoli alla transizione. Occorre procedere spediti, abbiamo sei anni di tempo. Quindi sì, un governo in cui ci siano dentro tutti quelli che sono disposti a fare la transizione ecologica.
ZT: Io personalmente non sono un’esperta, sono una studentessa del secondo anno di università, e ancora non ho un’opinione salda e definita, ci sto ancora riflettendo, ma quello che abbiamo chiaro è che occorre evitare che ci siano ostacoli alla transizione ecologica quindi, per quanto mi riguarda, viene quasi naturale pensare all’unità nazionale.
Ecoló: Avete in mente quali scelte andrebbero fatte per favorire la transizione, o vi limitate a denunciare l’urgenza della crisi climatica, chiamando i politici a trovare delle soluzioni?
LS e ZT:Abbiamo alcune certezze, ad esempio su cosa non bisognerebbe fare: ora, a 6 anni dal punto di non ritorno, non si può fare la transizione ecologica con il metano.
Ecoló: Come si riesce a coordinare un gruppo come questo, nel quale non ci sono gerarchie, come fanno a decidere i FFF?
ZT:Non pensiamo che le gerarchie siano necessariamente inutili, ma sta di fatto che FFF, contrariamente alle aspettative di molti, da tre anni riesce a coordinarsi attraverso strumenti orizzontali. Ci sono più strutture orizzontali, assemblee territoriali che tendono a decidere per consenso e solo raramente a maggioranza. Non esiste una gerarchia malgrado esistano livelli differenti (comunale, regionale, nazionale europeo ed internazionale). I portavoce locali, che non hanno ruoli decisionali ma solo di trasmissione di informazioni, si comunicano fra loro le decisioni dei loro gruppi di appartenenza. Il livello nazionale ad esempio è una rete di portavoce locali, non si passa attraverso il livello regionale.
Ecoló: come si prende una decisione sulla quale ci sono divergenze forti, magari fra gruppi locali? Una decisione come quella di aprire ai simboli delle associazioni come viene presa?
LS e ZT: Su quel tipo di decisione ogni gruppo locale si è mosso in autonomia, altre città hanno da subito accettato ad esempio la partecipazione dei sindacati e delle associazioni, ma sono poche. Ci sono state situazioni complicate che sono state però sempre risolte con la volontà di tutti, anche a livello nazionale, di trovare una soluzione di consenso; solo raramente si è votato a maggioranza. Un esempio di decisione presa mediante la votazione per maggioranza è stata la posizione di FFF contraria alla TAV in Val di Susa.
Ecoló: non possiamo che ringraziarvi per questa bella chiacchierata e invitare tutti a donare qualche euro per sostenere la manifestazione e soprattutto esserci.