Un anno e mezzo fa abbiamo intervistato Jouni Kantola, giornalista fiorentino-finlandese, riguardo all’elezione di Sanna Marin. Oggi, dopo due anni di governo e in concomitanza con la svolta storica della richiesta di ingresso della Finlandia nella NATO, l’abbiamo ricontattato per chiedergli della svolta nella politica di difesa della Finlandia.
ECOLO’: Per prima cosa, come giudichi questi quasi due anni e mezzo di governo della premier finlandese?
E’ difficile giudicare l’operato della premier finlandese e paragonare il lavoro del suo governo a quello dei governi precedenti a causa della pandemia: Marin ha iniziato il suo mandato come primo ministro pochi mesi prima del primo lockdown. Di conseguenza la quasi totalità del suo tempo come primo ministro è stata dedicata all’emergenza sanitaria. C’è poco di “normale” in questo e di paragonabile al lavoro dei suoi predecessori. Detto ciò, Marin ha dimostrato una leadership forte e ha guadagnato un buon consenso fra i cittadini. La disoccupazione è ai minimi storici e l’interesse internazionale nei confronti della Finlandia è tendenzialmente alto, paradossalmente anche grazie alla sua indiscutibilmente bella presenza.
ECOLO’: Parlando del motivo fondamentale di questa seconda intervista, come pensi che stia gestendo l’evoluzione del posizionamento del tuo paese nel panorama geopolitico attuale?
A mio parere la sta gestendo bene. In Finlandia nella politica estera il presidente della repubblica ha un ruolo importante e Marin ha gestito il cambiamento del nostro posizionamento geopolitico insieme con il presidente Niinistö e con il parlamento. E’ curioso che questo modello di gestione degli affari esteri abbia molto a che vedere con “finlandizzazione”, cioè la condizione di neutralità del paese necessaria per mantenere l’indipendenza nei confronti della Russia. Il garante dei nostri rapporti con la Russia dopo la seconda guerra mondiale è stato tradizionalmente il presidente della repubblica, una specie di “uomo approvato” da parte della Russia.
ECOLO’: Non pensi che invece che rafforzare la NATO sarebbe preferibile una forza di difesa europea, scelta che consentirebbe anche di ridurre invece che aumentare le spese militari nel continente?
No, non lo penso. La guerra d’invasione da parte dei russi in Ucraina ha rimosso ogni dubbio riguardo a cosa sia capace la Russia e, dall’altro lato, quale è il destino di un paese che non fa parte dell’alleanza NATO. Rimane solo. Noi finlandesi abbiamo già combattuto contro la Russia da soli nella seconda guerra mondiale e sinceramente se dovesse capitare di affrontare nuovamente la Russia in guerra non mi dispiacerebbe trovare qualche italiano, spagnolo, norvegese, inglese, danese etc accanto ad aiutarci. La NATO è la risposta concreta e credibile che esiste già. Sono a favore di rafforzare una difesa europea in linea con il peso economico dell’UE, però oggi, con Putin che si muove in questo modo, abbiamo bisogno di più garanzie immediate.
ECOLO’: Cosa ti aspetti che succederà ora in Finlandia, sul suo confine est e nella NATO?
Spero niente. L’obiettivo della Finlandia con l’ingresso nella NATO è il mantenimento dello status quo o il limitare al massimo possibili evoluzioni. Vogliamo mantenere la nostra democrazia, istituzioni e cultura e vediamo nella NATO il garante di questo. Non temiamo l’invasione da parte degli svedesi, tedeschi oppure americani, con cui condividiamo anche un patrimonio di valori comuni, istituzioni e idee. La nostra unica minaccia è la Russia. I russi possono essere dei grandi bugiardi, come abbiamo visto, e si ragiona male con uno Zar lanciato verso l’invasione. Ma i russi capiscono la forza: c’è un proverbio russo che si traduce “Prova con la baionetta. Se fosse morbido, spingi, se invece fosse duro, girati e vai via”. Ci tengo a dire che mia nonna dovette lasciare la sua bellissima casa di legno sulla riva del lago Laatokka in Carelia dopo la seconda guerra mondiale insieme a oltre 400.000 altri finlandesi. Dietro alle sue spalle, i russi si accomodarono in casa sua. Abbiamo una memoria. Possono passare tanti anni di pace, ma prima o poi partono all’attacco. Finché non fanno i conti con il loro passato e finché non osano chiedere la democrazia, giustizia, diritti civili e la verità, non ci possiamo fidare. Occorre prendere delle precauzioni.
Presi dall’entusiasmo per l’elezione di Sanna Marin in Finlandia abbiamo intervistato Jouni Kantola, giornalista fiorentino-finlandese e co-amministratore di Berta Film, un’azienda produttrice e distributrice di film documentari e fiction.
ECOLO’ : In Italia ci facciamo spesso prendere da ubriacature di entusiasmo esterofilo, Zapatero, Hollande, Tsipras, che effetto ti fa vedere oggi tanto entusiasmo sulla stampa italiana riguardo alla nuova premier del tuo paese?
Jouni Kantola: L’entusiasmo riguardo al governo finlandese, una coalizione dove i cinque partiti della maggioranza sono tutti guidati da donne, quattro delle quali sotto i 35 anni di età, è stato un entusiasmo mondiale, penso che l’Italia non potesse mancare all’appello. È importante però capire e riconoscere che non si tratta di una messinscena populista: la parità di genere in Finlandia viene da lontano. Nel 1906, la Finlandia fu il secondo paese nel mondo dopo l’Australia a introdurre il suffragio alle donne. La generazione detta ‘millenials’, di cui fanno parte le quattro donne che attualmente guidano i partiti del governo finlandese, è cresciuta con la Presidente Tarja Halonen, che fu la prima donna a ricoprire questa carica dal 2000 al 2012. La parità di genere in Finlandia è nei fatti. C’è un consenso diffuso in Finlandia sul fatto che che Sanna Marin e le sue colleghe ministre occupino le loro cariche politiche non perché sono donne, ma perché sono le persone più qualificate che la nazione ha a disposizione al momento.
ECOLO’ : Vuoi raccontarci qualcosa di Sanna Marin? Come è arrivata così giovane a fare la premier?
Sanna Marin è qualificata, tosta e intelligente. Ha una laurea in scienze dell’amministrazione e ha militato nei giovani del Partito Socialdemocratico Finlandese. Nel 2012 è stata eletta nel Consiglio comunale di Tampere, la terza città Finlandese. Come presidentessa del Consiglio comunale di Tampere dimostra le sue capacità di dirigere gruppi politici, talvolta molto discordanti, arrivando a risultati concreti e comprensibili per i cittadini. Alcune di queste sedute del Consiglio comunale, trasmesse live via internet, diventano virali e aumentano la sua visibilità nazionale. Membro del parlamento finlandese dal 2015 e ministro dei trasporti e delle telecomunicazioni della Finlandia dal 2019, aveva già ricoperto il ruolo di primo ministro durante la malattia del ex-presidente Antti Rinne. Nella vita privata è sposata con un figlio; è cresciuta come figlia di una coppia gay, ovvero due mamme. Nella sua infanzia ha subito una povertà insolita nel contesto finlandese e di conseguenza ha una particolare attenzione riguardo a questioni di povertà. Sulla mappa politica destra-sinistra, Sanna Martin è sulla sinistra anche all’interno del suo stesso partito dei Socialdemocratici.
ECOLO’ : Cosa ti aspetti che possa fare Sanna Marin, al di là del potere simbolico del suo successo, per migliorare la situazione della Finlandia?
JK: Lei deve governare e garantire che il programma di governo sia realizzato, è questo il suo mestiere. La sfida è notevole, perché un pezzo fondamentale del suo governo, il Partito di Centro Finlandese, è in contrapposizione con gli altri elementi della coalizione sulle politiche ambientali e sul mercato di lavoro. Inoltre, eredita una difficile situazione nel mercato di lavoro dal governo precedente di centrodestra, dove i lavoratori hanno dovuto affrontare molti sacrifici. Il programma di governo c’è però, ed è firmato da tutta la coalizione. Lei può essere la garante di questo programma, dovrà riuscire a fare in modo che i voti dei cittadini alle elezioni di Aprile 2019 si traducano in atti.
ECOLO’ : La Finlandia ambisce a emissioni nette zero di C02 entro il 2035, credi che l’impegno del nuovo governo sui temi ecologisti sia credibile?
JK: La Finlandia può sfruttare dei sink biosferici importanti grazie al suo patrimonio forestale che la favorisce nel tentativo di emissioni nette zero, però per arrivare a tale scopo entro 2035, dovremmo vedere cambiamenti radicali subito e su tutti i settori chiave della società: industria, logistica e produzione del riscaldamento ed energia elettrica. Il cambiamento non è stato avviato ancora e perciò le dichiarazioni del governo al giorno di oggi non sono credibili. Detto questo, le elezioni erano ad Aprile 2019 e il termine del governo scade Aprile 2023. Il saldo totale di questa ambizione va visto al termine del mandato, ma è certamente urgente che questo governo passi all’azione.
ECOLO’ : Pensi che il ruolo della donna sia così diverso nella società finlandese rispetto a quella italiana? Oltre a motivi culturali, credi che ci sia qualcosa che le istituzioni potrebbero fare?
JK: L’occupazione femminile in Italia è intorno al50%, penultimo posto in Europa. In Finlandia l’occupazione femminile è intorno al 70%, in crescita. Credo che ci sia l’imbarazzo della scelta fra le politiche che le istituzioni potrebbero mettere in atto per migliorare la parità di genere in questo paese, ma non sono esperto di questa materia. Certamente la gestione dei figli nella coppia e il sostegno reciproco che la società può garantire per entrambi i sessi per evitare l’emarginazione a causa della maternità è fondamentale. Le istituzioni però non esistono in astratto, ma riflettono la cultura e valori del paese. Ecco perché non si scappa: in un contesto in cui la donna non è considerata degna di rappresentare Dio o di partecipare alla massoneria, dove vogliamo andare? Non credo che sia un caso che uno dei fenomeni culturali più importanti di questo decennio – #metoo – ha avuto molta meno visibilità in Italia rispetto a tanti altri paesi dell’Occidente. L’Italia è talmente “sottosviluppata” in materia di pari opportunità che la gente non ha nemmeno capito le sfumature e l’importanza del messaggio #metoo. Si tratta di un contesto troppo distante da quel movimento, qua si sta ancora aspettando di conoscere le prime ortopediche e preti donna. In Finlandia i mezzi di comunicazione di massa sono passati alla lingua genere neutro e monitorano che nelle notizie si dia rappresentanza in pari misura per entrambi i sessi.
ECOLO’ : Come italiani viviamo sempre il complesso di essere culturalmente arretrati rispetto ai paesi scandinavi. Tralasciando il cibo e il vino, c’è qualcosa in cui ti pare che il nostro paese riesca a fare meglio rispetto alla Finlandia?
JK: Io adoro l’Italia e ho scelto di vivere e far crescere i miei figli qua invece che in Finlandia. Credo che questa scelta abbia a che vedere con la qualità di vita, che non si riduce ai soli parametri di indicatori statistici. Italia e Grecia hanno contribuito alla cultura di questo continente in tale misura che possono camminare testa alta ancora a lungo; nonostante le tante difficoltà che ci sono nel paese, bisogna ricordare che ci sono anche tanti centri di eccellenza, innovazione e creatività. Mi rattrista però vedere l’Italia sprecare le sue risorse – come donne, giovani, ricchezze naturali – grazie ai tanti corrotti, vecchi bunga bunga e l’illusione dell’ ‘uomo forte’. Stento a paragonare i due paesi tra di loro, perché le variabili sono troppe e si cade facilmente nella trappola dei luoghi comuni. Però posso dire che in Italia la rete ferroviaria è più avanzata che in Finlandia, dove alta velocità vera non esiste. Avete una cultura urbana squisita con delle città una più bella dell’altra a dimensione umana – grazie all’architettura dei secoli passati. Credo che nella robotica siate avanti e chiaramente nei tradizionali settori italiani come la moda e gastronomia. C’è poi una condivisione intergenerazionale bella in Italia, coi nonni onnipresenti. Noi Finlandesi siamo sparpagliati ovunque nel paese e come si lascia il nido materno all’età di diciott’anni, i legami familiari si rompono spesso troppo bruscamente.
ECOLO’ : grazie mille Jouni per il tuo tempo!
Il nodo dell’Alta Velocità a Firenze
Da dove nasce l’esigenza di realizzare a Firenze un passante ferroviario dedicato all’Alta Velocità (AV)?
Sulla linea AV Milano-Napoli, il nodo fiorentino rappresenta una strozzatura, dato che non permette la necessaria differenziazione dei traffici tra i treni AV, quelli a lunga percorrenza e regionali. Questa situazione provoca ritardi ai treni AV, soprattutto i molti che si devono fermare alla stazione di testa Santa Maria Novella, e penalizza in particolare i treni regionali che subiscono continui ritardi e cancellazioni perché costretti a dare la precedenza ai treni AV.
A causa della congestione delle linee, inoltre, non è mai stato possibile utilizzare alcuni dei binari che attraversano da parte a parte e in superficie l’area metropolitana di Firenze per creare un vero e proprio Servizio ferroviario metropolitano cadenzato e capillare, sul modello delle S-Bahn tedesche, che integrato al sistema tranviario e dei bus potrebbe costituire una rete di trasporti locali efficiente per gli abitanti di Firenze e di tutta l’area metropolitana (ne abbiamo parlato in questo articolo).
Le scelte progettuali sul passante ferroviario fiorentino dell’Alta Velocità si caratterizzano per due punti fondamentali:
Difficile avere notizie ufficiali recenti sullo stato di avanzamento dei lavori: a maggio 2019 le opere risultavano completate per circa il 50%, con costi complessivi lievitati a 1 miliardo e 612 milioni di euro a fronte di un costo di 797 milioni e 370mila euro per le opere ancora da realizzare (Fonte: Analisi Costi Benefici del sottoattraversamento AV di Firenze, 31/07/2019, disponibile su www.mit.gov.it). Di tutto il progetto, ad oggi risulta ultimato lo ”scavalco” già in esercizio dal 2011 tra Rifredi e Castello (opera che permette ai binari AV di non interferire con i binari esistenti) ed è a buon punto il cantiere della stazione AV, mentre quasi niente è stato ancora fatto per lo scavo dei tunnel (di fatto a Campo di Marte è stato solo completato il “pozzo lancio fresa”, la fresa TBM è stata assemblata ma non ha mai iniziato a scavare).
Sono molti gli ostacoli che negli anni hanno rallentato e bloccato l’avanzamento dei lavori, che avrebbero dovuto concludersi entro il 2015, a partire da varie inchieste giudiziarie tra cui quella iniziata nel 2010 che ha riguardato lo smaltimento delle terre di scavo dei cantieri. Ai numerosi guai giudiziari si è aggiunta anche la grave crisi aziendale della ditta esecutrice dei lavori Nodavia, causata dal fallimento nel 2018 della sua capogruppo Condotte Spa. Nel 2019 l’appalto è stato quindi affidato a Infrarail Firenze Srl, società neo-costituita da RFI proprio allo scopo di portare a termine i lavori del nodo AV fiorentino.
Il Cantiere della nuova Stazione di Firenze Belfiore, nell’area degli Ex-Macelli [fonte: www.ifrfirenze.it]
Oggi ci troviamo a quasi vent’anni dal progetto Foster e l’area degli ex-Macelli di Firenze ospita ancora un cantiere da anni praticamente fermo, una voragine nel centro della città che finora ha inghiottito centinaia di milioni di euro (pagati in autofinanziamento da Rete Ferroviaria Italiana), per una stazione che ancora non ha visto la luce e il cui progetto è stato a più riprese rivisto e messo in discussione dalle stesse Ferrovie dello Stato.
Prima, nel 2011, con un nuovo accordo tra RFI, Regione Toscana, Provincia e Comune di Firenze, è stato eliminato dal progetto il completamento di varie stazioni del Servizio Ferroviario Metropolitano (fra queste ad esempio le stazioni Circondaria e Perfetti-Ricasoli). Il completamento doveva essere a carico di RFI, che ha indennizzato il Comune di Firenze con circa 70 milioni, congelando di fatto il progetto di rafforzamento del Servizio Ferroviario Metropolitano che era strettamente collegato a quello del nodo AV. In particolare è stata stralciata la previsione della stazione Circondaria, che doveva sorgere in superficie in corrispondenza della stazione sotterranea Belfiore e consentire quindi un raccordo tra passeggeri dell’Alta Velocità, dei treni regionali e del servizio metropolitano.
Poi, nel 2016, le Ferrovie hanno addirittura inaspettatamente rimesso in discussione l’intero progetto dell’alta velocità nel nodo fiorentino. Le esperienze delle altre stazioni sotterranee per l’alta velocità realizzate e già in funzione (Bologna, Roma Tiburtina, Torino Porta Susa) avevano infatti dimostrato che la nuova stazione AV avrebbe avuto costi di gestione troppo alti rispetto al volume di passeggeri previsto. Tenendo conto anche dei miglioramenti tecnologici raggiunti negli ultimi anni che hanno permesso una migliore gestione del traffico ferroviario e della volontà espressa da Trenitalia e NTV di continuare ad usare Firenze SMN come stazione principale per i loro treni alta velocità, la stazione Belfiore e il sottoattraversamento sono diventate agli occhi delle Ferrovie due opere su cui non valeva più la pena puntare.
In questo scenario, qual è stata la posizione di Regione Toscana e Comune di Firenze?
La Regione, va detto, ha sempre mantenuto una posizione coerente e prima con Enrico Rossi e poi con Eugenio Giani ha continuato a sostenere la necessità del progetto originario (tunnel per l’alta velocità, stazione sotterranea per treni AV e stazione Circondaria di superficie per treni regionali), vista la necessità di separare grazie ai tunnel il traffico regionale da quello AV.
Più confusa la posizione del Comune di Firenze, con il Sindaco Nardella che ha prima ribadito la necessità di mantenere fede al progetto originario, per poi abbracciare la nuova proposta di Ferrovie secondo cui Santa Maria Novella doveva rimanere il terminale principale per i treni AV, con una nuova stazione Belfiore ridimensionata rispetto al progetto iniziale e con funzione di “hub ferro/gomma” con la presenza di stalli per bus interurbani e turistici e la fermata di alcuni treni alta velocità.
Un importante contributo al dibattito, soprattutto alla luce del dietrofront di Ferrovie, si è aggiunto nel 2019 con la pubblicazione dell’Analisi Costi Benefici del sottoattraversamento AV di Firenze, commissionata dall’allora Ministro dei Trasporti Danilo Toninelli e curata dal gruppo di lavoro guidato dal professor Marco Ponti. L’analisi ha dato un responso sostanzialmente favorevole al completamento delle opere, sostenendo che porterebbe complessivamente benefici maggiori dei costi, consentendo ai treni AV che transitano dal nodo di Firenze di risparmiare tempo, ed ai treni regionali e metropolitani di aumentare la propria offerta in modo significativo. Completare i lavori, inoltre, sarebbe ormai preferibile rispetto all’opzione di abbandonarli, dato anche che in tal caso dovrebbero essere ripristinate tutte le aree attualmente interessate dai cantieri.
Questo non vuol dire tuttavia che dal rapporto sia uscito un giudizio in assoluto positivo per l’opera, e su questo pesa soprattutto il fatto che non sia stato possibile nell’analisi prendere in considerazione vere alternative: le scelte a favore del sottoattraversamento e di ubicare la stazione in una zona relativamente centrale di Firenze infatti hanno di fatto imposto al progetto vincoli determinanti, ad esempio escludendo per la stazione possibili altre localizzazioni come Campo di Marte o l’area a monte di Rifredi che secondo gli stessi autori avrebbero probabilmente dato risultati migliori.
Ponti & C. nel loro rapporto hanno poi evidenziato alcune condizioni fondamentali, senza le quali verrebbe replicato l’attuale assetto del traffico ferroviario sfavorevole per i treni regionali e quindi l’intera opera perderebbe molti dei benefici che ne giustificano l’esistenza: la realizzazione, in corrispondenza della stazione Belfiore, della stazione di superficie Circondaria per treni regionali e metropolitani; la realizzazione di un collegamento tra Belfiore/Circondaria e SMN (tramite tapis roulant o people mover); lo spostamento da SMN a Belfiore di tutti i treni AV che fermano a Firenze, non solo di alcuni di essi.
Le nostre proposte
Stupisce come si parli ancora troppo poco nel dibattito cittadino e regionale di un’opera così importante, nel bene e nel male, come quella del nodo fiorentino dell’Alta Velocità: una grande opera con effetti potenzialmente molto positivi sulla mobilità metropolitana e regionale, rilevante dal punto di vista urbanistico ma anche molto impattante dal punto di vista ambientale.
Da anni ormai sui giornali escono regolarmente dichiarazioni da parte del Comune o della Regione che comunicano l’imminente ripresa dei lavori, ma la project review annunciata fin dal 2016 ad oggi non risulta sia mai stata conclusa né tantomeno pubblicata, quindi rimane un grosso interrogativo: i lavori riprenderanno (se riprenderanno) per realizzare cosa?
Come Ecoló siamo fermamente contrari ad esempio alla proposta presentata nel 2017 da Ferrovie e sostenuta dal Comune di Firenze, di ultimare la stazione Belfiore trasformandola in un centro di smistamento treno/gomma con la fermata solo di alcuni treni AV e gli stalli per bus extraurbani. Si tratta di una proposta incongruente sotto tanti punti di vista. Innanzitutto non esiste nessuna valutazione dell’impatto sul traffico di un hub per gli autobus in una zona così centrale della città. Poi, assecondare le richieste di NTV e Trenitalia continuando ad utilizzare SMN per la maggior parte dei treni Alta Velocità, significherebbe lasciare poche capacità residue per incrementare i servizi regionali e compromettere la possibilità di istituire un vero Servizio Ferroviario Metropolitano. Infine, la proposta non prevede la realizzazione della stazione Circondaria, quindi di un interscambio tra treni regionali e AV/bus extraurbani.
Per fortuna, dalle notizie che riportano gli esiti dei più recenti incontri tra i rappresentanti del Gruppo Ferrovie, il Presidente della Regione Toscana Giani e il Sindaco di Firenze Nardella, sembrerebbe (il condizionale è d’obbligo) che questa posizione sia stata almeno in parte superata e che sia tornata sul tavolo la proposta di realizzare anche la stazione Circondaria per i treni regionali, insieme alla connessione tramite people mover della nuova stazione con SMN.
Dal punto di vista dei cittadini dell’area metropolitana, l’accettabilità di un’opera come quella del nodo fiorentino dell’Alta Velocità, impattante dal punto di vista ambientale e urbanistico, dovrebbe essere misurata tenendo in giusta considerazione le ricadute del progetto a livello locale. Per questo motivo, come Ecoló riteniamo che la realizzazione di un vero e proprio Servizio Ferroviario Metropolitano debba essere inserito come condizione irrinunciabile all’interno degli accordi tra RFI e le amministrazioni locali, qualunque sia la soluzione tecnica adottata (sottoattraversamento o alternativa di superficie) per realizzare il passante AV fiorentino.
In realtà ci chiediamo perché non sia mai stato preso seriamente in considerazione lo studio dell’alternativa di superficie al passante ferroviario AV. Un’opzione che, a lavori ancora da iniziare, avrebbe potuto rappresentare un’alternativa ad un’opera che presenta criticità significative dal punto di vista ambientale (interferenza con la falda, gestione delle terre da scavo) e di sicurezza (stabilità degli edifici sotto cui i tunnel saranno scavati).
D’altra parte però, anche in considerazione dello stato di avanzamento dei lavori, crediamo che la scelta di completare il sottoattraversamento sia da considerarsi ormai preferibile rispetto a rinunciare ad un’opera potenzialmente molto vantaggiosa per migliorare la mobilità ferroviaria regionale e metropolitana, purché:
Siamo convinti che una delle principali soluzioni per migliorare la mobilità a Firenze sia rafforzare i suoi collegamenti via treno, prioritariamente quelli che la connettono al resto dell’area metropolitana e all’intera regione, ed il passante AV di Firenze e le opere connesse potrebbero permettere di fare un grande passo in avanti in questa direzione. Crediamo che senza le due condizioni sopra indicate, tuttavia, venga meno l’unica vera giustificazione, almeno dal punto di vista dei cittadini di Firenze, per realizzarlo: l’opportunità di sviluppare un efficiente servizio di treni metropolitani di cui la città avrebbe urgentemente bisogno.
di Caterina Arciprete
Lo scorso dicembre, l’Americal Political Science Review, un’importante rivista accademica americana, ha pubblicato un articolo dal titolo “Political legitimacy authoritarianism and climate change”. L’autore sostiene che nelle situazioni di emergenza può esservi un conflitto tra: (i) la capacità dello Stato di proteggere il cittadino ed (ii) il mantenimento dei diritti tipici di una democrazia liberale. In tal senso, le limitazioni imposte per fronteggiare la pandemia da Covid-19 rappresentano un esempio illustrativo. L’autore sostiene, poi, che i cambiamenti climatici rappresentano una minaccia di gran lunga peggiore rispetto alla pandemia in quanto metteranno a rischio la vita non solo dei cittadini di oggi, ma anche delle prossime generazioni. Nel futuro, quindi, la necessità di fronteggiare situazioni di emergenza legate ai cambiamenti climatici potrebbe condurre ad uno scenario in cui l’unico Stato in grado di affrontare la crisi climatica è uno Stato autoritario. L’autore conclude dicendo, che se questo non è auspicabile, è purtuttavia una possibilità da non scartare se la posta in gioco è quella di salvare il mondo e le generazioni future.
La domanda che ci poniamo in questo articolo è quindi la seguente: se la crisi climatica conduce ad una situazione di emergenza permanente, siamo disposti ad accettare uno “stato di eccezione”? Ovvero uno Stato in cui sono sospese alcune garanzie costituzionali al fine di rispettare il principio di giustizia intergenerazionale? Cosa ci sta insegnando la gestione della pandemia a tal riguardo?
Può aiutare ad orientarsi nella discussione un breve aneddoto storico citato da Gianfranco Pellegrino per introdurre il tema dello stato di eccezione.
La Mignonette, una piccola imbarcazione da diporto, partì il 19 maggio del 1884 dalla Gran Bretagna alla volta dell’Australia, su incarico di un magnate australiano che l’aveva acquistata. L’equipaggio contava quattro persone. La nave affondò il 5 luglio e i quattro trovarono riparo su una scialuppa. Chi li trasse in salvo tra il 26 e il 27 di luglio, però, trovò solo tre sopravvissuti, che vennero processati per l’uccisione e il cannibalismo del quarto membro dell’equipaggio. La pena di morte venne subito commutata a sei mesi, per effetto dell’opinione pubblica favorevole agli imputati.
Ovviamente questo racconto non corrisponde alla situazione che stiamo vivendo oggi, ma nella sua efferatezza descrive bene la tensione che può venirsi a creare tra necessità di mantenere i principi democratici e la necessità di proteggere i cittadini. L’aneddoto sembra dire che la giustizia “normale” valga in condizioni normali, non in quelle “eccezionali”. L’eccezionalità, dunque, sembrerebbe giustificare l’adozione di regole “diverse”. L’aneddoto dà, inoltre, lo spunto per analizzare alcuni elementi importanti.
La gestione della pandemia ci permette, poi, di provare ad affrontare un’altra tematica: in emergenza pandemica la popolazione ha accettato alcune misure estremamente forti e restrittive come il confinamento e il divieto di aggregazione. Sarebbe dunque disposta a rinunciare a possibilità che oggi reputa scontate (ad esempio la possibilità di mangiare carne da allevamento intensivo) con l’obiettivo di salvaguardare il pianeta e rispettare il principio di giustizia intergenerazionale?
In questo senso, la crisi climatica ha alcune differenze fondamentali con l’emergenza pandemica:
In conclusione, cosa impariamo dalla gestione dell’emergenza pandemica rispetto alla crisi ambientale?
Che trattare la crisi ambientale in ottica emergenziale potrebbe portare a strette autoritarie, minore trasparenza e fretta decisionale (Amnesty) e che ciò si potrebbe ripercuotere sul livello di coesione sociale di una comunità. Come si fa a costruire un consenso politico intorno a misure impopolari quando l’emergenza è ancora scarsamente percepita ed i risultati delle misure saranno apprezzati in misura prevalente dalle future generazioni?
La pandemia mostra che siamo in grado di affrontare delle misure “impopolari” quando ne capiamo il senso profondo, quando sappiamo che siamo dentro un processo “giusto” capace di distribuire i costi in modo equo. La sfida è rendere desiderabile quello che oggi risulta “impopolare”. Non ci sarà nessuna transizione senza che vi siano gli spazi democratici in cui si possa coltivare un consenso intorno alle grandi trasformazioni necessarie.
Anche per questo, il 5 Febbraio a Firenze, c’è stata l’Assemblea Ecologista promossa da Ecolò insieme ad altre importanti realtà ecologiste italiane.
Ecolo’ ha partecipato con grande soddisfazione all’organizzazione della prima Assemblea Ecologista. Nel corso della giornata si sono susseguiti interventi di tutto il mondo ecologista italiano e europeo. Hanno aperto i lavori Vula Tsetsi, segretaria generale dei parlamentari verdi europei a Bruxelles e Rossella Muroni, parlamentare di Facciamo Eco fra le ispiratrici della giornata. Dopo i saluti di Beppe Sala, sindaco di Milano, si sono avvicendati online e in presenza decine di relatori (48). Portatori di esperienze civiche ecologiste nei territori, amministratori locali, animatori di comunità e di movimenti, parlamentari e persone comuni, da Bari al Sud Tirolo, da Roma a Trieste. Impossibile riassumere quanto è stato detto ma la registrazione completa è disponibile all’indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=-g4pF3wcJ1Q
Alcuni partecipanti hanno rilasciato saluti e dichiarazioni prima e dopo il loro intervento:
https://assembleaecologista.org/contributi.php
I partecipanti sono stati tantissimi. Visti i limiti della sala solo 134 hanno potuto partecipare in presenza mentre poco meno di 200 sono stati gli accreditati per partecipare online che hanno seguito via Zoom i lavori.
Grazie alle donazioni di tanti promotori, dei parlamentari di Facciamo Eco, del gruppo Greens/EFA al parlamento Europeo, di Green Italia, di Ambientalmente Lecco e di Ecolo’, l’assemblea ha potuto chiudere il bilancio in attivo (il dettaglio delle spese e delle entrate è disponibile qui: https://www.assembleaecologista.org/rendicontazione_assemblea_ecologista.pdf )
Nel pomeriggio si è svolta l’assemblea dei promotori e di tutti quelli che essendosi accreditati avevano chiesto di partecipare online. Per decisione unanime l’Assemblea Ecologista ha deciso di non sciogliersi e di proseguire il cammino. Il documento conclusivo uscito dall’assemblea è scaricabile qui: https://assembleaecologista.org/ConclusioniAssemblea_bozza.pdf
Abbiamo lasciato l’assemblea con un grande senso di pienezza e la voglia di continuare a dare un contributo verso una proposta ecologista forte, inclusiva e convincente anche nel nostro paese.
Ecco alcune foto dell’assemblea!
di Giovanni Graziani
Al centro dei temi della transizione ecologica vi è, senza dubbio, quello dell’energia. L’energia è alla base di tutte le attività industriali, sociali, di svago e di utilità, ed è uno dei fondamenti necessari per il mantenimento del benessere della società. Allo stesso tempo l’impatto ambientale legato alla sua produzione, distribuzione e utilizzo è tale da necessitare una drastica revisione del sistema energetico nel suo complesso.
In Italia, l’energia consumata proviene ancora per circa l’80% da fonti fossili e per circa il 20% da fonti rinnovabili. Di questa energia solo il 21% è energia elettrica per gli usi finali (dati 2020).
Quando si parla di energia è inoltre utile spiegare come il sistema sia strutturato nelle varie fasi:
Chiarito,come usiamo l’energia, dobbiamo sottolineare che nella discussione sulla decarbonizzazione del sistema energetico, vari studi e scenari puntano sostanzialmente l’attenzione su due aspetti (più uno):
Questo comporta quindi:
Questo passaggio presenta alcune criticità da superare e su cui migliorare, per lo più relative all’intermittenza e non programmabilità della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili e alla conseguente necessità di gestire le differenze tra produzione e consumo attraverso sistemi di accumulo e stoccaggio, insieme alla gestione intelligente dei carichi.
Tra le varie soluzioni che possono essere d’aiuto in questa sfida vi è senza dubbio l’idrogeno, che può giocare un ruolo rilevante e sul quale l’Unione Europea ha presentato obiettivi molto ambiziosi, pubblicando nella sua strategia per l’idrogeno un target di 40 GW di capacità di elettrolizzatori al 2030, la cui capacità mondiale attuale e di 0,3 GW.
L’Italia stessa ha destinato all’idrogeno, all’interno del PNRR, 3,2 miliardi di euro e vorrebbe raggiungere al 2030 circa 5 GW di capacità elettrolitica, in linea con i piani di Francia e Germania. Vediamo meglio quindi come questo potrebbe avvenire.
Nell’obiettivo di spingere la decarbonizzazione verso una maggior produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, si avrà una produzione di energia elettrica che, in alcuni momenti del giorno o dell’anno, sarà superiore alle necessità della domanda. È qui che può diventare interessante utilizzare tale energia elettrica in eccesso in un elettrolizzatore per la generazione di idrogeno, scomponendo le molecole di acqua, trasformandola quindi in energia chimica che sarà così immagazzinata. Produrre idrogeno può diventare una delle soluzioni più interessanti e praticabili per superare il problema dell’intermittenza delle fonti rinnovabili.
Avremmo così a disposizione un vettore energetico da poter impiegare in diverse applicazioni, grazie alla sua versatilità, in particolare in quei settori per i quali è più difficile immaginare l’elettrificazione: pensiamo al trasporto pesante su terra, all’aviazione, alle grandi navi e alla siderurgia. La ricerca in questi settori è in grande fermento con alcune applicazioni operative interessanti, come il treno a celle combustibile, alimentate a idrogeno, prodotto dalla Alstom, funzionante sulle linee tedesche e in arrivo anche in Italia entro il 2023 (https://www.alstom.com/it/press-releases-news/2020/11/alstom-fornira-i-primi-treni-idrogeno-italia). Nel settore aereo, Airbus sta progettando alcuni velivoli alimentati a idrogeno che potrebbero, stando alle loro dichiarazioni, entrare in commercio nel 2035.
Altrettanto importanti possono essere le applicazioni nella siderurgia, comparto industriale altamente inquinante ma strategico (come spesso le cronache di Taranto ci hanno ricordato). Qui l’idrogeno può essere utilizzato al posto del carbone nella reazione di riduzione degli ossidi ferrosi in ferro metallico.
Al di là delle possibili applicazioni, al giorno d’oggi il problema però è che quasi la totalità dell’idrogeno prodotto a livello mondiale proviene da fonti fossili (idrogeno grigio), attraverso un processo di reforming dal metano (reazione chimica ad alta temperatura tra vapore acqueo e metano che ha come prodotti idrogeno gassoso e ossidi di carbonio) o da carbone. Questo avviene per motivi essenzialmente economici: costa infatti circa 1-2 dollari al kg, rispetto ai 3-7 dollari al kg per l’idrogeno verde prodotto da rinnovabili. La sfida sarà quella di perfezionare la tecnologia e aumentare in modo consistente la grandezza degli elettrolizzatori che, insieme al calo dei costi dell’elettricità da rinnovabile, permetterà di produrre idrogeno verde a prezzi competitivi.
Per completezza di analisi, esiste anche una via intermedia, il cosiddetto idrogeno blu, strada fortemente spinta dall’industria legata ai fossili perché consentirebbe di produrre idrogeno dal metano in modo “relativamente pulito” separando la CO2 e confinandola all’interno dei giacimenti di gas esauriti.
In conclusione, possiamo dire che l’idrogeno può avere un ruolo importante nella transizione del sistema energetico verso la decarbonizzazione, solamente se connesso allo spostamento della produzione di energia elettrica verso le rinnovabili. Tale obiettivo deve essere primario e porterà maggiori benefici in senso assoluto, lasciando all’idrogeno un ruolo chiave nei settori hard-to-abate (“difficili da abbattere”), ma comunque di nicchia rispetto all’elettrificazione diretta.
Per descrivere il ruolo dell’idrogeno nella transizione energetica Giulio Mattioli, esperto in decarbonizzazione dei trasporti e ricercatore dell’Università di Dortmund, usa una metafora:
L’idrogeno è come lo champagne e andrebbe trattato come tale: un prodotto energivoro, adatto e utile solo a settori di nicchia.
di Irene Fattacciu
Da anni la narrazione delle migrazioni verso la Fortezza Europa si muove tra la retorica della sicurezza e dell’invasione da una parte, e quella dell’emergenza umanitaria dall’altra. Il cambiamento climatico è la crisi che caratterizza questa fase storica, e se oggi solo lo 0,8% delle terre emerse presenta temperature così elevate da essere considerato inabitabile, nel 2070 questa percentuale potrebbe salire fino al 19%. I fenomeni migratori per cause ambientali sono già una realtà e si stima che entro il 2050 coinvolgeranno centinaia di milioni di persone. In capo a trent’anni, insomma, una persona su quarantacinque nel mondo potrebbe essere un “migrante ambientale”.
Ma chi sono i migranti ambientali? L’International Organisation for Migration li descrive come coloro che “a causa di improvvisi o graduali cambiamenti nell’ambiente che influenzano negativamente le loro condizioni di vita, sono obbligati a lasciare le proprie case, o scelgono di farlo, temporaneamente o permanentemente, e che si muovono all’interno del proprio paese o oltrepassando i confini nazionali”. La definizione ruota intorno a due elementi chiave, la volontarietà e la geografia della migrazione. Le situazioni dove la decisione o la necessità di spostarsi sono riconducibili a cause ambientali sono varie, pertanto si distingue fra migrazioni temporanee causate da disastri naturali o provocati dall’uomo (environmental emergency migrants), e definitive a seguito del deterioramento delle condizioni ambientali (environmental forced migrants). Infine, una terza causa è data dalla scelta di migrare in risposta a problemi ambientali che non permettono più di sostentarsi attraverso le risorse disponibili (environmentally-driven migrants).
Un altro termine coniato già negli anni Settanta e che spesso viene utilizzato dai media e nei dibattiti è “rifugiato ambientale”, dove la scelta terminologica ha il preciso intento di richiamare una serie di diritti che hanno a che fare con quello di asilo. Dal punto di vista del diritto internazionale non ne esiste una definizione consolidata, e la Convezione di Ginevra sui rifugiati non include, tra le situazioni che determinano lo status di rifugiato, riferimenti riconducibili a condizioni ambientali. Neanche le migrazioni ambientali forzate trovano ancora un adeguato riconoscimento giuridico nella legge internazionale e nei singoli ordinamenti statuali, anche a causa delle titubanze dei Governi. Il riconoscimento di un rapporto univoco tra trasformazioni ambientali, catastrofi naturali e rifugiati ambientali obbligherebbe infatti ad accoglierli all’interno dei territori nazionali. Nonostante ciò, le cose stanno iniziando a cambiare. La Commissione europea ha iniziato affrontando il tema nel Green Deal, e anche l’Italia nei decreti sicurezza approvati il 18 dicembre 2020 ha appena ridisegnato il permesso di soggiorno per calamità naturale: il diritto alla protezione umanitaria verrà concesso non solo per calamità “eccezionale e contingente”, bensì anche per una grave situazione dal punto di vista ambientale nel paese d’origine.
Aldilà del riconoscimento giuridico, è importante però tentare di guardare alle migrazioni ambientali come fenomeno complesso, all’origine delle quali c’è una molteplicità di cause. Il cambiamento climatico ha effetti diretti e indiretti, ma l’inquinamento, la degradazione delle terre, il sovrasfruttamento delle risorse naturali, la deforestazione e la perdita degli habitat interagiscono con molti altri aspetti sociali ed economici. Si tratta insomma di un “moltiplicatore di minacce” che amplifica le vulnerabilità preesistenti – individui, comunità o paesi già fragili dal punto di vista dello sviluppo economico, sociale e politico-istituzionale. In questa situazione non è sempre possibile distinguere gli effetti delle crisi ambientali da quelli delle crisi economiche, sociali o dai conflitti che costringono milioni di persone ad abbandonare le proprie case.
L’interazione tra cambiamento climatico e conflitti sociali è evidente, per esempio, nella regione del Sahel, da cui arriva quasi il 38% dei migranti giunti via mare in Italia negli ultimi quattro anni. L’area sta sperimentando un significativo aumento della popolazione, ma a causa della desertificazione la produttività del suolo è crollata e il sistema agricolo è entrato in crisi. Anche i flussi migratori provenienti da Bangladesh, Costa d’Avorio, Guinea e Pakistan – tra i paesi più colpiti dalle conseguenze del cambiamento climatico – sono notevolmente aumentati negli ultimi anni e rappresentano un ulteriore 30% dei migranti che giungono in Italia.
Questo è un classico esempio che viene citato per farci vedere che le migrazioni ambientali sono qualcosa che ci riguarda. Ed è vero, ci riguardano, ma non soltanto perché determinano e interagiscono con le rotte migratorie internazionali. Concentrati sul nostro ombelico e impegnati a guardare da lontano questa gigantesca marea che cresce, perdiamo di vista la fisionomia di tali movimenti. Ma si sa, il diavolo è nei dettagli, e così ci sfugge il fatto che nel futuro parlare di migrazioni ambientali non sarà più una questione di disperati e fragili che si mettono in cammino o sui barconi tentando di arrivare a casa nostra. Degli oltre ottantadue milioni di persone che nel mondo sono state costrette a fuggire e lasciare le proprie case nel 2021, 40,5 milioni sono sfollati interni, ossia si sono mossi all’interno dei confini nazionali. Di questi, 9 milioni sono fuggiti da conflitti e violenze e ben 30.7 milioni sono stati costretti a scappare per via dei disastri naturali.
Le migrazioni interne partono da aree con minore disponibilità idrica e produttività delle colture, oppure da zone che saranno colpite dall’innalzamento del livello del mare e altre calamità, per finire verso aree urbane e peri-urbane. A livello globale le aree più colpite nei prossimi decenni saranno l’Africa subsahariana, l’Asia meridionale e l’America Latina, ma in Europa sarà la fascia mediterranea. In Europa è infatti a rischio desertificazione l’8% del territorio, ma la percentuale sale fino al 20% per l’Italia. Il cambiamento climatico insomma è già in atto, e da una parte i suoi effetti colpiscono maggiormente le comunità più vulnerabili, dall’altra peggiorano situazioni di povertà e ingiustizia sociale. Una situazione ancor più grave quando queste persone si trovano a vivere in paesi meno sviluppati, ma che riguarda tutti. Grandi processi migratori avranno luogo a tutte le latitudini, e in ogni territorio ci saranno zone inabitabili.
Si tratta di prepararsi a gestire questi cambiamenti, non solo attraverso la mitigazione attesa dagli accordi e dagli impegni sul taglio delle emissioni, bensì anche attraverso interventi adattivi. Ci sono stati progressi significativi nello sviluppo di politiche nazionali e regionali sulle migrazioni legate all’ambiente, ma c’è ancora molto da fare. A tutti i livelli è evidente come un cambiamento sistemico sia l’unica strada percorribile. Per quanto riguarda i paesi del Sud globale, è necessario superare l’impostazione delle iniziative messe in campo finora da Banca mondiale e UE con il coinvolgimento del settore privato, in quanto rappresentano una continuazione di politiche agrarie neoliberiste che riescono a mantenere in funzione il sistema di commercio e approvvigionamento internazionale, ma che in ultima istanza finiscono – a causa della dipendenza da crediti, tecnologia e assistenza – per espellere altre persone dalle zone rurali.
A livello interno, i flussi verso le aree urbane rappresentano un ulteriore punto nevralgico per elaborare un piano d’azione, mitigazione e adattamento. La rapida e incontrollata crescita delle città non solo aumenta il rischio di ulteriori disastri e dislocazioni, ma creerà un esercito – di oltre due miliardi di persone entro il 2030, il 40% dei residenti urbani – in condizioni di vita estremamente precarie nelle megalopoli dei Paesi più poveri del Pianeta, una vera e propria bomba sociale. Servono interventi di carattere sia infrastrutturale che socio-economico, che guardino alla pianificazione territoriale anche delle aree di destinazione, agendo attraverso misure di protezione sociale e favorendo la diversificazione dei mezzi di sostentamento, al fine di aiutare le persone ad adattarsi alle trasformazioni che investono il luogo dove si trovano o in alternativa a muoversi in sicurezza e dignità.
Tutti gli ecologisti italiani hanno un obiettivo comune: essere rappresentati nel prossimo parlamento da un drappello nutrito di ecologisti preparati e determinati a costringere il governo che verrà ad avviare una seria ed equa transizione ecologica.
Chiunque voglia provare a contribuire a raggiungere questo obiettivo deve tenere in considerazione quattro questioni fondamentali:
1) Un partito verde in Italia c’è, anzi ce ne sono due visto che in Sud Tirolo i Grüne – Verdi – Vërc godono di ottima salute. Europa Verde-Verdi rappresenta una tradizione politica ecologista importante, ma occorre riconoscere che non è mai riuscito a superare la soglia dell’irrilevanza politica nell’ultimo decennio. Malgrado la domanda di ecologia in politica sia enormemente cresciuta negli ultimi anni, spingendo a ottimi risultati i partiti verdi in buona parte d’Europa, i verdi italiani non sono riusciti a convincere gli elettori. Ma il dato più significativo è che i verdi sono assenti dalle istituzioni sul nostro territorio, come mostra la mappa in fondo all’articolo riferita alle amministrative 2017-21, negli ultimi cinque anni sono riusciti a presentarsi alle elezioni solo in pochi casi e raramente a superare la soglia del 3%.
2) Al cammino difficile della Federazione dei Verdi, corrisponde una sostanziale diaspora degli ecologisti. Buona parte degli ecologisti italiani o non ha mai fatto parte della Federazione dei Verdi o se n’è allontanata. Centinaia di liste ambientaliste ed ecologiste costellano il tessuto politico italiano, una miriade di nodi sconnessi che non hanno una rappresentanza a livello nazionale. L’associazione Ecolo’ è un esempio di questa diaspora essendo nata due anni fa da uno dei tanti commissariamenti che hanno caratterizzato la storia dei verdi dell’ultimo decennio. Gli ecologisti ci sono, ma sono dispersi. Purtroppo, malgrado le numerose dichiarazioni di intenti, la Federazione dei Verdi non ha mai voluto (o non è in grado) realmente avviare un processo di allargamento e inclusione in grado di unificarli.
3) Non solo gli ecologisti ci sono nelle liste civiche, nei comitati e nelle associazioni, ma la bella scoperta del 2020 è stata che ci sono anche deputati che, seppure non eletti in un partito verde, sono determinati a rappresentare la visione ecologista in parlamento. Facciamo Eco è stato uno strumento di rappresentanza per tanti di noi dentro il parlamento ed è stato un pungolo importante al governo Draghi in questi mesi. Cinque deputati che hanno seguito la linea di un appoggio critico all’esecutivo, critica che è culminata con l’annuncio della sfiducia al ministro Cingolani da parte di Rossella Muroni durante la discussione della legge di bilancio.
4) C’è un’altra bella novità: qualcosa si è messo in moto! Si moltiplicano in questi mesi le assemblee, i forum, gli incontri che hanno l’obiettivo di dare futuro politico alla visione ecologista anche in Italia. Alleanza per la Transizione Ecologica, fra i cui fondatori spicca il nome di Edo Ronchi, ha mosso i primi passi lo scorso Dicembre, Rossano Ercolini e Zero Waste Italia hanno lanciato un appello all’unità degli ecologisti, realtà nazionali come Italia in Comune, Green Italia e l’associazione Laudato Si’, insieme a tante realtà politiche territoriali, si sono mostrate interessate a un processo di rappresentanza politica della visione ecologista. Una parte degli eletti 5Stelle al Parlamento Europeo ha aderito al partito degli European Greens.
Questa la situazione. Come si mettono insieme tutti questi pezzi per raggiungere l’obiettivo? Aderendo all’organizzazione di Assemblea Ecologista a Firenze il 5 Febbraio abbiamo fatto una scommessa.
Crediamo che l’elemento che manca oggi sia un coordinamento orizzontale che favorisca la collaborazione di tutti gli ecologisti: verdi storici, amministratori locali, liste civiche, parlamentari, associazioni e ecologisti dispersi.
A questo processo sono invitati tutti coloro che si riconoscono nel manifesto dei Verdi Europei – che saranno presenti all’incontro del 5 febbraio con Vula Tsetsi, segretaria generale dei deputati al parlamento Europeo – e nell’obiettivo di costruire una lista unitaria degli ecologisti per le prossime elezioni parlamentari.
Siamo convinti che non dobbiamo avere la pretesa di federare gli ecologisti italiani in un soggetto unico. Vogliamo molto più modestamente coordinarli attorno a un obiettivo di medio termine fondamentale: avere rappresentanti credibili della nostra visione nel prossimo parlamento.
Chiamiamolo coordinamento ecologista, chiamiamola confederazione verde, non importa il nome, ma importa che ci proviamo. Abbiamo di fronte una sfida da cui dipende il futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti, non è più il tempo del tatticismo politico, è il tempo di rimboccarsi le maniche.
La mappa rappresenta dati ottenuti consultando corriere.it e repubblica.it disponibili qui Eventuali imprecisioni sono da imputare a noi.
di Guido Scoccianti
L’agricoltura si è trasformata con l’evoluzione della società umana e questa ha potuto evolversi – in buona parte – grazie alle innovazioni nelle attività agricole. E’ evidente quindi come oggi, di fronte ad un mondo per molti aspetti nuovo, sia dal punto di vista sociale che ambientale, non possiamo pensare che l’agricoltura possa continuare ad essere gestita, in modo efficace ed adatto alle nuove necessità, senza modifiche sostanziali.
L’agricoltura è, in primis, ‘cibo’ che giunge tutti i giorni sulle nostre tavole ed è quindi elemento fondamentale di sussistenza e di equità.
Inoltre è evidentemente ‘salute’, perché da cosa mangiamo possono derivare importanti effetti positivi o negativi sul nostro benessere, sulla nostra vita.
Ma l’agricoltura è anche ‘clima’. Le emissioni dovute all’agricoltura, in particolare quelle collegate agli allevamenti di bestiame e all’uso di fertilizzanti, costituiscono il 10% delle emissioni europee di gas climalteranti. A questa quota andrebbero però aggiunte le emissioni dovute alla produzione dei mangimi importati da paesi extraeuropei per i nostri allevamenti, nonché il consumo di suoli capaci di immagazzinare CO2 – come le torbiere – , così come i consumi di energia diretti ed indiretti. Il fattore di gran lunga più importante (circa il 70% del totale) è dato dagli allevamenti animali a causa del processo di fermentazione a livello dell’apparato digerente degli animali stessi e a livello dei liquami derivati, sia che siano essi stoccati ovvero depositati sui suoli agricoli. Inoltre l’agricoltura, oltre ad essere uno degli ambiti di maggior impatto sul clima, è allo stesso tempo uno dei settori più esposti ai danni causati dai cambiamenti climatici.
Inoltre l’agricoltura è ‘biodiversità’. A causa del suo ruolo nel degrado e consumo di suolo, nella semplificazione degli ecosistemi, nella dispersione di sostanze tossiche, nel consumo di acqua, ed a seguito della sua azione, nel complesso, di ‘competizione’ per le risorse rispetto alle forme di vita vegetali ed animali selvatiche, l’agricoltura costituisce il primo fattore quanto ad impatto sulla diversità biologica in Europa (European Environment Agency – State of nature in the EU, 2020). Dalla conservazione della biodiversità in realtà l’agricoltura avrebbe non da perdere ma molto da guadagnare. Si pensi in tal senso alla possibilità di attingere a quella ricchezza genetica, oggi sempre più affievolentesi, che ci può fornire nuove risorse capaci di affrontare in modo più efficace future mutate situazioni ambientali, malattie ed altre situazioni di difficoltà. Ed un altro chiaro esempio di quanto la biodiversità non è antagonista ma sinergica con l’agricoltura è dato dall’attuale crisi degli insetti impollinatori, che, se non controvertita, rischia di mettere in ginocchio gran parte della nostra produzione agricola.
E, certamente, l’agricoltura è ‘economia’. E questo non solo per quanto riguarda tutta la catena produttiva e distributiva del cibo e connesse attività, con conseguente enorme indotto sia a livello di cifre complessive che di posti di lavoro, ma anche per quanto riguarda la destinazione dei fondi pubblici. Basti pensare che la PAC (Politica Agricola Comune) rappresenta oltre un terzo dell’intero budget dell’Unione Europea (oltre 400 miliardi di euro).
Tenendo tutto questo in considerazione, quello di cui abbiamo oggi bisogno è un’agricoltura sempre più sostenibile dal punto di vista ambientale, di minor impatto sul clima, più amica della biodiversità, più equa dal punto di vista sociale.
La Commissione Europea nel 2020 ha varato una nuova Strategia europea sull’agricoltura per il 2030, la Farm to Fork, che contiene importanti indicazioni in questo senso con una serie di obiettivi volti ad assicurare una migliore qualità della nostra produzione agricola insieme ad una sua maggiore sostenibilità ambientale. Si va da un aumento ad almeno il 25% del territorio agricolo gestito secondo i canoni dell’agricoltura biologica, alla destinazione del 10% delle superfici al mantenimento di ‘infrastrutture verdi’ ed elementi caratteristici del paesaggio agricolo tradizionale (in correlazione con la Strategia europea per la Biodiversità), dalla riduzione del 50% dell’utilizzo dei pesticidi ad una diminuzione dell’uso degli antibiotici negli allevamenti, dallo sviluppo della bioeconomia circolare in ambito agricolo all’utilizzo di fonti rinnovabili, dalla difesa del suolo e la riduzione di almeno il 20% nell’uso dei fertilizzanti entro il 2030 ad una serie di azioni volte a modificare la dieta dei cittadini europei verso una diminuzione dell’uso della carne ed uno spostamento verso prodotti ecosostenibili.
Si tratta di obiettivi importanti, anche se su alcuni aspetti si sarebbe dovuto osare di più, come sulla riduzione dei pesticidi o anche sul ridimensionamento del settore zootecnico che, come si è detto, ha un enorme impatto sul clima e attualmente ha dimensioni senza dubbio non sostenibili, con il 68% della superficie agricola destinato alla produzione animale (dati Eurostat 2019).
Tuttavia, la nuova Politica Agricola Comune recentemente approvata dal Parlamento Europeo ha, in parte, già tradito le indicazioni, contenute nella Strategia mantenendo un quadro che sostanzialmente permette la conservazione della situazione in essere, annacquando gli obiettivi e continuando a sostenere l’agricoltura e la zootecnia agroindustriale piuttosto che spostare l’ago della bilancia verso la produzione ecosostenibile e di qualità (sia dal punto di vista alimentare che ambientale e climatico).
A questo punto la partita, fondamentale per il nostro futuro, è passata nelle mani degli Stati membri, che devono elaborare i Piani Strategici Nazionali e con essi gli Eco-schemi, che dovrebbero guidare le future politiche agricole e, cosa di non poca importanza, la destinazione dei fondi, evidentemente cruciale se si vuole spostare l’equilibrio da pratiche che danneggiano l’ambiente a pratiche agricole virtuose sia dal punto di vista ambientale che degli equilibri socioeconomici delle zone rurali.
Purtroppo, dai primi segnali, gli Stati membri, piuttosto che recuperare ciò che la PAC aveva dimenticato della Strategia, stanno confermando il mantenimento della ‘vecchia’ agricoltura. Un dossier curato da WWF, European Environment Bureau e BirdLife International, pubblicato nel novembre 2021, evidenzia come, dall’analisi delle bozze (ancora preliminari) dei Piani Strategici Nazionali di 21 Stati europei, solo il 19% degli eco-schemi proposti ha una probabilità di raggiungere gli obiettivi ambientali dichiarati, il 40% per poter essere efficaci necessiterebbe di modifiche sostanziali, il 41% risulta completamente disallineato rispetto agli obiettivi di tutela dell’ambiente e contrasto ai cambiamenti climatici.
In questa direzione sembra purtroppo muoversi anche l’Italia, a giudicare da quanto al momento proposto, e, se non verranno apportate sostanziali modifiche alla bozza di Piano attuale. Il risultato sarà un falso green-washing e non una vera innovazione della nostra agricoltura.
Una ampissima coalizione di Associazioni, lanciata inizialmente da Associazione Medici per l’Ambiente, AIAB, Associazione Agricoltura Biodinamica, FAI, Federbio, Legambiente, LIPU, Pronatura e WWF, ma oggi allargatasi a ben 89 soggetti associativi, ha lanciato un manifesto con proposte e indicazioni perché il Piano Strategico Nazionale italiano possa davvero andare nella direzione di un’agricoltura sostenibile sia da un punto di vista ambientale che sociale, attenta al clima, capace di sostenere l’agricoltura sociale e le comunità rurali. Il manifesto è scaricabile, insieme a molta altra documentazione utile, sul sito della coalizione (https://www.cambiamoagricoltura.it).
Proposte come queste saranno ascoltate?
Vorrà il Governo Italiano creare le basi per una agricoltura nuova, biodiversa e sociodiversa, oppure tutto continuerà immutato all’insegna del ‘business as usual’?
di Sebastiano Nerozzi e Giorgio Ricchiuti
Quando, ormai un po’ di anni fa, ci siamo seduti nei banchi del corso di politica economica, la prima distinzione che ci è stata insegnata è fra politiche di domanda e di offerta. Con le prime l’obiettivo è di guidare la domanda (appunto) di beni e servizi dei vari agenti economici (soprattutto i consumatori) mentre con le seconde, l’autorità di politica economica si concentra sulle imprese, agendo dal lato della produzione, l’offerta (appunto).
La tesi di questo breve scritto è che i movimenti ambientalisti si sono concentrati più sulle prime che sulle seconde. E questo ha avuto alcuni effetti perversi di cui occorre tener conto, per lo sviluppo e la proposizione delle politiche di transizione ecologica.
Prendiamo per esempio le produzioni del settore agro-alimentare. Le politiche, in questo caso, si sono più concentrate su come gli agenti percepiscono il consumo di beni (biologici o comunque a basso impatto) piuttosto che sull’imposizione di standard minimi per tutti i produttori (inclusi quelli non biologici). E spesso però queste strategie sono state suggerite con campagne di comunicazione che fanno leva soprattutto sul senso di responsabilità delle persone, sul desiderio di consumi più sani, e sulla loro sensibilità per le questioni ambientali.
Si tratta di un approccio corretto, ma, che a nostro avviso, presenta dei limiti e anche delle possibili controindicazioni. Esso, infatti, non è stato sufficiente a indurre una accettazione abbastanza ampia e consapevole di uno stile di vita più “green” ed ha, invece, prodotto tre risultati poco desiderabili.
Il primo è una polarizzazione fra chi crede ferventemente ad una visione di rispetto della natura e chi invece esprime un chiaro disinteresse o addirittura un fastidio per le continue campagne di informazione e di marketing alle quali è sottoposto. Questi ultimi, cogliendo l’ampiezza e la complessità dei problemi, reagiscono rivendicando la razionalità di un comportamento volto a massimizzare il proprio benessere qui ed ora, lasciando alla politica e alle generazioni future il compito di risolvere questioni che sfuggono al proprio controllo di cittadini e consumatori. Questi atteggiamenti molto diffusi rivelano, a nostro avviso, un più generale problema delle politiche di domanda volte al cambiamento di preferenze e abitudini: esse necessitano di tempo per esser assorbite e potrebbero, addirittura, creare un effetto di saturazione.
Un secondo elemento che ci preme mettere in evidenza è la diversa disponibilità a pagare fra i cittadini per beni “ambientalmente compatibili”, che porta le imprese a discriminare i consumatori sulla base del prezzo. Questa è una strategia commerciale ben chiara, che permette alle imprese di massimizzare i propri profitti facendo pagare ai consumatori per uno stessa tipologia di bene un prezzo diverso a seconda di particolari caratteristiche di quest’ultimo. Una mela viene pagata ad un prezzo più alto se prodotta a km zero e/o con tecniche di produzioni naturali. Il problema è che la mela “più lontana”, ambientalmente ritenuta “più sporca”, non sparisce dal mercato ma viene ugualmente venduta ad un prezzo più basso. Emerge quindi un trade-off fra reddito del consumatore e scelta green: solo un reddito relativamente alto permette di fare scelte di consumo integralmente green; i consumatori meno ricchi devono concentrare le loro scelte su pochi beni e quelli più fragili, sottoposti come tutti alle continue campagne pubblicitarie per l’acquisto di beni “eco-responsabili” che non possono permettersi, sviluppano spesso un senso di frustrazione che può spingerli ad abbracciare posizioni eco-scettiche.
Un terzo elemento riguarda i comportamenti delle imprese: per intercettare la parte più appetibile del mercato, esse possono mascherarsi da imprese green, lanciando alcuni prodotti green e investendo sul marketing senza modificare in modo sostanziale i loro comportamenti inquinanti nell’insieme della loro catena produttiva. E’ il cosiddetto greenwashing, il quale ha tanto più successo quanto più soddisfa il desiderio del consumatore moderatamente green di sentirsi a posto con la propria coscienza, anche senza cambiare in modo radicale le sue abitudini. Altra strategia per le imprese è quella di mascherare il proprio comportamento inquinante con “attività compensative”, come la piantumazione di alberi al costo di un piccolo sovrapprezzo, che migliorano la propria “brand reputation” senza cambiare alcunché di sostanziale nei processi produttivi. L’effetto complessivo è la non riduzione delle produzioni “sporche” che emerge anche dall’analisi dei dati: a fronte di tante campagne green da parte di governi e imprese, i processi di deterioramento dell’ambiente a livello globale continuano.
Ai limiti delle politiche dal lato della domanda occorre naturalmente rispondere puntando con più decisione su politiche dal lato dell’offerta, che inducano tutte le imprese a intraprendere una transizione profonda verso una produzione più attenta a ridurre le produzioni dannose per l’ambiente. Come? Sicuramente innalzando gli standard produttivi attraverso una regolamentazione più stringente e generalizzata, che porti a riduzioni dell’impatto ambientale di tutta la produzione, indipendentemente dalle scelte dei consumatori, senza creare discriminazioni sulla base della capacità di spesa e limitando seriamente il campo del greenwashing.
Questo approccio, certamente più ambizioso, naturalmente sposta una parte più consistente dei costi dai sonumatori alle imprese e genera resistenze ed obiezioni: l’argomentazione più diffusa è che politiche di questo tipo avrebbero l’effetto di innalzare i costi di produzione, riducendo la competitività delle imprese a livello internazionale.
Da questo punto di vista i governi hanno un ruolo importante da svolgere non solo come regolatori ma anche come produttori di beni e servizi per tutto il sistema economico, perseguendo principalmente tre obiettivi. Il primo è quello di realizzare politiche che riducano i costi delle imprese a fronte di un loro maggiore investimento per la conversione ecologica: primo fra tutti il costo dell’energia, i costi di transazione legati alla burocrazia e/o all’incertezza fiscale. Per esempio incentivando le produzioni che riducono le emissioni e il consumo di materie prime, spingendo le imprese a ridurre i costi per l’energia diventandone esse stesse produttrici (vedi lo sviluppo di comunità energetiche). Il secondo obiettivo è investire nella ricerca di base, agevolando dunque le imprese nello sviluppo di beni e processi a minore impatto ambientale. Terzo obiettivo è quello di imporre a livello internazionale il rispetto di standard ambientali adeguati, proprio per scongiurare la concorrenza dei paesi in cui la legislazione ambientale è più permissiva o i controlli sono meno rigidi.
C’è un ultimo aspetto che vogliamo sottolineare: le due tipologie di politiche, quelle dal lato della domanda e dal lato dell’offerta, non sono alternative ma complementari. Prendiamo la legge sul vuoto a rendere. Da una parte i consumatori devo essere spinti a recuperare i vuoti, dall’altra le imprese a sostituire quanto più possibile contenitori a perdere con quelli a rendere. In una visione ecologica del sistema economico, domanda e offerta non possono esser viste separatemene, ma devono coevolvere, riportando tutto il sistema economico a sincronizzarsi con i processi naturali nei quali è inserito e integrato.
Oggi si apre la campagna di tesseramento Ecoló 2022. Iscrivendovi entrerete a far parte della comunità di Ecoló, riceverete aggiornamenti e sarete coinvolti nelle attività.
Anche se non avete molto tempo da dedicare alla politica iscrivendovi sosterrete il nostro lavoro di associazione ecologista.
Seguendo questo link potete inserire i vostri dati e con un versamento di 10€ l’iscrizione sarà in breve completata (a meno che non vogliate fregiarvi del titolo di socio sostenitore e ne sborsiate 50!).
Dalle riunioni di inverno con finestre aperte e mascherina, alle manifestazioni di piazza e i pranzi di autofinanziamento…
malgrado la pandemia, il 2021 è stato un anno pieno di attività per Ecoló grazie all’impegno di tante e tanti e grazie al sostegno di tutti gli iscritti.