In tutta Italia, gli studenti si stanno mobilitando contro il caro affitti che sta rendendo sempre più difficile per loro poter studiare lontano da casa. La protesta è arrivata anche a Firenze dove l’aumento dei prezzi delle case in affitto insieme all’inadeguatezza dell’offerta di studentati pubblici sta rendendo la città sempre più inaccessibile agli studenti.
Qui sotto un grafico scioccante dell’andamento del costo degli affitti nel comune di Firenze dopo la discesa dovuta al Covid stiamo assistendo ad una vera e propria esplosione dei prezzi.
In tutta Italia, gli studenti si stanno mobilitando contro il caro affitti che sta rendendo sempre più difficile per loro poter studiare lontano da casa. La protesta è arrivata anche a Firenze dove l’aumento dei prezzi delle case in affitto insieme all’inadeguatezza dell’offerta di studentati pubblici sta rendendo la città sempre più inaccessibile agli studenti.
Abbiamo intervistato Anna Perini (fiorentina, studentessa di medicina) e Riccardo Pisoni (trentino, studente di Scienze Politiche) di UDU, organizzazione studentesca che da diversi mesi sta portando avanti una campagna su questo tema.
Ecolò: Cosa vi porta a passare il pomeriggio in una tenda?
Anna: Siamo qui a manifestare contro il caro affitti che sta rendendo questa città poco accessibile per tante categorie di persone, tra le quali gli studenti. Ci sentiamo poco tutelati. Io sono fiorentina, quindi sono anche privilegiata, ma vedo come la situazione ha reso veramente difficile la vita per gli universitari.
Riccardo: Oggi poi la situazione si è aggravata perché la presenza ai corsi è nuovamente tornata obbligatoria.
Ecolò: E’ una campagna locale o nazionale questa?
Anna & Riccardo: E’ una campagna nazionale, ma la nostra l’abbiamo iniziata ad ottobre con il nome “fuorisede senza sede”. A Firenze il Comune ha una prospettiva totalmente turistica, non inclusiva nei confronti degli studenti dell’università pubblica. E’ una città tutta proiettata sull’utile. Noi non accettiamo che non ci siano spazi per noi: vogliamo la possibilità di sviluppare un’altra prospettiva di Firenze che vuole essere più inclusiva per noi e per altri.
Ecolò: Ci sono studenti che rinunciano a venire a Firenze secondo voi?
Anna & Riccardo: Sì. L’Università ha chiuso parte delle residenze Calamandrei e Caponetto perché erano necessari dei lavori di manutenzione gli impianti. Lavori previsti da anni che hanno creato una situazione complicata. Prima gli studenti che facevano domanda per la residenza e risultavano idonei diventavano automaticamente beneficiari. Ora ci sono circa 750 idonei non beneficiari per i quali non c’è una struttura disponibile. Questi studenti ricevono un contributo affitto (che è aumentato da 250 a 350 euro/mese) ma che a questo punto non è più sufficiente per coprire le spese di un affitto.
A livello nazionale poi stiamo cercando di porre l’attenzione sul rinnovamento delle case per gli studenti anche da un punto di vista energetico perché da un punto di vista di bollette e vivibilità ci troviamo spesso con case che hanno impianti vecchi, in disuso. Abbiamo fatto un documento, varie proposte, che abbiamo presentato al Consiglio Nazionale degli Studenti Universitari CNSU un organo consultivo del Ministero dell’università e della ricerca italiano.
Ecolò: Ed a livello locale?
Riccardo: Noi abbiamo fatto un tavolo di lavoro con Regione Comune, Università e Azienda Regionale per il Diritto allo Studio. La sensazione è di non essere stati molto ascoltati. Qui sembra che ci sia maggiore attenzione nei confronti degli studenti stranieri che vanno in università private piuttosto che quelli dell’università pubblica. Non è un caso se gli studenti delle università straniere sono in aumento.
Ecolò: Cosa vorreste?
Anna & Riccardo: Aumentare gli sgravi fiscali per chi affitta agli studenti. Esistono delle agevolazioni fiscali per chi affitta a studenti con contratti concordati ma evidentemente non sono sufficiente. Poi c’è il tema centrale. Vediamo nascere ogni anno sempre più residenze private (Es. Belfiore), anche grazie al benestare del Comune. Ci hanno detto che per gli studenti stranieri 30 euro al giorno è economico. Sono 900 euro al mese: ma per quale studente italiano questo è una cifra accessibile?
Gli ultimi giorni di resistenza contro l’espansione della miniera di carbone in Germania raccontati dal fotografo Michele Borzoni.
Abbiamo intervistato Michele Borzoni, fotografo del collettivo TerraProject, che ha passato gli ultimi otto giorni dell’occupazione della fattoria di Lützerath nel Nordreno Vestfalia.
Ecoló: Ciao Michele, grazie per la disponibilità, per prima cosa ci dici chi sei?
Michele: Sono un fotografo di TerraProject, collettivo fondato nel 2006 da Simone Donati, Pietro Paolini, Rocco Rorandelli e me. Un collettivo di fotografia documentaria. In questi anni ci siamo occupati di raccontare tematiche sociali, ambientali, non prettamente ecologiste, ci siamo interessati al paesaggio, soprattutto italiano, e a storie legate all’attualità.
Ecoló: La scorsa settimana sei andato in Germania come mai?
Michele: Insieme a Rocco Rorandelli, con cui lavoro nel collettivo, abbiamo cominciato a immaginare un nuovo progetto a lungo termine sull’attivismo ambientale più radicale. Quindi abbiamo cominciato a seguire, per esempio, i movimenti e le azioni di disobbedienza civile di Ultima Generazione, che in questi ultimi mesi stanno agendo in Italia. Rocco era già stato in Germania l’anno scorso per conto di una rivista svizzera per raccontare l’espansione di miniere di carbone nella Germania occidentale. Seguendo quella storia, e le notizie che venivano da Lützerath, abbiamo capito che all’inizio di gennaio avrebbero sgomberato il villaggio. Non sapevamo esattamente quando, ma avevamo capito che sarebbe successo i primi di gennaio. Quindi ho deciso di andare e di raccontare quest’ultimo pezzo di disobbedienza civile che rappresenta un’esperienza molto forte del movimento ecologista europeo.
Ecoló: Che cos’è Lützerath?
Michele: Lützerath era una vecchia fattoria, occupata, con il consenso del proprietario, costretto a vendere la sua proprietà alla compagnia energetica tedesca RWE che ha espropriato questo terreno. Da due anni e mezzo questo gruppo di attivisti, molto numerosi, molto giovani, aveva occupato la fattoria per evitare che la miniera di carbone si espandesse in quella direzione.
Ecoló: Quando sei arrivato che situazione hai trovato?
Quando sono arrivato erano gli ultimi giorni dell’occupazione di questa fattoria, c’erano 400-500 persone dentro, quasi tutti giovanissimi. Erano giorni che costruivano barricate per fortificare gli ingressi al villaggio. Erano barricate vere. Utilizzavano qualsiasi cosa trovassero per costruire trincee e muri con lo scopo di evitare che la polizia entrasse dentro a sgomberarli.
Ecoló: Chi sono gli occupanti?
Quando entro vedo una generazione di giovanissimi di 18 -20 anni, tutti incappucciati, col volto coperto, che costruiscono barricate. Ho pensato di trovarmi in un contesto anarchico insurrezionalista di estrema sinistra, molto simile a situazioni complicate viste in Italia. Dopo poco che ho cominciato a fotografarli mi sono reso conto che non era esattamente così. C’era sicuramente una parte proveniente dai movimenti di sinistra e centri sociali di tutta la Germania, ma anche un buon numero dai gruppi ambientalisti, era un’unione di questi due mondi.
Ecoló: che tipo di accoglienza hai ricevuto?
Michele: Sono stato accolto bene, erano apertissimi alla stampa, molto diversamente dal movimento dei black bloc. Molto accoglienti sia nella comunità stessa, sia nei confronti della stampa. Questa cosa mi ha molto impressionato. Pensavo di trovarmi in un ambiente molto difficile da fotografare; non è stato così. Molti di loro, comprensibilmente, non volevano essere riconosciuti in volto perciò si coprivano, per altri non era un problema nemmeno essere riconosciuti. Quello che mi ha colpito era il desiderio di volersi raccontare, e spiegare quello che stava succedendo, che era una battaglia, una vera battaglia, per far sopravvivere questo pezzo di terra, per evitare che la miniera si espandesse. Una battaglia condotta in una forma non violenta.
Ecoló: Hai parlato di barricate, realmente si trattava di battaglia non-violenta?
Michele: Sì, questo ci tengo a dirlo. Qualche giornale in Italia ha parlato di scontri, non è la verità. Era un gruppo molto arrabbiato, molto resistente, che ha fatto fino all’ultimo disobbedienza civile non violenta per resistere.
Ecoló: Eri presente quando è avvenuto lo sgombero?
Michele: In un modo del tutto inaspettato la stampa era libera di raccontare tutto quello che succedeva. C’era un servizio della polizia che accompagnava i giornalisti nel villaggio, faceva loro fare tutto quello che volevano, quindi ho potuto assistere allo sgombero.
Sono stati richiamati migliaia di poliziotti da tutta la Germania per lo sgombero che è avvenuto per lo più in modo non violento. La violenza c’è stata nella manifestazione del 14 gennaio, una manifestazione aperta, quando Lützerath era già persa. Son arrivate 30 mila persone che hanno cercato di entrare simbolicamente dentro Lützerath che ovviamente non sono riuscite a causa della massiccia presenza delle forze dell’ordine.
È qui che ci sono state cariche della polizia verso manifestanti non violenti che cercavano di rientrare nella fattoria. E’ rimasta una manifestazione non violenta ma le persone cercavano, passo dopo passo, di sfondare i cordoni a protezione di Lützerath.
Ecoló: ti ha colpito che la manifestazione non sia degenearata?
Michele: Sì, mi ha colpito la non violenza perché penso che in Italia dopo 10 minuti sarebbe successo il finimondo. Per la maggior parte degli attivisti l’atteggiamento non era ostile nei confronti della polizia. L’obiettivo non era sconfiggere la polizia, ma evitare che il villaggio fosse evacuato. L’obiettivo era: resistere all’espansione della miniera. Un atteggiamento piuttosto diverso rispetto a quello che ho visto in esperienza radicali in Italia, dove le forze dell’ordine diventano esse stesse l’antagonista.
Ecoló: pensi che sia un tratto distintivo dei movimenti ecologisti?
Michele: Non lo so, in Germania c’è un grande rispetto, in generale. E quindi nonostante ci fosse un conflitto c’era comunque rispetto, a parte nella manifestazione finale che è finita male, con le cariche della polizia sui manifestanti fermi che avanzavano un passo alla volta. Nessuno lanciava niente, Solo mota, non sassi, ma mota, mele e gavettoni.
Ecoló: Hai colto risentimento verso i Verdi tedeschi che, dopo tutto, sono parte del governo e potrebbero fare di più per evitare che si continui a usare carbone?
Michele: C’erano dei cartelli, striscioni contro i Verdi, che evidentemente avevano tradito la causa, questo sì, però devo dire non mi sono soffermato troppo a discutere le scelte politiche. Nei giorni in cui ero io lì, quello che ho avvertito è che l’unica impellente urgenza era quella che la polizia non prendesse quel luogo, non interessava niente di altro. Loro insegnavano alla gente delle tecniche di resistenza civile. Facevano dei workshop riguardo a come rendere complicato essere sgomberati, resistendo in modo non violento.
Ecoló: Per riuscire a tenere sotto controllo una situazione del genere c’era un’organizzazione verticizzata?
Michele: Sicuramente non era una situazione improvvisata. C’erano assemblee, era tutto ben organizzato. Però devo dire che a me l’organizzazione sembrava molto orizzontale, anche se devo dire che, soprattutto per via della lingua, non avevo gli strumenti per capire esattamente tutto quello che succedeva. Probabilmente occorre anche seguire il movimento più a lungo per capirne sia le radici, ma anche come andrà, come continuerà, perché non è finita. Perché la battaglia è persa ma non è finita, il movimento di Lützerath non andrà perso.
Trasporti gratis a Firenze
Ecolo’ pensa che Firenze debba diventare la prima città italiana in cui i trasporti sono gratuiti per tutti. Sulla scia delle esperienze di Lusseburgo, Tallin e altre città[1], crediamo che si tratti di una politica sostenibile economicamente e fondamentale per realizzare la transizione ecologica.
Cerchiamo alleati per rendere concreto questo progetto. Associazioni, partiti al governo e all’opposizione, sindacati, organizzazioni di rappresentanza: vogliamo costruire un’alleanza per la transizione giusta, e i trasporti pubblici sono un primo grande obiettivo concreto sul quale lavorare.
È difficile fare una stima del costo dell’operazione ma un riferimento di massima può essere quello dell’esperienza del Lussemburgo: un paese di circa 600mila abitanti in cui il costo dell’operazione è stato stimato attorno ai 40 milioni di euro.[2]
La copertura finanziaria per un costo di quest’ordine di grandezza potrebbe basarsi su due entrate.
Un terzo dei fondi potrebbero essere ottenuti da una rimodulazione dell’addizionale comunale IRPEF. Per la restante copertura facciamo due ipotesi, la prima è un raddoppio dell’imposta di soggiorno, ad oggi non percorribile ma che potrebbe esserlo in un prossimo futuro (si veda ad esempio l’emendamento proposto recentemente alla legge di bilancio[3]). In alternativa, i proventi potrebbero provenire dal biglietto di ingresso allo scudo verde che entrerà in funzione a breve a Firenze.
La rimodulazione della flat tax addizionale IRPEF
Sulla base dei dati delle dichiarazioni dei redditi dei residenti a Firenze stimiamo che l’abbandono della flat tax dello 0,2% e l’introduzione di un’addizionale progressiva possa portare nelle casse del Comune approssimativamente 9,4 milioni di €.
Se si considera il costo di un abbonamento annuale pari a 294 €, la maggiore tassazione sarebbe più che compensata per il 95% dei percettori fiorentini. Solo il 5% più ricco potrebbe subire una perdita, ma solo nel caso non abbia familiari a carico che usufruiscono dei trasporti gratis.
Ipotesi di modifica dell’addizionale IRPEF:
Fascia di reddito | Oggi (*) | Proposta |
0-15mila € | 0 | 0,4% |
15mila-28mila € | 0 | 0,5% |
28mila-55mila € | 0,2% | 0,6% |
55mila-75mila € | 0,2% | 0,7% |
oltre 75mila € | 0,2% | 0,8% |
(*) esenzione fino a 25mila € | ||
Come cambia l’IRPEF a seconda del reddito imponibile? Il grafico sotto riporta l’aumento dell’IRPEF a seconda del reddito imponibile. La linea orizzontale tratteggiata indica quando l’aumento dell’IRPEF è superiore al costo di un abbonamento, questo avviene a circa 78mila € di imponibile. Il 95.5% dei percettori di reddito a Firenze dichiara un importo minore.
Il finanziamento dei restanti 30 milioni di costo
La nostra prima ipotesi è che il resto del finanziamento avvenga attraverso un aumento dell’imposta di soggiorno. Firenze ha già un’imposta di soggiorno molto elevata, vicina ai massimi di legge. Ma la finanziaria apre alla possibilità che questa imposta possa essere aumentata in modo sostanziale. Come dovrebbe cambiare l’imposta di soggiorno per coprire i restanti costi per un servizio di trasporto gratuito per tutti?
L’imposta di soggiorno a Firenze non è fissa, dipende dal tipo di alloggio, ma un raddoppio per tutte le categorie di alloggio sarebbe sicuramente sufficiente a reperire la cifra necessaria. A titolo esemplificativo: per un albergo a 4 stelle si passerebbe da 4,90 € a notte a 9,80 €. Per un campeggio da 3€ a 6€ a notte. Per un Airbnb si passerebbe da 4 € a 8 € per notte.[4] Questo aggravio per i turisti sarebbe in parte compensato dalla gratuità dei servizi di trasporto che permetterebbe loro non solo di visitare una Firenze meno inquinata ma anche di potersi spostare gratuitamente per la città. Per questo riteniamo che usare il gettito per rendere gratuito il trasporto pubblico locale sia coerente con quanto previsto dalla legge riguardo all’utilizzo dell’imposta di soggiorno[5].
L’aumento dell’imposta di soggiorno è una possibilità concreta di finanziamento soltanto nel caso in cui la legge renda possibile di modificarne l’importo sopra i 5 €. Se questa opzione non sarà percorribile immaginiamo un finanziamento basato sul biglietto di ingresso allo scudo verde in fase di realizzazione per Firenze (sulla stampa si parla di 2024), coerentemente con quanto succede a Milano dove il Comune incassa circa 40 milioni l’anno dai biglietti per l’ingresso in Area C[6]. Per garantire la copertura, nel caso di Firenze sarebbe necessario calibrare un biglietto di ingresso proporzionato che è un’operazione difficilmente realizzabile ex-ante.
Il trasporto gratis è efficace se applicato in sinergia con altre azioni
Le esperienze di altre città ci mettono in guardia sull’adottare questa politica senza calarla in un ridisegno più generale della città. Presa singolarmente, altrimenti, l’eliminazione del costo del servizio rischia di attrarre più che altro persone che oggi si spostano in bici o a piedi e non gli automobilisti[7]. È importante che questa politica sia quindi introdotta parallelamente a una riduzione dello spazio per le auto, pedonalizzazioni e restringimenti di carreggiata tesi a lasciare spazio in strada a pedoni, bici, tram e autobus. Magari proprio l’applicazione dello scudo verde potrebbe rappresentare la giusta occasione per introdurre la gratuità del trasporto pubblico locale nell’area metropolitana di Firenze: a fronte di una misura di limitazione del traffico veicolare privato urbano, si introdurrebbe un valido incentivo all’uso dei mezzi pubblici per chi si sposta in auto per raggiungere la città.
[1] In Italia Genova sta sperimentando da mesi trasporti gratuiti per alcune tipologie di mezzi e fasce orarie: https://smart.comune.genova.it/comunicati-stampa-articoli/settembre-trasporto-pubblico-urbano-gratuito-le-matricole-0
[2] https://www.bloomberg.com/news/articles/2022-07-07/inside-luxembourg-s-experiment-with-free-public-transit
[3] https://www.lanazione.it/firenze/cronaca/tassa-di-soggiorno-emendamento-per-alzarla-a-dieci-euro-a-notte-1.8390446/amp
[4] http://centroservizi.lineacomune.it/immagini/images/IMPOSTASOGGIORNO/firenze2014/delibera4832019tariffe2020.pdf
[5] Al comma 1 dell’articolo 4 del D.Lgs. del 14 marzo 2011 n. 23 si legge: è destinato a finanziare interventi in materia di turismo, ivi compresi quelli a sostegno delle strutture ricettive, nonché interventi di manutenzione, fruizione e recupero dei beni culturali ed ambientali locali, nonché dei relativi servizi pubblici locali.
[6] https://www.ansa.it/lombardia/notizie/2020/01/22/milano-4-mln-incassi-ingressi-area-c_5fea2685-5e02-405b-a08c-fdb6685d8286.html
[7] https://www.theguardian.com/cities/2016/oct/11/tallinn-experiment-estonia-public-transport-free-cities
A venti anni dal Social Forum Europeo, Firenze ha accolto un importante incontro di convergenza tra centinaia di attivisti, in rappresentanza di più di 150 organizzazioni italiane, europee e internazionali, per discutere di come darsi maggiore forza ed efficacia di fronte alle grandi sfide dell’oggi: la guerra nel nostro continente, il collasso climatico e ambientale, l’inaudita crescita della diseguaglianza, il consenso popolare alla destra estrema, lo svuotamento della democrazia.
Anche Ecolò ha partecipato, attraverso Assemblea Ecologista, la rete di associazioni locali ecologiste di cui fa parte.
Qui in basso riportiamo il discorso per intero.
“Sono Caterina Arciprete, rappresento Assemblea Ecologista, una realtà nata nel 2022 dalla rete tra associazioni politiche ecologiste locali che hanno un comune alcuni aspetti: un forte radicamento locale, il guardare il mondo da una prospettiva ecologista e l’essere orfani di una rappresentanza a livello nazionale che abbia le competenze e la credibilità di costruire – piuttosto che postulare – la transizione ecologica.
Oggi sono 20 anni dal Social Forum Europeo, ma sono anche 50 anni dalla Conferenza di Stoccolma che si è tenuta nel 1972: quella conferenza è stata la prima dell’ONU sull’ambiente umano che metteva sul tavolo due fatti: 1) siamo tutti interdipendenti; 2) ora non vediamo ancora gli effetti, ma stiamo sfruttando l’ambiente in un modo che non è sostenibile e che ci condurrà a scenari catastrofici. Dobbiamo agire.
A 50 anni dalla Conferenza di Stoccolma ed a 20 anni dal Social Forum Europeo, il bilancio è molto negativo.
Per noi il mondo più naturale di rispondere alla domanda: da “come vincere le destre”, è riformularla in “come portare al governo una visione ecologista” visto che anche negli anni passati scelte sbagliate sono state fatte a destra e a sinistra, e proprio dentro quest’ultima abbiamo visto il dramma e l’inutilità dell’aver messo in contrapposizione temi come diritto alla salute e diritto a lavoro. Tutto ciò sempre in chiave estremamente antropocentrica, non riconoscendo mai il diritto alla natura di esistere.
Oggi le evidenze ci fanno capire chiaramente che l’unica prospettiva che guarda al futuro è una prospettiva di tipo ecologista che declina nella sua azione tre aspetti: l’importanza della diversità (la forza di un ecosistema dipende dalla diversità delle specie al suo interno), la legge dell’interdipendenza, la consapevolezza che le risorse sono limitate.
Una prospettiva ecologista, quindi, non è limitata alla visione ambientalista, ma si pone come cornice di metodo e direzione. Una prospettiva ecologista – e progressista – non è fatta dalla somma delle battaglie dei comitati e delle lotte, ma dall’integrazione delle diverse istanze in un’ottica di equilibrio, interdipendenza e valorizzazione della diversità.
Pertanto, è un lavoro faticoso, fatto di dialogo, apertura, cura, concertazione, empatia.
Crediamo che i tempi siano maturi, la necessità della transizione ecologica si sta palesando nelle sue manifestazioni più drammatiche e sta diventando un “valore”, soprattutto tra i ragazzi e le ragazze più giovani. Quindi a noi la responsabilità, da un lato di portare questa visione e questi valori in tutti i luoghi della vita pubblica e della società riappropriandosi di luoghi e spazi lasciati alle destre, dall’altro di lavorare incessantemente affinché la politica faccia un salto, ovvero smetta di tenere insieme i particolari in un equilibrismo precario e di facciata a crei un equilibrio reale tra persone e l’ambiente in cui viviamo.”
Un anno e mezzo fa abbiamo intervistato Jouni Kantola, giornalista fiorentino-finlandese, riguardo all’elezione di Sanna Marin. Oggi, dopo due anni di governo e in concomitanza con la svolta storica della richiesta di ingresso della Finlandia nella NATO, l’abbiamo ricontattato per chiedergli della svolta nella politica di difesa della Finlandia.
ECOLO’: Per prima cosa, come giudichi questi quasi due anni e mezzo di governo della premier finlandese?
E’ difficile giudicare l’operato della premier finlandese e paragonare il lavoro del suo governo a quello dei governi precedenti a causa della pandemia: Marin ha iniziato il suo mandato come primo ministro pochi mesi prima del primo lockdown. Di conseguenza la quasi totalità del suo tempo come primo ministro è stata dedicata all’emergenza sanitaria. C’è poco di “normale” in questo e di paragonabile al lavoro dei suoi predecessori. Detto ciò, Marin ha dimostrato una leadership forte e ha guadagnato un buon consenso fra i cittadini. La disoccupazione è ai minimi storici e l’interesse internazionale nei confronti della Finlandia è tendenzialmente alto, paradossalmente anche grazie alla sua indiscutibilmente bella presenza.
ECOLO’: Parlando del motivo fondamentale di questa seconda intervista, come pensi che stia gestendo l’evoluzione del posizionamento del tuo paese nel panorama geopolitico attuale?
A mio parere la sta gestendo bene. In Finlandia nella politica estera il presidente della repubblica ha un ruolo importante e Marin ha gestito il cambiamento del nostro posizionamento geopolitico insieme con il presidente Niinistö e con il parlamento. E’ curioso che questo modello di gestione degli affari esteri abbia molto a che vedere con “finlandizzazione”, cioè la condizione di neutralità del paese necessaria per mantenere l’indipendenza nei confronti della Russia. Il garante dei nostri rapporti con la Russia dopo la seconda guerra mondiale è stato tradizionalmente il presidente della repubblica, una specie di “uomo approvato” da parte della Russia.
ECOLO’: Non pensi che invece che rafforzare la NATO sarebbe preferibile una forza di difesa europea, scelta che consentirebbe anche di ridurre invece che aumentare le spese militari nel continente?
No, non lo penso. La guerra d’invasione da parte dei russi in Ucraina ha rimosso ogni dubbio riguardo a cosa sia capace la Russia e, dall’altro lato, quale è il destino di un paese che non fa parte dell’alleanza NATO. Rimane solo. Noi finlandesi abbiamo già combattuto contro la Russia da soli nella seconda guerra mondiale e sinceramente se dovesse capitare di affrontare nuovamente la Russia in guerra non mi dispiacerebbe trovare qualche italiano, spagnolo, norvegese, inglese, danese etc accanto ad aiutarci. La NATO è la risposta concreta e credibile che esiste già. Sono a favore di rafforzare una difesa europea in linea con il peso economico dell’UE, però oggi, con Putin che si muove in questo modo, abbiamo bisogno di più garanzie immediate.
ECOLO’: Cosa ti aspetti che succederà ora in Finlandia, sul suo confine est e nella NATO?
Spero niente. L’obiettivo della Finlandia con l’ingresso nella NATO è il mantenimento dello status quo o il limitare al massimo possibili evoluzioni. Vogliamo mantenere la nostra democrazia, istituzioni e cultura e vediamo nella NATO il garante di questo. Non temiamo l’invasione da parte degli svedesi, tedeschi oppure americani, con cui condividiamo anche un patrimonio di valori comuni, istituzioni e idee. La nostra unica minaccia è la Russia. I russi possono essere dei grandi bugiardi, come abbiamo visto, e si ragiona male con uno Zar lanciato verso l’invasione. Ma i russi capiscono la forza: c’è un proverbio russo che si traduce “Prova con la baionetta. Se fosse morbido, spingi, se invece fosse duro, girati e vai via”. Ci tengo a dire che mia nonna dovette lasciare la sua bellissima casa di legno sulla riva del lago Laatokka in Carelia dopo la seconda guerra mondiale insieme a oltre 400.000 altri finlandesi. Dietro alle sue spalle, i russi si accomodarono in casa sua. Abbiamo una memoria. Possono passare tanti anni di pace, ma prima o poi partono all’attacco. Finché non fanno i conti con il loro passato e finché non osano chiedere la democrazia, giustizia, diritti civili e la verità, non ci possiamo fidare. Occorre prendere delle precauzioni.
Presi dall’entusiasmo per l’elezione di Sanna Marin in Finlandia abbiamo intervistato Jouni Kantola, giornalista fiorentino-finlandese e co-amministratore di Berta Film, un’azienda produttrice e distributrice di film documentari e fiction.
ECOLO’ : In Italia ci facciamo spesso prendere da ubriacature di entusiasmo esterofilo, Zapatero, Hollande, Tsipras, che effetto ti fa vedere oggi tanto entusiasmo sulla stampa italiana riguardo alla nuova premier del tuo paese?
Jouni Kantola: L’entusiasmo riguardo al governo finlandese, una coalizione dove i cinque partiti della maggioranza sono tutti guidati da donne, quattro delle quali sotto i 35 anni di età, è stato un entusiasmo mondiale, penso che l’Italia non potesse mancare all’appello. È importante però capire e riconoscere che non si tratta di una messinscena populista: la parità di genere in Finlandia viene da lontano. Nel 1906, la Finlandia fu il secondo paese nel mondo dopo l’Australia a introdurre il suffragio alle donne. La generazione detta ‘millenials’, di cui fanno parte le quattro donne che attualmente guidano i partiti del governo finlandese, è cresciuta con la Presidente Tarja Halonen, che fu la prima donna a ricoprire questa carica dal 2000 al 2012. La parità di genere in Finlandia è nei fatti. C’è un consenso diffuso in Finlandia sul fatto che che Sanna Marin e le sue colleghe ministre occupino le loro cariche politiche non perché sono donne, ma perché sono le persone più qualificate che la nazione ha a disposizione al momento.
ECOLO’ : Vuoi raccontarci qualcosa di Sanna Marin? Come è arrivata così giovane a fare la premier?
Sanna Marin è qualificata, tosta e intelligente. Ha una laurea in scienze dell’amministrazione e ha militato nei giovani del Partito Socialdemocratico Finlandese. Nel 2012 è stata eletta nel Consiglio comunale di Tampere, la terza città Finlandese. Come presidentessa del Consiglio comunale di Tampere dimostra le sue capacità di dirigere gruppi politici, talvolta molto discordanti, arrivando a risultati concreti e comprensibili per i cittadini. Alcune di queste sedute del Consiglio comunale, trasmesse live via internet, diventano virali e aumentano la sua visibilità nazionale. Membro del parlamento finlandese dal 2015 e ministro dei trasporti e delle telecomunicazioni della Finlandia dal 2019, aveva già ricoperto il ruolo di primo ministro durante la malattia del ex-presidente Antti Rinne. Nella vita privata è sposata con un figlio; è cresciuta come figlia di una coppia gay, ovvero due mamme. Nella sua infanzia ha subito una povertà insolita nel contesto finlandese e di conseguenza ha una particolare attenzione riguardo a questioni di povertà. Sulla mappa politica destra-sinistra, Sanna Martin è sulla sinistra anche all’interno del suo stesso partito dei Socialdemocratici.
ECOLO’ : Cosa ti aspetti che possa fare Sanna Marin, al di là del potere simbolico del suo successo, per migliorare la situazione della Finlandia?
JK: Lei deve governare e garantire che il programma di governo sia realizzato, è questo il suo mestiere. La sfida è notevole, perché un pezzo fondamentale del suo governo, il Partito di Centro Finlandese, è in contrapposizione con gli altri elementi della coalizione sulle politiche ambientali e sul mercato di lavoro. Inoltre, eredita una difficile situazione nel mercato di lavoro dal governo precedente di centrodestra, dove i lavoratori hanno dovuto affrontare molti sacrifici. Il programma di governo c’è però, ed è firmato da tutta la coalizione. Lei può essere la garante di questo programma, dovrà riuscire a fare in modo che i voti dei cittadini alle elezioni di Aprile 2019 si traducano in atti.
ECOLO’ : La Finlandia ambisce a emissioni nette zero di C02 entro il 2035, credi che l’impegno del nuovo governo sui temi ecologisti sia credibile?
JK: La Finlandia può sfruttare dei sink biosferici importanti grazie al suo patrimonio forestale che la favorisce nel tentativo di emissioni nette zero, però per arrivare a tale scopo entro 2035, dovremmo vedere cambiamenti radicali subito e su tutti i settori chiave della società: industria, logistica e produzione del riscaldamento ed energia elettrica. Il cambiamento non è stato avviato ancora e perciò le dichiarazioni del governo al giorno di oggi non sono credibili. Detto questo, le elezioni erano ad Aprile 2019 e il termine del governo scade Aprile 2023. Il saldo totale di questa ambizione va visto al termine del mandato, ma è certamente urgente che questo governo passi all’azione.
ECOLO’ : Pensi che il ruolo della donna sia così diverso nella società finlandese rispetto a quella italiana? Oltre a motivi culturali, credi che ci sia qualcosa che le istituzioni potrebbero fare?
JK: L’occupazione femminile in Italia è intorno al50%, penultimo posto in Europa. In Finlandia l’occupazione femminile è intorno al 70%, in crescita. Credo che ci sia l’imbarazzo della scelta fra le politiche che le istituzioni potrebbero mettere in atto per migliorare la parità di genere in questo paese, ma non sono esperto di questa materia. Certamente la gestione dei figli nella coppia e il sostegno reciproco che la società può garantire per entrambi i sessi per evitare l’emarginazione a causa della maternità è fondamentale. Le istituzioni però non esistono in astratto, ma riflettono la cultura e valori del paese. Ecco perché non si scappa: in un contesto in cui la donna non è considerata degna di rappresentare Dio o di partecipare alla massoneria, dove vogliamo andare? Non credo che sia un caso che uno dei fenomeni culturali più importanti di questo decennio – #metoo – ha avuto molta meno visibilità in Italia rispetto a tanti altri paesi dell’Occidente. L’Italia è talmente “sottosviluppata” in materia di pari opportunità che la gente non ha nemmeno capito le sfumature e l’importanza del messaggio #metoo. Si tratta di un contesto troppo distante da quel movimento, qua si sta ancora aspettando di conoscere le prime ortopediche e preti donna. In Finlandia i mezzi di comunicazione di massa sono passati alla lingua genere neutro e monitorano che nelle notizie si dia rappresentanza in pari misura per entrambi i sessi.
ECOLO’ : Come italiani viviamo sempre il complesso di essere culturalmente arretrati rispetto ai paesi scandinavi. Tralasciando il cibo e il vino, c’è qualcosa in cui ti pare che il nostro paese riesca a fare meglio rispetto alla Finlandia?
JK: Io adoro l’Italia e ho scelto di vivere e far crescere i miei figli qua invece che in Finlandia. Credo che questa scelta abbia a che vedere con la qualità di vita, che non si riduce ai soli parametri di indicatori statistici. Italia e Grecia hanno contribuito alla cultura di questo continente in tale misura che possono camminare testa alta ancora a lungo; nonostante le tante difficoltà che ci sono nel paese, bisogna ricordare che ci sono anche tanti centri di eccellenza, innovazione e creatività. Mi rattrista però vedere l’Italia sprecare le sue risorse – come donne, giovani, ricchezze naturali – grazie ai tanti corrotti, vecchi bunga bunga e l’illusione dell’ ‘uomo forte’. Stento a paragonare i due paesi tra di loro, perché le variabili sono troppe e si cade facilmente nella trappola dei luoghi comuni. Però posso dire che in Italia la rete ferroviaria è più avanzata che in Finlandia, dove alta velocità vera non esiste. Avete una cultura urbana squisita con delle città una più bella dell’altra a dimensione umana – grazie all’architettura dei secoli passati. Credo che nella robotica siate avanti e chiaramente nei tradizionali settori italiani come la moda e gastronomia. C’è poi una condivisione intergenerazionale bella in Italia, coi nonni onnipresenti. Noi Finlandesi siamo sparpagliati ovunque nel paese e come si lascia il nido materno all’età di diciott’anni, i legami familiari si rompono spesso troppo bruscamente.
ECOLO’ : grazie mille Jouni per il tuo tempo!
Il nodo dell’Alta Velocità a Firenze
Da dove nasce l’esigenza di realizzare a Firenze un passante ferroviario dedicato all’Alta Velocità (AV)?
Sulla linea AV Milano-Napoli, il nodo fiorentino rappresenta una strozzatura, dato che non permette la necessaria differenziazione dei traffici tra i treni AV, quelli a lunga percorrenza e regionali. Questa situazione provoca ritardi ai treni AV, soprattutto i molti che si devono fermare alla stazione di testa Santa Maria Novella, e penalizza in particolare i treni regionali che subiscono continui ritardi e cancellazioni perché costretti a dare la precedenza ai treni AV.
A causa della congestione delle linee, inoltre, non è mai stato possibile utilizzare alcuni dei binari che attraversano da parte a parte e in superficie l’area metropolitana di Firenze per creare un vero e proprio Servizio ferroviario metropolitano cadenzato e capillare, sul modello delle S-Bahn tedesche, che integrato al sistema tranviario e dei bus potrebbe costituire una rete di trasporti locali efficiente per gli abitanti di Firenze e di tutta l’area metropolitana (ne abbiamo parlato in questo articolo).
Le scelte progettuali sul passante ferroviario fiorentino dell’Alta Velocità si caratterizzano per due punti fondamentali:
Difficile avere notizie ufficiali recenti sullo stato di avanzamento dei lavori: a maggio 2019 le opere risultavano completate per circa il 50%, con costi complessivi lievitati a 1 miliardo e 612 milioni di euro a fronte di un costo di 797 milioni e 370mila euro per le opere ancora da realizzare (Fonte: Analisi Costi Benefici del sottoattraversamento AV di Firenze, 31/07/2019, disponibile su www.mit.gov.it). Di tutto il progetto, ad oggi risulta ultimato lo ”scavalco” già in esercizio dal 2011 tra Rifredi e Castello (opera che permette ai binari AV di non interferire con i binari esistenti) ed è a buon punto il cantiere della stazione AV, mentre quasi niente è stato ancora fatto per lo scavo dei tunnel (di fatto a Campo di Marte è stato solo completato il “pozzo lancio fresa”, la fresa TBM è stata assemblata ma non ha mai iniziato a scavare).
Sono molti gli ostacoli che negli anni hanno rallentato e bloccato l’avanzamento dei lavori, che avrebbero dovuto concludersi entro il 2015, a partire da varie inchieste giudiziarie tra cui quella iniziata nel 2010 che ha riguardato lo smaltimento delle terre di scavo dei cantieri. Ai numerosi guai giudiziari si è aggiunta anche la grave crisi aziendale della ditta esecutrice dei lavori Nodavia, causata dal fallimento nel 2018 della sua capogruppo Condotte Spa. Nel 2019 l’appalto è stato quindi affidato a Infrarail Firenze Srl, società neo-costituita da RFI proprio allo scopo di portare a termine i lavori del nodo AV fiorentino.
Il Cantiere della nuova Stazione di Firenze Belfiore, nell’area degli Ex-Macelli [fonte: www.ifrfirenze.it]
Oggi ci troviamo a quasi vent’anni dal progetto Foster e l’area degli ex-Macelli di Firenze ospita ancora un cantiere da anni praticamente fermo, una voragine nel centro della città che finora ha inghiottito centinaia di milioni di euro (pagati in autofinanziamento da Rete Ferroviaria Italiana), per una stazione che ancora non ha visto la luce e il cui progetto è stato a più riprese rivisto e messo in discussione dalle stesse Ferrovie dello Stato.
Prima, nel 2011, con un nuovo accordo tra RFI, Regione Toscana, Provincia e Comune di Firenze, è stato eliminato dal progetto il completamento di varie stazioni del Servizio Ferroviario Metropolitano (fra queste ad esempio le stazioni Circondaria e Perfetti-Ricasoli). Il completamento doveva essere a carico di RFI, che ha indennizzato il Comune di Firenze con circa 70 milioni, congelando di fatto il progetto di rafforzamento del Servizio Ferroviario Metropolitano che era strettamente collegato a quello del nodo AV. In particolare è stata stralciata la previsione della stazione Circondaria, che doveva sorgere in superficie in corrispondenza della stazione sotterranea Belfiore e consentire quindi un raccordo tra passeggeri dell’Alta Velocità, dei treni regionali e del servizio metropolitano.
Poi, nel 2016, le Ferrovie hanno addirittura inaspettatamente rimesso in discussione l’intero progetto dell’alta velocità nel nodo fiorentino. Le esperienze delle altre stazioni sotterranee per l’alta velocità realizzate e già in funzione (Bologna, Roma Tiburtina, Torino Porta Susa) avevano infatti dimostrato che la nuova stazione AV avrebbe avuto costi di gestione troppo alti rispetto al volume di passeggeri previsto. Tenendo conto anche dei miglioramenti tecnologici raggiunti negli ultimi anni che hanno permesso una migliore gestione del traffico ferroviario e della volontà espressa da Trenitalia e NTV di continuare ad usare Firenze SMN come stazione principale per i loro treni alta velocità, la stazione Belfiore e il sottoattraversamento sono diventate agli occhi delle Ferrovie due opere su cui non valeva più la pena puntare.
In questo scenario, qual è stata la posizione di Regione Toscana e Comune di Firenze?
La Regione, va detto, ha sempre mantenuto una posizione coerente e prima con Enrico Rossi e poi con Eugenio Giani ha continuato a sostenere la necessità del progetto originario (tunnel per l’alta velocità, stazione sotterranea per treni AV e stazione Circondaria di superficie per treni regionali), vista la necessità di separare grazie ai tunnel il traffico regionale da quello AV.
Più confusa la posizione del Comune di Firenze, con il Sindaco Nardella che ha prima ribadito la necessità di mantenere fede al progetto originario, per poi abbracciare la nuova proposta di Ferrovie secondo cui Santa Maria Novella doveva rimanere il terminale principale per i treni AV, con una nuova stazione Belfiore ridimensionata rispetto al progetto iniziale e con funzione di “hub ferro/gomma” con la presenza di stalli per bus interurbani e turistici e la fermata di alcuni treni alta velocità.
Un importante contributo al dibattito, soprattutto alla luce del dietrofront di Ferrovie, si è aggiunto nel 2019 con la pubblicazione dell’Analisi Costi Benefici del sottoattraversamento AV di Firenze, commissionata dall’allora Ministro dei Trasporti Danilo Toninelli e curata dal gruppo di lavoro guidato dal professor Marco Ponti. L’analisi ha dato un responso sostanzialmente favorevole al completamento delle opere, sostenendo che porterebbe complessivamente benefici maggiori dei costi, consentendo ai treni AV che transitano dal nodo di Firenze di risparmiare tempo, ed ai treni regionali e metropolitani di aumentare la propria offerta in modo significativo. Completare i lavori, inoltre, sarebbe ormai preferibile rispetto all’opzione di abbandonarli, dato anche che in tal caso dovrebbero essere ripristinate tutte le aree attualmente interessate dai cantieri.
Questo non vuol dire tuttavia che dal rapporto sia uscito un giudizio in assoluto positivo per l’opera, e su questo pesa soprattutto il fatto che non sia stato possibile nell’analisi prendere in considerazione vere alternative: le scelte a favore del sottoattraversamento e di ubicare la stazione in una zona relativamente centrale di Firenze infatti hanno di fatto imposto al progetto vincoli determinanti, ad esempio escludendo per la stazione possibili altre localizzazioni come Campo di Marte o l’area a monte di Rifredi che secondo gli stessi autori avrebbero probabilmente dato risultati migliori.
Ponti & C. nel loro rapporto hanno poi evidenziato alcune condizioni fondamentali, senza le quali verrebbe replicato l’attuale assetto del traffico ferroviario sfavorevole per i treni regionali e quindi l’intera opera perderebbe molti dei benefici che ne giustificano l’esistenza: la realizzazione, in corrispondenza della stazione Belfiore, della stazione di superficie Circondaria per treni regionali e metropolitani; la realizzazione di un collegamento tra Belfiore/Circondaria e SMN (tramite tapis roulant o people mover); lo spostamento da SMN a Belfiore di tutti i treni AV che fermano a Firenze, non solo di alcuni di essi.
Le nostre proposte
Stupisce come si parli ancora troppo poco nel dibattito cittadino e regionale di un’opera così importante, nel bene e nel male, come quella del nodo fiorentino dell’Alta Velocità: una grande opera con effetti potenzialmente molto positivi sulla mobilità metropolitana e regionale, rilevante dal punto di vista urbanistico ma anche molto impattante dal punto di vista ambientale.
Da anni ormai sui giornali escono regolarmente dichiarazioni da parte del Comune o della Regione che comunicano l’imminente ripresa dei lavori, ma la project review annunciata fin dal 2016 ad oggi non risulta sia mai stata conclusa né tantomeno pubblicata, quindi rimane un grosso interrogativo: i lavori riprenderanno (se riprenderanno) per realizzare cosa?
Come Ecoló siamo fermamente contrari ad esempio alla proposta presentata nel 2017 da Ferrovie e sostenuta dal Comune di Firenze, di ultimare la stazione Belfiore trasformandola in un centro di smistamento treno/gomma con la fermata solo di alcuni treni AV e gli stalli per bus extraurbani. Si tratta di una proposta incongruente sotto tanti punti di vista. Innanzitutto non esiste nessuna valutazione dell’impatto sul traffico di un hub per gli autobus in una zona così centrale della città. Poi, assecondare le richieste di NTV e Trenitalia continuando ad utilizzare SMN per la maggior parte dei treni Alta Velocità, significherebbe lasciare poche capacità residue per incrementare i servizi regionali e compromettere la possibilità di istituire un vero Servizio Ferroviario Metropolitano. Infine, la proposta non prevede la realizzazione della stazione Circondaria, quindi di un interscambio tra treni regionali e AV/bus extraurbani.
Per fortuna, dalle notizie che riportano gli esiti dei più recenti incontri tra i rappresentanti del Gruppo Ferrovie, il Presidente della Regione Toscana Giani e il Sindaco di Firenze Nardella, sembrerebbe (il condizionale è d’obbligo) che questa posizione sia stata almeno in parte superata e che sia tornata sul tavolo la proposta di realizzare anche la stazione Circondaria per i treni regionali, insieme alla connessione tramite people mover della nuova stazione con SMN.
Dal punto di vista dei cittadini dell’area metropolitana, l’accettabilità di un’opera come quella del nodo fiorentino dell’Alta Velocità, impattante dal punto di vista ambientale e urbanistico, dovrebbe essere misurata tenendo in giusta considerazione le ricadute del progetto a livello locale. Per questo motivo, come Ecoló riteniamo che la realizzazione di un vero e proprio Servizio Ferroviario Metropolitano debba essere inserito come condizione irrinunciabile all’interno degli accordi tra RFI e le amministrazioni locali, qualunque sia la soluzione tecnica adottata (sottoattraversamento o alternativa di superficie) per realizzare il passante AV fiorentino.
In realtà ci chiediamo perché non sia mai stato preso seriamente in considerazione lo studio dell’alternativa di superficie al passante ferroviario AV. Un’opzione che, a lavori ancora da iniziare, avrebbe potuto rappresentare un’alternativa ad un’opera che presenta criticità significative dal punto di vista ambientale (interferenza con la falda, gestione delle terre da scavo) e di sicurezza (stabilità degli edifici sotto cui i tunnel saranno scavati).
D’altra parte però, anche in considerazione dello stato di avanzamento dei lavori, crediamo che la scelta di completare il sottoattraversamento sia da considerarsi ormai preferibile rispetto a rinunciare ad un’opera potenzialmente molto vantaggiosa per migliorare la mobilità ferroviaria regionale e metropolitana, purché:
Siamo convinti che una delle principali soluzioni per migliorare la mobilità a Firenze sia rafforzare i suoi collegamenti via treno, prioritariamente quelli che la connettono al resto dell’area metropolitana e all’intera regione, ed il passante AV di Firenze e le opere connesse potrebbero permettere di fare un grande passo in avanti in questa direzione. Crediamo che senza le due condizioni sopra indicate, tuttavia, venga meno l’unica vera giustificazione, almeno dal punto di vista dei cittadini di Firenze, per realizzarlo: l’opportunità di sviluppare un efficiente servizio di treni metropolitani di cui la città avrebbe urgentemente bisogno.
di Caterina Arciprete
Lo scorso dicembre, l’Americal Political Science Review, un’importante rivista accademica americana, ha pubblicato un articolo dal titolo “Political legitimacy authoritarianism and climate change”. L’autore sostiene che nelle situazioni di emergenza può esservi un conflitto tra: (i) la capacità dello Stato di proteggere il cittadino ed (ii) il mantenimento dei diritti tipici di una democrazia liberale. In tal senso, le limitazioni imposte per fronteggiare la pandemia da Covid-19 rappresentano un esempio illustrativo. L’autore sostiene, poi, che i cambiamenti climatici rappresentano una minaccia di gran lunga peggiore rispetto alla pandemia in quanto metteranno a rischio la vita non solo dei cittadini di oggi, ma anche delle prossime generazioni. Nel futuro, quindi, la necessità di fronteggiare situazioni di emergenza legate ai cambiamenti climatici potrebbe condurre ad uno scenario in cui l’unico Stato in grado di affrontare la crisi climatica è uno Stato autoritario. L’autore conclude dicendo, che se questo non è auspicabile, è purtuttavia una possibilità da non scartare se la posta in gioco è quella di salvare il mondo e le generazioni future.
La domanda che ci poniamo in questo articolo è quindi la seguente: se la crisi climatica conduce ad una situazione di emergenza permanente, siamo disposti ad accettare uno “stato di eccezione”? Ovvero uno Stato in cui sono sospese alcune garanzie costituzionali al fine di rispettare il principio di giustizia intergenerazionale? Cosa ci sta insegnando la gestione della pandemia a tal riguardo?
Può aiutare ad orientarsi nella discussione un breve aneddoto storico citato da Gianfranco Pellegrino per introdurre il tema dello stato di eccezione.
La Mignonette, una piccola imbarcazione da diporto, partì il 19 maggio del 1884 dalla Gran Bretagna alla volta dell’Australia, su incarico di un magnate australiano che l’aveva acquistata. L’equipaggio contava quattro persone. La nave affondò il 5 luglio e i quattro trovarono riparo su una scialuppa. Chi li trasse in salvo tra il 26 e il 27 di luglio, però, trovò solo tre sopravvissuti, che vennero processati per l’uccisione e il cannibalismo del quarto membro dell’equipaggio. La pena di morte venne subito commutata a sei mesi, per effetto dell’opinione pubblica favorevole agli imputati.
Ovviamente questo racconto non corrisponde alla situazione che stiamo vivendo oggi, ma nella sua efferatezza descrive bene la tensione che può venirsi a creare tra necessità di mantenere i principi democratici e la necessità di proteggere i cittadini. L’aneddoto sembra dire che la giustizia “normale” valga in condizioni normali, non in quelle “eccezionali”. L’eccezionalità, dunque, sembrerebbe giustificare l’adozione di regole “diverse”. L’aneddoto dà, inoltre, lo spunto per analizzare alcuni elementi importanti.
La gestione della pandemia ci permette, poi, di provare ad affrontare un’altra tematica: in emergenza pandemica la popolazione ha accettato alcune misure estremamente forti e restrittive come il confinamento e il divieto di aggregazione. Sarebbe dunque disposta a rinunciare a possibilità che oggi reputa scontate (ad esempio la possibilità di mangiare carne da allevamento intensivo) con l’obiettivo di salvaguardare il pianeta e rispettare il principio di giustizia intergenerazionale?
In questo senso, la crisi climatica ha alcune differenze fondamentali con l’emergenza pandemica:
In conclusione, cosa impariamo dalla gestione dell’emergenza pandemica rispetto alla crisi ambientale?
Che trattare la crisi ambientale in ottica emergenziale potrebbe portare a strette autoritarie, minore trasparenza e fretta decisionale (Amnesty) e che ciò si potrebbe ripercuotere sul livello di coesione sociale di una comunità. Come si fa a costruire un consenso politico intorno a misure impopolari quando l’emergenza è ancora scarsamente percepita ed i risultati delle misure saranno apprezzati in misura prevalente dalle future generazioni?
La pandemia mostra che siamo in grado di affrontare delle misure “impopolari” quando ne capiamo il senso profondo, quando sappiamo che siamo dentro un processo “giusto” capace di distribuire i costi in modo equo. La sfida è rendere desiderabile quello che oggi risulta “impopolare”. Non ci sarà nessuna transizione senza che vi siano gli spazi democratici in cui si possa coltivare un consenso intorno alle grandi trasformazioni necessarie.
Anche per questo, il 5 Febbraio a Firenze, c’è stata l’Assemblea Ecologista promossa da Ecolò insieme ad altre importanti realtà ecologiste italiane.
Ecolo’ ha partecipato con grande soddisfazione all’organizzazione della prima Assemblea Ecologista. Nel corso della giornata si sono susseguiti interventi di tutto il mondo ecologista italiano e europeo. Hanno aperto i lavori Vula Tsetsi, segretaria generale dei parlamentari verdi europei a Bruxelles e Rossella Muroni, parlamentare di Facciamo Eco fra le ispiratrici della giornata. Dopo i saluti di Beppe Sala, sindaco di Milano, si sono avvicendati online e in presenza decine di relatori (48). Portatori di esperienze civiche ecologiste nei territori, amministratori locali, animatori di comunità e di movimenti, parlamentari e persone comuni, da Bari al Sud Tirolo, da Roma a Trieste. Impossibile riassumere quanto è stato detto ma la registrazione completa è disponibile all’indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=-g4pF3wcJ1Q
Alcuni partecipanti hanno rilasciato saluti e dichiarazioni prima e dopo il loro intervento:
https://assembleaecologista.org/contributi.php
I partecipanti sono stati tantissimi. Visti i limiti della sala solo 134 hanno potuto partecipare in presenza mentre poco meno di 200 sono stati gli accreditati per partecipare online che hanno seguito via Zoom i lavori.
Grazie alle donazioni di tanti promotori, dei parlamentari di Facciamo Eco, del gruppo Greens/EFA al parlamento Europeo, di Green Italia, di Ambientalmente Lecco e di Ecolo’, l’assemblea ha potuto chiudere il bilancio in attivo (il dettaglio delle spese e delle entrate è disponibile qui: https://www.assembleaecologista.org/rendicontazione_assemblea_ecologista.pdf )
Nel pomeriggio si è svolta l’assemblea dei promotori e di tutti quelli che essendosi accreditati avevano chiesto di partecipare online. Per decisione unanime l’Assemblea Ecologista ha deciso di non sciogliersi e di proseguire il cammino. Il documento conclusivo uscito dall’assemblea è scaricabile qui: https://assembleaecologista.org/ConclusioniAssemblea_bozza.pdf
Abbiamo lasciato l’assemblea con un grande senso di pienezza e la voglia di continuare a dare un contributo verso una proposta ecologista forte, inclusiva e convincente anche nel nostro paese.
Ecco alcune foto dell’assemblea!
di Giovanni Graziani
Al centro dei temi della transizione ecologica vi è, senza dubbio, quello dell’energia. L’energia è alla base di tutte le attività industriali, sociali, di svago e di utilità, ed è uno dei fondamenti necessari per il mantenimento del benessere della società. Allo stesso tempo l’impatto ambientale legato alla sua produzione, distribuzione e utilizzo è tale da necessitare una drastica revisione del sistema energetico nel suo complesso.
In Italia, l’energia consumata proviene ancora per circa l’80% da fonti fossili e per circa il 20% da fonti rinnovabili. Di questa energia solo il 21% è energia elettrica per gli usi finali (dati 2020).
Quando si parla di energia è inoltre utile spiegare come il sistema sia strutturato nelle varie fasi:
Chiarito,come usiamo l’energia, dobbiamo sottolineare che nella discussione sulla decarbonizzazione del sistema energetico, vari studi e scenari puntano sostanzialmente l’attenzione su due aspetti (più uno):
Questo comporta quindi:
Questo passaggio presenta alcune criticità da superare e su cui migliorare, per lo più relative all’intermittenza e non programmabilità della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili e alla conseguente necessità di gestire le differenze tra produzione e consumo attraverso sistemi di accumulo e stoccaggio, insieme alla gestione intelligente dei carichi.
Tra le varie soluzioni che possono essere d’aiuto in questa sfida vi è senza dubbio l’idrogeno, che può giocare un ruolo rilevante e sul quale l’Unione Europea ha presentato obiettivi molto ambiziosi, pubblicando nella sua strategia per l’idrogeno un target di 40 GW di capacità di elettrolizzatori al 2030, la cui capacità mondiale attuale e di 0,3 GW.
L’Italia stessa ha destinato all’idrogeno, all’interno del PNRR, 3,2 miliardi di euro e vorrebbe raggiungere al 2030 circa 5 GW di capacità elettrolitica, in linea con i piani di Francia e Germania. Vediamo meglio quindi come questo potrebbe avvenire.
Nell’obiettivo di spingere la decarbonizzazione verso una maggior produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, si avrà una produzione di energia elettrica che, in alcuni momenti del giorno o dell’anno, sarà superiore alle necessità della domanda. È qui che può diventare interessante utilizzare tale energia elettrica in eccesso in un elettrolizzatore per la generazione di idrogeno, scomponendo le molecole di acqua, trasformandola quindi in energia chimica che sarà così immagazzinata. Produrre idrogeno può diventare una delle soluzioni più interessanti e praticabili per superare il problema dell’intermittenza delle fonti rinnovabili.
Avremmo così a disposizione un vettore energetico da poter impiegare in diverse applicazioni, grazie alla sua versatilità, in particolare in quei settori per i quali è più difficile immaginare l’elettrificazione: pensiamo al trasporto pesante su terra, all’aviazione, alle grandi navi e alla siderurgia. La ricerca in questi settori è in grande fermento con alcune applicazioni operative interessanti, come il treno a celle combustibile, alimentate a idrogeno, prodotto dalla Alstom, funzionante sulle linee tedesche e in arrivo anche in Italia entro il 2023 (https://www.alstom.com/it/press-releases-news/2020/11/alstom-fornira-i-primi-treni-idrogeno-italia). Nel settore aereo, Airbus sta progettando alcuni velivoli alimentati a idrogeno che potrebbero, stando alle loro dichiarazioni, entrare in commercio nel 2035.
Altrettanto importanti possono essere le applicazioni nella siderurgia, comparto industriale altamente inquinante ma strategico (come spesso le cronache di Taranto ci hanno ricordato). Qui l’idrogeno può essere utilizzato al posto del carbone nella reazione di riduzione degli ossidi ferrosi in ferro metallico.
Al di là delle possibili applicazioni, al giorno d’oggi il problema però è che quasi la totalità dell’idrogeno prodotto a livello mondiale proviene da fonti fossili (idrogeno grigio), attraverso un processo di reforming dal metano (reazione chimica ad alta temperatura tra vapore acqueo e metano che ha come prodotti idrogeno gassoso e ossidi di carbonio) o da carbone. Questo avviene per motivi essenzialmente economici: costa infatti circa 1-2 dollari al kg, rispetto ai 3-7 dollari al kg per l’idrogeno verde prodotto da rinnovabili. La sfida sarà quella di perfezionare la tecnologia e aumentare in modo consistente la grandezza degli elettrolizzatori che, insieme al calo dei costi dell’elettricità da rinnovabile, permetterà di produrre idrogeno verde a prezzi competitivi.
Per completezza di analisi, esiste anche una via intermedia, il cosiddetto idrogeno blu, strada fortemente spinta dall’industria legata ai fossili perché consentirebbe di produrre idrogeno dal metano in modo “relativamente pulito” separando la CO2 e confinandola all’interno dei giacimenti di gas esauriti.
In conclusione, possiamo dire che l’idrogeno può avere un ruolo importante nella transizione del sistema energetico verso la decarbonizzazione, solamente se connesso allo spostamento della produzione di energia elettrica verso le rinnovabili. Tale obiettivo deve essere primario e porterà maggiori benefici in senso assoluto, lasciando all’idrogeno un ruolo chiave nei settori hard-to-abate (“difficili da abbattere”), ma comunque di nicchia rispetto all’elettrificazione diretta.
Per descrivere il ruolo dell’idrogeno nella transizione energetica Giulio Mattioli, esperto in decarbonizzazione dei trasporti e ricercatore dell’Università di Dortmund, usa una metafora:
L’idrogeno è come lo champagne e andrebbe trattato come tale: un prodotto energivoro, adatto e utile solo a settori di nicchia.
di Irene Fattacciu
Da anni la narrazione delle migrazioni verso la Fortezza Europa si muove tra la retorica della sicurezza e dell’invasione da una parte, e quella dell’emergenza umanitaria dall’altra. Il cambiamento climatico è la crisi che caratterizza questa fase storica, e se oggi solo lo 0,8% delle terre emerse presenta temperature così elevate da essere considerato inabitabile, nel 2070 questa percentuale potrebbe salire fino al 19%. I fenomeni migratori per cause ambientali sono già una realtà e si stima che entro il 2050 coinvolgeranno centinaia di milioni di persone. In capo a trent’anni, insomma, una persona su quarantacinque nel mondo potrebbe essere un “migrante ambientale”.
Ma chi sono i migranti ambientali? L’International Organisation for Migration li descrive come coloro che “a causa di improvvisi o graduali cambiamenti nell’ambiente che influenzano negativamente le loro condizioni di vita, sono obbligati a lasciare le proprie case, o scelgono di farlo, temporaneamente o permanentemente, e che si muovono all’interno del proprio paese o oltrepassando i confini nazionali”. La definizione ruota intorno a due elementi chiave, la volontarietà e la geografia della migrazione. Le situazioni dove la decisione o la necessità di spostarsi sono riconducibili a cause ambientali sono varie, pertanto si distingue fra migrazioni temporanee causate da disastri naturali o provocati dall’uomo (environmental emergency migrants), e definitive a seguito del deterioramento delle condizioni ambientali (environmental forced migrants). Infine, una terza causa è data dalla scelta di migrare in risposta a problemi ambientali che non permettono più di sostentarsi attraverso le risorse disponibili (environmentally-driven migrants).
Un altro termine coniato già negli anni Settanta e che spesso viene utilizzato dai media e nei dibattiti è “rifugiato ambientale”, dove la scelta terminologica ha il preciso intento di richiamare una serie di diritti che hanno a che fare con quello di asilo. Dal punto di vista del diritto internazionale non ne esiste una definizione consolidata, e la Convezione di Ginevra sui rifugiati non include, tra le situazioni che determinano lo status di rifugiato, riferimenti riconducibili a condizioni ambientali. Neanche le migrazioni ambientali forzate trovano ancora un adeguato riconoscimento giuridico nella legge internazionale e nei singoli ordinamenti statuali, anche a causa delle titubanze dei Governi. Il riconoscimento di un rapporto univoco tra trasformazioni ambientali, catastrofi naturali e rifugiati ambientali obbligherebbe infatti ad accoglierli all’interno dei territori nazionali. Nonostante ciò, le cose stanno iniziando a cambiare. La Commissione europea ha iniziato affrontando il tema nel Green Deal, e anche l’Italia nei decreti sicurezza approvati il 18 dicembre 2020 ha appena ridisegnato il permesso di soggiorno per calamità naturale: il diritto alla protezione umanitaria verrà concesso non solo per calamità “eccezionale e contingente”, bensì anche per una grave situazione dal punto di vista ambientale nel paese d’origine.
Aldilà del riconoscimento giuridico, è importante però tentare di guardare alle migrazioni ambientali come fenomeno complesso, all’origine delle quali c’è una molteplicità di cause. Il cambiamento climatico ha effetti diretti e indiretti, ma l’inquinamento, la degradazione delle terre, il sovrasfruttamento delle risorse naturali, la deforestazione e la perdita degli habitat interagiscono con molti altri aspetti sociali ed economici. Si tratta insomma di un “moltiplicatore di minacce” che amplifica le vulnerabilità preesistenti – individui, comunità o paesi già fragili dal punto di vista dello sviluppo economico, sociale e politico-istituzionale. In questa situazione non è sempre possibile distinguere gli effetti delle crisi ambientali da quelli delle crisi economiche, sociali o dai conflitti che costringono milioni di persone ad abbandonare le proprie case.
L’interazione tra cambiamento climatico e conflitti sociali è evidente, per esempio, nella regione del Sahel, da cui arriva quasi il 38% dei migranti giunti via mare in Italia negli ultimi quattro anni. L’area sta sperimentando un significativo aumento della popolazione, ma a causa della desertificazione la produttività del suolo è crollata e il sistema agricolo è entrato in crisi. Anche i flussi migratori provenienti da Bangladesh, Costa d’Avorio, Guinea e Pakistan – tra i paesi più colpiti dalle conseguenze del cambiamento climatico – sono notevolmente aumentati negli ultimi anni e rappresentano un ulteriore 30% dei migranti che giungono in Italia.
Questo è un classico esempio che viene citato per farci vedere che le migrazioni ambientali sono qualcosa che ci riguarda. Ed è vero, ci riguardano, ma non soltanto perché determinano e interagiscono con le rotte migratorie internazionali. Concentrati sul nostro ombelico e impegnati a guardare da lontano questa gigantesca marea che cresce, perdiamo di vista la fisionomia di tali movimenti. Ma si sa, il diavolo è nei dettagli, e così ci sfugge il fatto che nel futuro parlare di migrazioni ambientali non sarà più una questione di disperati e fragili che si mettono in cammino o sui barconi tentando di arrivare a casa nostra. Degli oltre ottantadue milioni di persone che nel mondo sono state costrette a fuggire e lasciare le proprie case nel 2021, 40,5 milioni sono sfollati interni, ossia si sono mossi all’interno dei confini nazionali. Di questi, 9 milioni sono fuggiti da conflitti e violenze e ben 30.7 milioni sono stati costretti a scappare per via dei disastri naturali.
Le migrazioni interne partono da aree con minore disponibilità idrica e produttività delle colture, oppure da zone che saranno colpite dall’innalzamento del livello del mare e altre calamità, per finire verso aree urbane e peri-urbane. A livello globale le aree più colpite nei prossimi decenni saranno l’Africa subsahariana, l’Asia meridionale e l’America Latina, ma in Europa sarà la fascia mediterranea. In Europa è infatti a rischio desertificazione l’8% del territorio, ma la percentuale sale fino al 20% per l’Italia. Il cambiamento climatico insomma è già in atto, e da una parte i suoi effetti colpiscono maggiormente le comunità più vulnerabili, dall’altra peggiorano situazioni di povertà e ingiustizia sociale. Una situazione ancor più grave quando queste persone si trovano a vivere in paesi meno sviluppati, ma che riguarda tutti. Grandi processi migratori avranno luogo a tutte le latitudini, e in ogni territorio ci saranno zone inabitabili.
Si tratta di prepararsi a gestire questi cambiamenti, non solo attraverso la mitigazione attesa dagli accordi e dagli impegni sul taglio delle emissioni, bensì anche attraverso interventi adattivi. Ci sono stati progressi significativi nello sviluppo di politiche nazionali e regionali sulle migrazioni legate all’ambiente, ma c’è ancora molto da fare. A tutti i livelli è evidente come un cambiamento sistemico sia l’unica strada percorribile. Per quanto riguarda i paesi del Sud globale, è necessario superare l’impostazione delle iniziative messe in campo finora da Banca mondiale e UE con il coinvolgimento del settore privato, in quanto rappresentano una continuazione di politiche agrarie neoliberiste che riescono a mantenere in funzione il sistema di commercio e approvvigionamento internazionale, ma che in ultima istanza finiscono – a causa della dipendenza da crediti, tecnologia e assistenza – per espellere altre persone dalle zone rurali.
A livello interno, i flussi verso le aree urbane rappresentano un ulteriore punto nevralgico per elaborare un piano d’azione, mitigazione e adattamento. La rapida e incontrollata crescita delle città non solo aumenta il rischio di ulteriori disastri e dislocazioni, ma creerà un esercito – di oltre due miliardi di persone entro il 2030, il 40% dei residenti urbani – in condizioni di vita estremamente precarie nelle megalopoli dei Paesi più poveri del Pianeta, una vera e propria bomba sociale. Servono interventi di carattere sia infrastrutturale che socio-economico, che guardino alla pianificazione territoriale anche delle aree di destinazione, agendo attraverso misure di protezione sociale e favorendo la diversificazione dei mezzi di sostentamento, al fine di aiutare le persone ad adattarsi alle trasformazioni che investono il luogo dove si trovano o in alternativa a muoversi in sicurezza e dignità.