Proprio di questi tempi, in cui tanto si discute dell’apertura degli impianti sciistici, vi proponiamo qualche spunto di riflessione sulla sostenibilità degli sport invernali in Italia. a partire dal rapporto Nevediversa di Legambiente, che parla anche del progetto di impianto sull’Appennino Tosco-Emiliano alla Doganaccia.
In un pianeta in balia dei cambiamenti climatici e dal conto alla rovescia per la propria sopravvivenza, anche l’abitudine alla montagna innevata deve fermarsi a riflettere per capire come adeguarsi e ripensarsi.
È necessario iniziare da adesso a progettare un futuro per le nostre montagne. In pochi sanno infatti che il cambiamento climatico risulta più rapido nelle zone montuose rispetto a quelle pianeggianti: ogni grado centigrado in più registrato nelle terre emerse corrisponde a un +2° sulle Alpi.
Secondo i ricercatori dell’Institute for Snow and Avalanche Research (SLF) e del CRYOS Laboratory dell’École Polytechnique Fédérale se i paesi non riusciranno a ridurre le emissioni, alla fine del secolo la neve sotto i 1000 metri sarà una rarità, inoltre la stagione per gli sport invernali si accorcerà di 15-30 giorni. Le stazioni sciistiche al di sotto dei 1.500 metri sono inesorabilmente condannate alla chiusura, e nei prossimi anni è difficile immaginare un futuro addirittura per quelle poste al di sotto dei 1.800 metri.
La prima risposta che verrebbe in mente è che basti pescare la soluzione tecnologica più appropriata per cercare di continuare a ignorare il rapido cambiamento climatico, ad esempio puntando tutto sui cannoni sparaneve e tentare di resistere, ma non sarebbe una scelta lungimirante: con la tecnologia convenzionale da un metro cubo d’acqua si producono circa due metri cubi di neve artificiale, a patto che la temperatura sia tra i -2 e i -12 gradi e con un tasso di umidità intorno al 20%. In tal caso è garantito l’innevamento artificiale che ha un costo indicativo per km di pista fino a 45.000 euro a stagione.
Alcune innovazioni tecnologiche rendono possibile produrre neve tra 0 e i +15 gradi. Una tecnologia che potrebbe avere applicazioni anche al di fuori delle piste da sci – per mantenere la catena del freddo nel settore alimentare, per esempio. La differenza di questa tecnologia rispetto ai cannoni è sostanziale, perché la neve è prodotta sottovuoto all’interno di una macchina e l’energia termica per la trasformazione può essere ricavata da fonti rinnovabili. E’ bastato questo per parlare di neve “green” e di sostenibilità ambientale. Si tratta di un’interpretazione distorta perché, ovviamente, non c’è nessuna invenzione tecnologica che permetta di conservare la neve artificiale a temperature sopra lo zero, e con il loro innalzamento un innevamento programmato sarebbe giustificabile solo oltre i 1800-2000 metri.
Alla luce di questi scenari è necessario influenzare le scelte programmatiche pensate per le montagne nei prossimi anni e condizionare i nuovi progetti perché recepiscano quanto sta succedendo a livello climatico. Sull’arco alpino i progetti di nuovi impianti sciistici più impattanti sull’ambiente e anacronistici, secondo il Dossier di Legambiente, sono il Collegamento Cime Bianche (Progetto di ampliamento dell’area sciistica nell’Alpe Devero), il Progetto Ortler Ronda (carosello nell’area sciistica di Solda nel Parco dello Stelvio) e il Collegamento Padola (Sesto Pusteria).
Sul fronte appenninico in Toscana è invece previsto il progetto di collegare le stazioni sciistiche del Corno alle Scale con gli impianti della Doganaccia, prossimo alla realizzazione. Il finanziamento europeo di venti milioni è transitato dalla presidenza del Consiglio. A questi la Regione Emilia Romagna ha aggiunto l’intenzione di stanziare per quest’anno 11,7 milioni, mentre la Toscana si appresta a stanziarne 8. Il tutto per unire il Corno e la citata Doganaccia con una funivia che dal versante toscano condurrebbe direttamente al lago Scaffaiolo (costo 7 milioni). Su quello emiliano, una seggiovia partirebbe dall’attuale rifugio della Tavola del Cardinale raggiungendo il lago. Il protocollo è stato siglato nel 2016 dalle Regioni Emilia-Romagna e Toscana con la presidenza del Consiglio dei ministri.
Pochi mesi prima l’Arpa dell’Emilia Romagna aveva certificato che nei tre Comuni emiliani coinvolti le temperature medie si sono innalzate di oltre 1 grado, Legambiente Emilia-Romagna ha definito il progetto “accanimento terapeutico”, il rilancio del circo bianco appenninico certificato da questo progetto non è frutto di analisi economiche e ambientali, ma figlio di una visione cieca e a breve termine.
Da un punto di vista ambientale è prioritario contestualizzare le aree interessate dal progetto dell’impianto che ricadrebbe in gran parte nel SIC/ZPS (Sito di Importanza Comunitaria e Zona di Protezione Speciale) Monte Cimone, Libro Aperto, Lago di Pratignano: al suo interno è vietata la realizzazione di nuovi impianti di risalita a fune e di nuove piste da sci, ad eccezione di quelli previsti negli strumenti di pianificazione territoriale vigenti alla data di approvazione delle presenti misure per quanto concerne i SIC ed alla data del 7 novembre 2006 – DGR n. 1435/06 – per quanto riguarda le ZPS ed i SIC-ZPS, ed a condizione che sia conseguita la positiva valutazione di incidenza dei singoli progetti ovvero degli strumenti di pianificazione, generali e di settore, territoriale ed urbanistica di riferimento dell’intervento.
E allora quale futuro per questa parte dell’appennino una volta abbandonato il progetto di rilancio del turismo sciistico?
La locale sezione del Club Alpino Italiano ha evidenziato come l’82% delle presenze turistiche sull’Appennino riguardino il “turismo verde”, quello estivo. C’è un turismo di altro tipo – spiega anche Legambiente – quello verde, del trekking, frequentato da camminatori in ogni stagione, in inverno con le racchette da neve e da scialpinisti, e che chiede paesaggi curati e bellezza non deturpata da nuovi impianti di risalita, borghi preziosi, offerta di servizi turistici a misura d’uomo.
È prioritario valorizzare l’Appennino toscano con un tipo di turismo sostenibile connesso alla natura la cui rarità è sempre di più stimolo alla sua preziosa condivisione e integrità, mantenendo i percorsi storico-culturali e agroalimentari.
La campagna pubblicitaria lanciata a fine 2018 dalla Regione Piemonte: All you need is snow, “tutto ciò che serve è la neve” è simbolo di ciò che è stato sfruttato ma che da adesso deve cambiare, soprattutto sulle aree appenniniche a vocazione verde.
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Tutte le foto sono gentile concessione di Enrico Buonincontro
La politica agricola comune europea, la PAC, è stata per molto tempo la politica cardine del bilancio europeo. Alla fine degli anni ’70 la PAC assorbiva oltre il 75% della spesa complessiva dell’allora Comunità Economica Europea. Anche se la gran parte dei cittadini dell’Unione non lo sa, ancora oggi i sussidi al settore agricolo rappresentano oltre un terzo del budget europeo.
La PAC è spesso usata ad esempio di come l’intervento pubblico possa essere distruttivo. Partendo da obiettivi sacrosanti: garantire cibo a sufficienza per tutti gli europei, un reddito dignitoso agli agricoltori e prevenire eccessive fluttuazioni di prezzi sui mercati dei beni agricoli, la PAC si è distinta per meccanismi di funzionamento estremamente dannosi per l’ecosistema.
Alle origini, negli anni ’60 e ’70, i trasferimenti erano erogati attraverso un meccanismo che teneva i prezzi dei prodotti agricoli artificialmente elevati. Un’agenzia acquistava a un prezzo minimo quantità illimitata di beni garantendo ai produttori prezzi superiori a quelli di mercato. L’effetto di questo meccanismo fu una corsa al sovra-sfruttamento delle risorse ed enormi quantità di prodotti agricoli invenduti finiti in discarica. Fra i danni procurati dalla PAC si annoverano l’epidemia da “mucca pazza” e la distruzione di interi ecosistemi per lasciar posto a coltivazioni intensive. Inoltre i profitti aumentarono, ma l’incremento fu proporzionale alle quantità prodotte. Ai piccoli produttori andarono le briciole, il grosso dei profitti venne spartito fra multinazionali e mega imprese del settore.
I meccanismi di finanziamento della PAC sono stati profondamente criticati e in seguito modificati. A partire dai primi anni 2000 il grosso passo avanti è consistito nello svincolare i sussidi dalle quantità prodotte. Riducendo l’incentivo alla sovrapproduzione e ripartendo in modo più equo i trasferimenti fra gli operatori del settore.
Nel 2018, a 15 anni di distanza da quelle riforme, la Commissione Junker ha sentito il dovere di aggiornare il quadro normativo della PAC proponendo alcune modifiche che tengono tiepidamente conto dei cambiamenti nei mercati agricoli e dell’emergente crisi climatica.
Come spiega Elisa Meloni di Volt Italia, oggi, anche se sono passati solo due anni, quella proposta non può che essere considerata datata. “[Dalla proposta Junker] molte cose sono cambiate: si è insediata una nuova Commissione presieduta da Ursula Von Der Leyen, che ha adottato il Green Deal Europeo e, al suo interno, le strategie per la Biodiversità e Dalla fattoria alla tavola (“from farm to fork”), che ad esempio prevedono entro il 2030 una drastica riduzione degli agenti chimici in agricoltura […], almeno il 25% della superficie agricola destinata all’agricoltura biologica e almeno il 10 % ad elementi caratteristici del paesaggio con elevata diversità. In questo contesto, la proposta di riforma della PAC si è rivelata ancora più obsoleta e inadeguata rispetto al livello di ambizione ambientale e climatica professato per il continente, tant’è che lo scorso maggio la Commissione si è affrettata a pubblicare un documento in cui spiegava come rendere la PAC compatibile col Green Deal.”
In questi giorni la proposta della Commissione ha affrontato i passaggi nel Consiglio e nel Parlamento europeo. Ci si attendeva che il testo fosse emendato trasformando i sussidi a pioggia in sussidi condizionati a standard di sostenibilità, escludendo dai trasferimenti le attività dal forte impatto ambientale. Invece il Consiglio europeo e il Parlamento hanno approvato una proposta legislativa addirittura peggiorativa rispetto a quella della Commissione Junker.
Questo atteggiamento fortemente conservatore ha sollevato reazioni da più parti: “Senza cambiare agricoltura non si combatte il collasso climatico” ha dichiarato Annalisa Corrado co-portavoce di Green Italia. “Non si può annunciare un fantasmagorico e strabiliante Green New Deal senza cambiare profondamente lo strumento principe che indirizza i comportamenti e gli investimenti nel settore. Perché il cibo buono e sano per la salute e per i territori arrivi sulle tavole di tutti, è necessario chiudere le porte ad agricoltura ed allevamenti intensivi e cibi ultraprocessati.”
La transizione verso una PAC sostenibile non è d’altra parte urgente solo per garantirci cibo di migliore qualità e minor impatto. Come ha fatto notare Mauro Romanelli di Ecolobby: “La PAC approvata recentemente al Parlamento europeo, ha perduto l’occasione per incrementare il sostegno a quelle forme di agricoltura e allevamento, meno competitivi nell’immediato, ma preziosissimi per la preservazione di varietà più rare, e quindi della biodiversità.
Il tracollo della ricchezza genetica è uno degli effetti meno evidenti e meno immediati per il grande pubblico dell’agricoltura e dell’allevamento intensivi, ma è anche uno dei più drammatici.
Anche su questo il lavoro per mettere una pezza alle brutte scelte che sono state prese dovrà essere duro e intransigente.”
Per questi motivi la senatrice Rossella Muroni si è rivolta con una lettera aperta alla ministra Bellanova, che con i suoi omologhi ha approvato nel Consiglio europeo dei ministri dell’agricoltura un testo peggiorativo della proposta iniziale di riforma: “lo dico sinceramente: grazie di niente! La nuova politica agricola comunitaria delude e preoccupa perché somiglia sempre meno a quella che aveva disegnato la Commissione europea e sposta il baricentro a vantaggio di un modello agricolo intensivo e ad alto impatto ambientale.”
Secondo Alberto Bencistà, presidente di FirenzeBio, la partita non è persa irrimediabilmente “abbiamo un’ultima occasione perché l’approvazione definitiva dipenderà dall’intesa che sarà raggiunta in sede di “trilogo “ ( Commissione, Parlamento, Consiglio ) che si riunirà nelle prossime settimane e che dovrà sentire la pressione delle cittadine e dei cittadini europei affinché sia ritirato il testo approvato dal Parlamento in quanto in aperto conflitto con il New Green Deal : una contraddizione che L’Europa non può permettersi.“
Ecoló si unisce al fronte di chi chiede una PAC diversa. Cosa possiamo fare per far sentire la nostra voce?
In questi giorni è stata pubblicata una lettera, di cui sono primi firmatari Bas Eickhout, vicepresidente della commissione ambiente del Parlamento europeo, e Ska Keller co-portavoce dei Verdi Europei, indirizzata alla presidente della Commissione Von der Leyen che la invita a ritirare la proposta di riforma. “È venuto il momento di ritirare la proposta di riforma della PAC della commissione, debole e datata, e di presentarne una nuova, in linea con il Green Deal europeo”.
Attraverso il portale www.greens-efa.eu/dossier/ritiri-questa-cap/ è possibile scrivere alla Von der Leyen aderendo all’appello lanciato dai Verdi Europei.