Il Tirreno ha pubblicato un reportage sul consumo di suolo nella Piana fiorentina. Un approfondimento meritorio da cui emerge un quadro preoccupante. Ma la classifica comparsa sulle pagine del quotidiano lo scorso lunedì 21 novembre fa apparire troppo virtuosi comuni, come quello di Firenze, che pur avendo un territorio già saturo a inizio anni 2000 hanno continuato a costruire in questi anni.
La percentuale riportata da Il Tirreno fa riferimento agli ettari costruiti in più oltre a quelli consumati fino al 2006. In una classifica del genere un comune con 99 ettari su 100 di superficie consumata nel 2006, che avesse consumato anche l’ultimo ettaro disponibile, esaurendo completamente il suo territorio, con un consumo del 100%, risulterebbe più virtuoso del comune di Scandici che, seppur ha consumato 17 ettari di terreno negli ultimi 15 anni, ha un consumo totale di suolo attorno al 25%.
Secondo noi il modo corretto di rappresentare il problema è un altro.
In primo luogo bisogna chiederci in che misura i comuni si sono allontanati dalla prospettiva di consumo zero di suolo. Cioè quanti ettari sono stati consumati in più. Purtroppo il trend è di un maggior consumo di suolo per tutti (quinta colonna della tabella). In secondo luogo occorre domandarci quale percentuale del suolo non ancora consumato nel 2006 è stato sottratto alle sue funzioni ecosistemiche.
Il grafico sotto riporta i valori per comune, mettendo a confronto la misura riportata da Il Tirreno (in blu) con la misura del consumo percentuale di suolo libero (in verde).
Come si inverte il trend? Secondo Ecolo’ è inevitabile, con l’evolvere di un sistema sociale ed economico, che emergano esigenze di consumo di suolo. Nuove scuole, nuove insfrastrutture per il trasporto, nuove esigenze per abitazioni e produzione. Per questo motivo le amministrazione dovrebbero adottare un piano di rinaturalizzazione e ricomplessizzazione ecologica di aree all’interno dei propri territori che riportino in attivo il conto del suolo riguadagnato alle sue funzioni naturali.
Troppo spesso la strategia di riduzione di consumo di suolo è vissuta come una resistenza alla tendenza divoratrice del mercato. Dobbiamo portare nelle istituzione una visione che ribalta la logica e che vede nelle rinaturalizzazione di parte del territorio all’interno delle città un obiettivo strategico fondamentale. Per il pianeta, per la persone che lo abitano.
Come riportato nel dossier ISPRA 2021 ‘Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici – Edizione 2021’, in Italia nel solo anno 2020 nuove coperture artificiali hanno riguardato altri 56.7 kmq, in media quindi 15 ettari al giorno. Il nostro paese perde quasi 2 mq di suolo ogni secondo. La crescita delle superfici artificiali è solo in parte ricompensata dalla ricostituzione e dal ripristino di aree naturali, che si attesta attualmente intorno a soli 5 kmq all’anno. Dobbiamo quindi da una parte ridurre drasticamente il nuovo consumo di suolo, fino ad azzerarlo, e dall’altra far crescere il recupero e la ricreazione di spazi e territori naturali. Purtroppo, nonostante tanti proclami e nonostante indicazioni forti in tal senso anche dalle Istituzioni internazionali (le Nazioni Unite hanno intitolato il decennio 2021-2030 come Decade on Ecosystem Restoration per sottolineare la necessità e l’urgenza di un’azione su questo piano), i segnali positivi continuano ad essere pochi.
Abbiamo intervistato Andrés Lasso, biologo, giardiniere e responsabile per Legambiente Toscana del verde urbano, già candidato sindaco per la Federazione dei Verdi a Firenze nel 2019.
Ecolo’: Ciao Andrés, grazie per la tua disponibilità, per prima cosa vorremmo chiederti se quello che ci sembra di vedere attorno a noi, cioè un deperimento del verde urbano e periurbano, è una suggestione o è confermato dai dati a tua disposizione?
Grazie a voi per questa occasione di confronto. Il deperimento del verde c’è, teniamo conto che abbiamo vissuto un’estate davvero eccezionale, (che purtroppo sta diventando la norma o quasi), con cinque intense e prolungate ondate di calore in contemporanea a una siccità spaventosa. Anche specie adattate a climi caldi e asciutti, penso all’alloro, sono andate in gran sofferenza.
Al netto di questa eccezionalità, questo deperimento ha anche spesso delle cause più circoscritte: errata pianificazione, budget scarsi o allocati in modo sbagliato, assenza di risorse, mancanza di competenza. Tutto questo incide sulla qualità complessiva del verde urbano.
Ecolo’: Le piante che muoiono sono necessariamente piante che sarebbero morte comunque in breve, o sono piante meno adatte al clima che cambia?
Le piante possono morire per vari fattori. Incide ad esempio l’età e la dimensione di una pianta (piante messe a dimora da grandi hanno enormi esigenze idriche per almeno due se non tre estati consecutive), la specie utilizzata, la posizione, la qualità del lavoro fatto e del materiale vivaistico, la stagione in cui viene fatto. La messa a dimora per una pianta è un passaggio delicato, un certo tasso di mortalità sui nuovi impianti può essere fisiologico, l’impressione nella nostra città è che siamo molto oltre il tasso considerabile come accettabile. Il clima che cambia richiederebbe una maggior attenzione alle piante di recente messa a dimora durante stagioni estive così critiche. Questa attenzione complessivamente è molto carente.
Ecolo’: Sappiamo che le due persone morte a Lucca e a Massa per il maltempo sono state entrambe schiacciate da alberi che non hanno retto alle raffiche di vento. Possiamo aspettarci gli stessi rischi in autunno nelle nostre città? Che problemi pongono dal punto di vista della sicurezza?
Quando avvengono raffiche di vento oltre i 100 km/h gli alberi iniziano a fare paura, lo so bene. Va detto che anche oggi in epoca di eventi estremi, il rischio di morire schiacciati da un albero resta un rischio relativamente basso, inferiore a quello di essere colpiti da un fulmine, enormemente inferiore a quello di essere investiti da un’auto. Questo non deve certo condurci a una sottovalutazione del rischio, deve farci pensare però in termini di rischio accettabile, perché il rischio zero non esiste in nessun campo e neanche nell’arboricoltura. Deve anche portarci a una maggior competenza nella gestione dell’alto fusto, perché spesso le piante più pericolose sono piante potate male (anche nell’ultimo evento ho visto molte piante sbrancate in corrispondenza di precedenti capitozzature). Deve anche portarci a una revisione dei protocolli. Il sistema VTA (visual tree assessment) con le sue classi di rischio, è un sistema che dobbiamo considerare obsoleto, come affermato dal dottor Luigi Sani in un recente convegno dell’ANCI Toscana.
Ecolo’: curiosamente i grandi accusati di mettere a repentaglio la sicurezza in città, i pini, sembrano stare benone. È anche qui una nostra impressione o in effetti si tratta di piante più capaci di resistere al clima più caldo e siccitoso?
Il pino domestico si è guadagnato una cattiva fama negli ultimi anni tra la cittadinanza e tra gli amministratori. Al punto che si vedono spesso abbattimenti di interi filari per sostituirli con altre specie. In realtà un pino allevato bene è una pianta che sa resistere ai venti forti. A Trieste, città in cui soffia la bora vari giorni all’anno, una delle piante prevalenti è il pino domestico, oltre al pino d’Aleppo. Nell’ultimo evento a Firenze si sono avuti venti molto intensi su chiome asciutte (la pioggia è caduta dopo le forti raffiche) In queste condizioni sono andati più in sofferenza i cipressi ad esempio, i pini hanno retto benissimo. Comunque credo che su queste situazioni sappiamo ancora poco, ci basiamo per lo più su osservazioni empiriche riguardanti fenomeni che fino a poco tempo fa erano rarissimi. Un dato a sfavore del pino è quello che riguarda i sempreverdi: siccome molti eventi estremi arrivano d’inverno, quando altre specie non hanno foglie e dunque oppongono meno resistenza al vento, è chiaro che gli eventi invernali faranno danni più facilmente su pini o cedri piuttosto che su tigli o platani.
Ecolo’: Nella foto qui sotto vedi un esempio della difficoltà del Comune di Firenze nel difendere le piante dalla siccità. Si tratta degli alberi piantati davanti all’ex Meccanotessile. Come è possibile che, per il secondo anno consecutivo, questi alberi vengono piantati e di nuovo muoiano tutti? Si tratta di morti inevitabili? O più verosimilmente c’è qualche errore?
Non avendo visto la situazione di persona dico di aspettare qualche settimana a darli per morti perché a volte le piante stupiscono, e tra la chioma secca potremmo veder spuntare qualche gemma. Molto probabilmente ci sono stati degli errori, sicuramente trascuratezza nelle annaffiature estive. Sul meccanotessile se vediamo una foto aerea precedente al cantiere vediamo che il verde era ben superiore e l’asfalto minore. In situazioni come quella in foto, con l’asfalto che arriva molto a ridosso del colletto della pianta, la temperatura alla quale la pianta può trovarsi nelle giornate di caldo estremo diventa veramente altissima. Tra l’altro secondo il regolamento del verde del comune di Firenze, la “zona di rispetto dell’albero” dovrebbe avere un raggio che va dai 2 ai 4 metri in base al tipo di specie. Da quello che si vede in foto la distanza tra l’asfalto e il fusto è intorno a un metro circa.
Ecolo’: Sono arrivati dei temporali e i prati sono velocemente rinverditi. Ma quali sono gli effetti a catena che possiamo attenderci nel medio e lungo periodo sullo stato del verde delle nostre città?
Se non si invertono i trend in atto, sia quelli climatici che quelli gestionali, vedremo molti disseccamenti di siepi (che a differenza dei prati, se seccano del tutto non recuperano dopo l’estate), continueremo a vedere un tasso di mortalità elevato nei nuovi impianti, vedremo abbattimenti sbrigativi dettati più dalla paura che dall’analisi razionale delle situazioni, vedremo proliferare specie aliene invasive come l’ailanto, ed avremo un verde urbano complessivamente trascurato e al di sotto delle proprie potenzialità.
Ecolo’: Siamo rimasti colpiti da quanto sta succedendo sulle Dolomiti orientali, la tempesta del 2018 ha danneggiato il bosco, le decine di migliaia di piante rimaste a marcire insieme al caldo e alla siccità di queste estati, hanno creato un habitat favorevole ad un coleottero, il bostrico, che infestando gli abeti ne causa velocemente la morte. Anche se non se ne parla si tratta di una catastrofe ecologica ed economica per alcune zone del nostro paese. Possiamo immaginare scenari del genere anche nel resto di Italia e nelle nostre città?
Premesso che non sono un esperto in gestione forestale, sicuramente il bostrico è un patogeno molto temibile perché porta a morte tutta la pianta. Problemi di bostrico ne abbiamo anche dalle nostre parti, alla riserva dell’Acquerino, dove ha fatto notizia lo scontro tra comune di Cantagallo e Regione toscana su dei tagli previsti, tra le varie questioni c’era di mezzo anche il bostrico. Dal punto di vista ecologico il bostrico è un parassita nostrano, non è una specie aliena e questo fa sì che in un ecosistema funzionale esistano anche i suoi antagonisti, dal picchio, a insetti parassitoidi, a funghi patogeni, che aiutano a far sì che le “pullulazioni” abbiano un picco e poi si ritorni dopo qualche anno a un equilibrio. In generale resta vero che un ecosistema con maggior biodiversità è più resiliente anche rispetto a questi eventi, mentre invece un contesto a bassa biodiversità, monospecifico o quasi, è più fragile. Un bosco in cui l’abete rosso, privilegiato dal bostrico, è mescolato ad altre specie come il pino silvestre, il larice, il pino cembro, l’abete bianco, potrebbe contribuire a frenare le esplosioni di bostrico. E’ comunque vero che situazioni come la tempesta “VAIA” del 2018 sono eventi talmente inediti che creano degli scenari e interrogativi nuovi anche dal punto di vista ecologico.
Ecolo’: la tragedia delle Alpi introduce vari temi interessanti fra i quali quello dello smaltimento. Cosa accade agli alberi che muoiono? Il legno viene recuperato in qualche modo?
Questa è una domanda fondamentale dal punto di vista della CO2 e della ricerca di una carbon neutrality. Oggi il “cosa accade dopo”, al materiale di risulta, almeno nelle nostre città, è a totale discrezione delle ditte che eseguono abbattimenti e potature. Invece esistono scelte che mantengono sequestrato gran parte del carbonio che la pianta ha fissato e altre che lo rimandano in atmosfera. Usare quella legna per fare mobili, per fare cippato, per fare giochi per bambini nei parchi, sono scelte che conservano sequestrato il carbonio. Bruciare la legna significa rimandare quel carbonio in atmosfera. E’ evidente cosa sia meglio. Nell’agosto 2015, quando ci fu il disastro che distrusse la zona dell’anconella a Firenze, una ditta che conosco si è presentata in quartiere 2 proponendo un progetto in cui quella legna diveniva arredi per il parco stesso e giochi per bambini. Purtroppo il progetto non venne accolto. Cosa è successo a quella legna non lo so con certezza ma probabilmente quel carbonio ha fatto una fine diversa. Al di là di questi eventi estremi, il tema si pone anche per la gestione ordinaria. Ogni anno dal nostro verde urbano escono tonnellate di materiale di risulta sotto forma di foglie cadute d’autunno, potature, abbattimenti. La gestione di quel materiale sarebbe un tema chiave se vogliamo che il verde abbia davvero un impatto sulle concentrazioni di CO2.
Ecolo’: Collegato alla modalità di smaltimento, da un punto di vista dell’equilibrio globale delle emissioni climalteranti, la morte delle piante è un elemento necessariamente negativo? Sappiamo ad esempio che ci sono alcuni tecnici che sostengono che piante in accrescimento siano in grado di stoccare molta CO2 e per questo suggeriscono una strategia basata sulla sostituzione di vecchie piante con piante giovani. Cosa ne pensi?
Credo che intanto dovremmo intenderci su che significhi pianta “giovane”. Un tiglio può vivere oltre mille anni, un melo meno di cento, in genere. Dunque un melo ottantenne è un “anziano”, un tiglio ottantenne è un “ragazzino”. Complessivamente e abborracciando un po’, cito Giorgio Vacchiano, possiamo dire che una pianta ad alto fusto dà il “meglio di sé” come assorbimento di CO2 tra il 50esimo ed il 150esimo anno. Nelle nostre città piante che abbiano più di 150 anni sono praticamente assenti. Dunque sostituirle per “assorbire più CO2” è un errore, se la pianta è in salute e posizionata bene (sulla fotosintesi netta incidono anche altri fattori, non solo l’età). Su questo tema credo si siano diffusi molti equivoci, in seguito anche a dei convegni che non hanno fatto molta chiarezza. Spesso si è confuso produzione con produttività (cioè quella per unità di biomassa o di superficie fogliare). Una foglia di una pianta appena uscita da vivaio, fotosintetizza di più rispetto ad una pianta di 80 anni, ma quella di 80 anni ha una superficie fogliare enormemente superiore. Quando sostituiamo una pianta adulta, a meno che sia vetusta o non in salute, con una nuova, quella nuova impiegherà qualche decennio per avere la stessa capacità di fissare la CO2 della precedente. Non parliamo poi degli altri servizi ecosistemici: dal punto di vista prettamente ecologico, la pianta adulta vince su tutti i fronti.
Ecolo’: Recentemente Andrea Giorgio il nuovo Assessore alla transizione ecologica al Comune di Firenze ha dichiarato di voler realizzare un cambio di passo nella gestione del verde in città. Da dove pensi che dovrebbe cominciare questo nuovo corso dell’amministrazione fiorentina?
Come Legambiente abbiamo avuto interlocuzioni positive con il nuovo assessore Giorgio, mi pare sinceramente desideroso di collaborare e di dare una svolta sul tema del verde urbano. Premesso questo le urgenze sono molte, io ritengo che serva primariamente ricostruire un servizio pubblico del verde, così come servirebbe tornare ad esempio ad avere dei vivai comunali come esistevano a Mantignano. So che sono questioni complesse che non dipendono del tutto neanche da un assessore o da una giunta, molti comuni sono nella stessa situazione, avendo spesso un decimo o un ottavo del personale per il verde che avevano trent’anni fa. Ma se davvero un verde urbano che ci dia una mano a contrastare la crisi ecologica, non possiamo farlo con meno risorse rispetto a quando questi temi non erano all’ordine del giorno. Inoltre, se siamo in epoca di “vacche magre” dobbiamo rivedere le nostre scelte, si vedono cantieri molto onerosi per l’amministrazione su progetti che sono al contempo conflittuali rispetto a gran parte della popolazione, e discutibili dal punto di vista tecnico. Si sono visti abbattimenti sbrigativi, e gli abbattimenti e sostituzioni hanno costi elevati. Dobbiamo essere cauti su progetti che richiedono molti soldi per la manutenzione, come le “living walls”. Quando vedo nella mia città alberature mal gestite e parchi spesso trascurati, e al contempo rotonde stradali estremamente curate, penso che da un lato la nostra società è ancora pensata a misura di auto più che di fruitore di parco, dall’altro che dobbiamo costruire insieme, associazioni, amministrazioni, cittadini, una visione sistemica del verde urbano.
Ecolo’: Grazie mille e a presto!
Non è un caso se gli alberi ci piacciono così tanto. Gli alberi sono sempre stati fonte di vita, protezione e progresso per la nostra specie. E anche nella transizione ecologica che dobbiamo affrontare gli alberi saranno nostri alleati. Assorbendo CO2 ci aiutano a frenare il riscaldamento globale, ma soprattutto sono nostri alleati nel renderci meno fragili di fronte alla crisi climatica in atto, mitigano le isole di calore, diminuiscono il rischio di smottamenti durante i fenomeni di precipitazioni estreme. E poi gli alberi sono l’habitat naturale di tanti animali, tutelano la biodiversità nelle nostre città e sono incredibilmente belli!
Per questo motivo il primo dei nostri cinque punti è dedicato agli alberi. Abbiamo deciso di lanciare uno slogan semplice e orecchiabile “10 alberi al giorno” ma questa formula merita di essere spiegata e approfondita. Di quali alberi parliamo? È importante non fermarsi a un mero conto degli alberi che riusciremo a far piantare nei prossimi cinque anni. Questo potrebbe indurci a piantare molti alberi giovani, magari sostituendone di più vecchi, malgrado godano di buona salute. Il nostro progetto di forestazione urbana dovrà invece partire da un monitoraggio attento del patrimonio arboreo presente sul territorio comunale, in particolare per quanto riguarda le zone urbane e periurbane. Questo monitoraggio dovrà essere pubblico: vogliamo che il Comune realizzi un open database dell’alto fusto consultabile da tutti i sestesi on-line. Questo metterà in grado il cittadino di verificare, per tutti gli alberi in zona urbana, l’età, la storia della manutenzione, gli interventi programmati e la classe di rischio.
È importante che la classe di rischio degli alberi sia conosciuta e che i cittadini possano segnalare situazione dubbie per evitare, in presenza di fenomeni estremi sempre più frequenti, situazioni come quella avvenuta a metà frebbraio in vicinanza dell’asilo Il Gatto e la Volpe.
Crediamo che le piante non pericolose, anche se vecchie, non vadano sostituite ma salvaguardate. Se è vero che le piante giovani sono molto attive nella cattura di CO2 è infatti anche vero che le dimensioni di una pianta adulta consentono maggiori servizi ecosistemici, che non si limitano, ma comprendono anche l’assorbimento e lo stoccaggio dell’anidride carbonica.
Il progetto che immaginiamo ha due obiettivi: la messa a dimora di alberi in tutta la città, ad iniziare dalle zone più spoglie in periferia che si trasformano in estate in terribili isole di calore (e sempre più lo faranno!). Ma anche la piantumazione di una vera e propria zona di bosco, fuori dalla città, come ad esempio attorno all’area Perfetti-Ricasoli.
La forestazione urbana di Sesto potrà comprendere anche progetti affascinanti come quelli della piantumazione sugli edifici in via di realizzazione a Prato all’interno del progetto Prato Urban Jungle. È affascinante vedere come si possa aumentare il verde anche senza necessariamente creare foreste urbane. Orti sui tetti, giardini verticali e tetti erbosi sono progetti interessanti che il Comune dovrebbe sperimentare nei prossimi cinque anni, anche sfruttando finanziamenti legati al PNRR.
Ma è importante sperimentare in modo oculato, tenendosi alla larga da progetti spettacolari che non hanno capacità di essere sostenibili nel lungo periodo o che necessitano di ingenti quantità di acqua ed energia per rimanere in vita. Qualcuno ha notato che fine ha fatto il giardino verticale de Le Murate a Firenze?
Lo sforzo per piantare oltre 15mila alberi in cinque anni dovrà essere grandioso. In termini di risorse e di capacità amministrativa. Stiamo parlando sicuramente del progetto più complesso che Sesto abbia realizzato negli ultimi decenni.
Ma ci sono alcuni accorgimenti necessari e non secondari alla realizzazione del nostro progetto di forestazione urbana:
Siamo con Yamuna Giambastiani, giovane fiorentino, co-fondatore di Forest Sharing, un’innovativa piattaforma che si occupa di gestione condivisa di terreni agricoli e boschivi.
Nelle strategie di lotta ai cambiamenti climatici e all’impatto antropico sul pianeta, il contributo di boschi e foreste è e sarà fondamentale. Se Next Generation EU destina il 37% dei fondi alla transizione ecologica, in che modo queste risorse possono essere convogliate, coinvolgendo settore pubblico e privato, in una rinascita verde dell’Europa che parta proprio dal tessuto forestale e boschivo?
La transizione ecologica ha bisogno di una solida base culturale, che oggi manca in seguito all’allontanamento dalle zone rurali e montane. In città si vive molto lontano dai processi naturali e quindi anche la loro comprensione è più difficoltosa. Il primo passo è culturale. Come è importare sapere da dove arriva l’uovo o la zucchina che mangiamo, è importante sapere come viene prodotta la corrente elettrica che ci ricarica lo smartphone, o l’energia che riscalda le nostre case d’inverno. Questa cultura deve essere a disposizione di tutti e non solo degli esperti, in quanto il comportamento di tutti incide moltissimo sull’uso delle risorse, il riciclo, gli sprechi.
Questo riguarda anche i boschi, anzi soprattutto i boschi! Oggi chi è proprietario di un bosco, crede di avere poco in mano, qualcosa che gli crea preoccupazione per i rischi frane, incendio, caduta rami, etc…invece è proprietario di qualcosa che protegge le valli e le città dalle alluvioni, purifica l’acqua, genera ossigeno, regola la CO2 atmosferica, e tanti altri benefici chiamati servizi ecosistemici.
Nel passato questi aspetti erano più conosciuti, o meglio erano vissuti dalle persone. Oggi i processi naturali sono (un po’) più chiari a livello scientifico, ma ben poco vissuti. Per me, la transizione ecologica dovrà passare dall’unione di questi due aspetti: conoscere e vivere i benefici delle nostre foreste (quindi delle risorse naturali) anche grazie all’uso di processi innovativi e tecnologici. Questo non vuole dire che dobbiamo fare le valigie dalle città e tornare a vivere in montagna, ma riportare un’economia sostenibile nelle nostre montagne, a beneficio delle nostre città. Le risorse che l’Europa si prepara a investire nella rinascita verde dovranno passare dalla crescita culturale dei cittadini, al fine di innescare un vero e proprio interesse verso la cura del territorio. Se tutto funzionerà, troveremo la sostenibilità dei processi, quindi senza bisogno di investimenti a fondo perduto per il mantenimento del territorio, ma un sistema in equilibrio.
Esattamente come possiamo spiegare l’idea del Forest Sharing ai “non addetti ai lavori”?
Forest Sharing è un nuovo metodo di gestire i boschi: non guardare il singolo bosco, ma assumere una posizione più alta e guardare l’intera foresta che questi boschi compongono. La foresta essendo un sistema naturale complesso non può essere scomposta in piccole unità omogenee, semplicemente perché omogenee non sarebbero. Ogni porzione di territorio ha le sue caratteristiche, pertanto dovrò tenere di conto di molti fattori, nel momento in cui vado a pianificare degli interventi e delle attività antropiche. In questo modo potrò bilanciare al meglio l’impatto e tutelare le porzioni o gli aspetti più suscettibili. Oggi vediamo le proprietà molto frammentate e piccole, e gli interventi sono scollegati tra di loro, spesso progettati su un orizzonte temporale di brevissimo tempo. Il tutto porta ad un impoverimento della risorsa, un aumento di costi, l’assenza di programmazione e prospettiva della filiera.
Mi potresti dire: “non sarebbe meglio non avere affatto un impatto, quindi ridurre a zero le attività e gli interventi?”
Non c’è alcun dubbio che l’impatto minore è “il non intervento”, allontanarsi. Ma sarebbe possibile? Possiamo fare a meno della risorsa legno (e prodotti secondari)?
Inoltre, dobbiamo considerare che il nostro territorio è altamente antropizzato, non c’è rimasto niente di “naturale”. L’attuale brusco cambio di tendenza, lasciando molti luoghi abbandonati, quindi alla libera evoluzione, porta ad eventi molto distruttivi, in quanto la natura non sostiene ciò che è fatto dall’uomo, ma distrugge e ricomincia. Quindi lasciare tutto alla libera evoluzione non è sostenibile e potrebbe avere un impatto sull’uomo molto più significativo.
Forest Sharing cerca di risolvere questi problemi. Creare una comunità di proprietari boschivi, gestire in modo unificato le proprietà e condividere i benefici. Chi possiede un bosco protettivo, condivide la capacità del suo bosco nel proteggere la città dalle alluvioni; chi possiede un bosco produttivo, condivide la legna che ne trae, etc. I benefici sono posti sul solito piano, e insieme portano ad un equilibrio “circolare” economico ed ambientale.
La piattaforma facilita l’incontro tra proprietari, eliminando i processi di aggregazione, riunioni, assemblee, etc. Mantiene le volontà dei singoli proprietari (che definiscono come prima atto dell’iscrizione), permette lo scambio di informazioni tra proprietari e aziende e professionisti che lavorano con i boschi.
Inoltre, grazie alle innovazioni sviluppate, è possibile accedere facilmente a sistemi tecnologici per il monitoraggio delle risorse naturali, sistemi di supporto decisionale per la pianificazione, controllo qualità e certificazione forestale.
Come è nata l’idea? Esistono esperienze simili nel mondo?
L’idea è nata da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di scienze forestali dell’Università di Firenze: gli studi e le attività sul campo individuano nella frammentazione e nell’abbandono uno dei principali problemi nel settore forestale italiano. Forest Sharing nasce come uno strumento per provare a risolvere questo problema, per dare alla filiera del settore (proprietari, aziende) la possibilità di mettere in campo quello che la ricerca scientifica (penso alla selvicoltura di precisione) ed il progresso tecnologico (le piattaforme di condivisione ed ingaggio digitale proprie della sharing economy) sono in grado di offrire. Se guardiamo ad altri paesi a noi vicini (Spagna, Francia, Slovenia, Belgio) posso dire che esistono piattaforme con peculiarità simili alla nostra, che puntano a risolvere più o meno le stesse problematiche: quello che rende Forest Sharing un po’ diversa è il suo essere potenzialmente replicabile ovunque le condizioni di mercato ed ambientali lo permettano, tanto è vero che sono allo studio dei progetti di “personalizzazione” di questo strumento in Spagna e Croazia.
Il vostro progetto ha già ricevuto alcuni riconoscimenti a livello europeo, ed in Italia siete stati premiati da Legambiente e Programme for Endorsement of Forest Certification schemes come il progetto Comunità Forestali Sostenibili 2020. Potresti aiutarci a capire in che modo il Forest Sharing si possa inserire in un’economia circolare, aiuti ed incentivi l’ecosostenibilità e se sia quantificabile il suo impatto nella lotta ai cambiamenti climatici?
Forest Sharing è uno strumento che lavora secondo le logiche dell’economia circolare, guardando al processo, e non al prodotto; provo a spiegarmi meglio. Uno strumento che metta diversi attori in connessione tra loro intorno ad un progetto comune (la gestione di un bosco, nel nostro caso), rende la filiera circolare: al centro del processo non c’è il possesso del bene che si intende gestire (che è e rimarrà sempre di proprietà dell’utente che decide di aderire a Forest Sharing), bensì il suo utilizzo: questo rende la filiera circolare. Aggiungo che produrre e condividere i dati acquisiti sul campo (fine ultimo della selvicoltura di precisione) è un modo per rendere circolare la conoscenza. Ci tengo ad aggiungere che questo nostro strumento è (lo speriamo) un modo per creare anche in ambito forestale quella filiera corta della quale in ambito agricolo si sente parlare ormai da un bel po’, per fortuna. Avere il bosco sotto casa in stato di abbandono e nello stesso tempo importare legname dall’altro capo d’Europa non è sostenibile né sensato: Forest Sharing vuole contribuire a spezzare questa catena.
Gli standard gestionali di PEFC (ai quali abbiamo fin da subito deciso di aderire) sono il nostro modo per parlare di sostenibilità nella gestione del patrimonio forestale. Esistono degli strumenti che sono stati sviluppati nell’ambito della ricerca universitaria, utili alla misurazione dei servizi ecosistemici di cui parlavo prima, cioè di quanto i nostri boschi siano in grado di portare un beneficio all’ambiente ed alla collettività.
Se volessimo fare qualche esempio circa l’utilizzo che potreste fare di un bosco, privato o pubblico, che vi venisse affidato?
Un proprietario forestale può (ad esempio) rivolgersi a Forest Sharing per effettuare un piano di gestione e manutenzione della viabilità forestale, utile alla creazione di percorsi fruitivi per i turisti o la cittadinanza, o funzionale alla gestione anti incendio (un fuoristrada impiega molto meno tempo ad arrivare sul luogo di incendio, è possibile intervenire più tempestivamente, inoltre inquina un po’ meno di un Canadair….). Quando l’aggregazione di boschi di più proprietari raggiungono un’estensione sufficiente e l’attività in campo sia tecnicamente ed economicamente sostenibile, Forest Sharing stipula un mandato di gestione tramite il quale il proprietario lo autorizza ad agire in suo nome nei confronti dei fornitori coinvolti, in una logica chiavi in mano. Finché, l’estensione non è sufficiente (cosa che molto spesso accade, vista la frammentazione delle proprietà), Forest Sharing “ingaggia” il proprietario nella ricerca e coinvolgimento dei proprietari confinanti, in una logica (anche qui) circolare e condivisa, o comunque si adopera per stimolare la partecipazione.
Altro tema riguarda poi quello delle risorse: se da parte dei proprietari non c’è la possibilità di sostenere finanziariamente le attività in campo, si possono percorrere le strade della progettazione ai fini dell’erogazione dei contributi regionali previsti per il settore (e su questo il team di Forest Sharing può fornire supporto e consulenza, come farebbe uno studio di professionisti “classico”), o in alternativa si può proporre quella che noi chiamiamo la gestione integrata: portare a vocazione produttiva la parte (dei boschi interessati) sufficiente e sostenibile al fine di creare le risorse necessarie alla gestione complessiva prescelta dall’utente; creare risorse da reinvestire nel territorio stesso, a vantaggio della filiera coinvolta. Anche questo crediamo sia un modo per fare economia circolare.
Abbiamo letto di un progetto in particolare che ci ha incuriosito che avete seguito in provincia di Pistoia sulla sistemazione idraulica attraverso l’utilizzo di una specie arborea divenuta infestante in quelle zona. Puoi raccontarci di cosa si è trattato?
Questo è un semplice esempio di una tipologia di progetti che stiamo provando a promuovere, in particolare in provincia di Pistoia e Lucca, abbiamo sottoposto un progetto che riguarda la valorizzazione dei soprassuoli di Robinia, o comunemente conosciuta come Acacia. Questa specie ha caratteristiche ecologiche molto invasive, avvantaggiandosi di aree degradate, in pochi anni riesce a colonizzare vaste aree di territorio, anche con boschi in evoluzione.
La Robinia è una specie esotica, proviene dal Nord America, e come spesso succede, quando si trova in un luogo nuovo prende il sopravvento e domina le altre specie, con una riduzione della biodiversità e l’alterazione degli habitat. La robinia non ha però solo aspetti negativi, in quanto ha un legname molto durevole (pari al castagno), è azotofissatrice, consente la produzione di miele di elevate qualità organolettiche, ha un apparato radicale che contribuisce alla stabilità dei pendii. Questa specie è presente e ci dobbiamo convivere, e da qui l’idea di valorizzarla e gestirla, in modo da contenerla nell’invasione e allo stesso tempo dare la possibilità a questi soprassuoli di esprimere al meglio le proprie funzionalità.
Il progetto di valorizzazione si basa sulla gestione dei soprassuoli al fine di ottenere assortimenti legnosi di maggiore qualità e valore, principalmente pali da lavoro, per realizzare staccionate, recinzioni, ma soprattutto per impieghi in opere di ingegneria naturalistica (strutture per il ripristino e prevenzione dei dissesti idrogeologici), sfruttando al meglio l’elevata durabilità del legname naturale.
Ci sono prospettive anche in ambito piu prettamente urbano per il Forest Sharing? Possiamo pensare che il progetto possa in qualche modo aiutare le amministrazioni comunali ad affrontare problematiche come ad esempio la riduzione dell’inquinamento?
Forest Sharing nasce per combattere la frammentazione e l’abbandono delle proprietà forestali, prima di tutto private ma anche pubbliche: stanno nascendo dei contatti con alcune amministrazioni comunali dell’hinterland fiorentino e non solo, interessate a fare sinergia con noi per coinvolgere la propria cittadinanza in attività di gestione integrata delle proprietà forestali, pubbliche e private.
Abbiamo creato uno strumento che nelle esperienze degli altri paesi europei che ho citato prima è gestito spesso e volentieri in prima persona dal regolatore pubblico: nel nostro piccolo, pensiamo di poter dare un servizio che sia di utilità ed interesse pubblico, oltre che privato. Per quanto riguarda l’ambito urbano, Forest Sharing ha un forte impatto, dovuto alla stretta connessione tra quello che facciamo sui monti e quello che succede a valle (dove troviamo le città). Le alluvioni, oltre ad essere calamità naturali, sono il risultato di pratiche sbagliate di cura del territorio. Posso aggiungere che l’approccio “di precisione” alla selvicoltura che utilizziamo nei servizi che Forest Sharing offre, lo si può utilizzare anche in ambito urbano (e noi lo facciamo): produrre conoscenza sulle condizioni delle alberature urbane è utile ad esempio per realizzare piani di manutenzione preventiva delle stesse.
Nel dibattito sulla forestazione spesso si sente dire che l’Italia è un paese virtuoso in cui il patrimonio boschivo è in costante aumento. Un argomento usato spesso per minimizzare la necessità di ridurre il consumo di suolo. Cosa c’è di vero in questa affermazione? In che modo un progetto come Forest Sharing può essere utile ad avvicinare il nostro paese agli obiettivi (urgenti) di neutralità carbonica?
Il problema del consumo di suolo nel nostro paese non deve e non può essere minimizzato e non crediamo che l’aumento della superficie forestale possa essere un alibi per minimizzare il problema, visti anche i dati preoccupanti riportati nell’ultimo rapporto ISPRA 2020 sul consumo del suolo dove viene indicato che nel nostro paese c’è una perdita di circa 14 ettari al giorno, soprattutto di superfici agricole e/o con vegetazione erbacea non impermeabilizzate.
Però, se da un lato c’è una costante perdita di superfici non impermeabilizzate, è altrettanto vero che il patrimonio boschivo in Italia ed in Europa in generale è in costante aumento. I dati riportati nel Rapporto dello Stato delle Foreste Italiane indicano che 2019 la superficie coperta da foreste nel nostro paese ha superato la superficie agricola, e questo non accadeva dal medioevo. L’aumento della superficie forestale è quindi una buona notizia, poiché le foreste e il loro impatto a larga scala è cruciale per contrastare le emissioni antropiche di CO2, così come la strategia di emissioni zero.
Le foreste sono un asse chiave della strategia europea di riduzione del carbonio (“decarbonizzazione”) ed agire per proteggerle e possibilmente aumentare la loro capacità come serbatoio di carbonio è di primaria importanza. Infatti, l’Europa indica che azioni come i rimboschimenti, il ripristino delle foreste degradate e le pratiche di gestione forestale sostenibili, inclusa la protezione delle foreste, sono misure chiave per mantenere e migliorare il delle foreste come serbatoi di carbonio.
È altrettanto vero però che l’Europa e le istituzioni scientifiche indicano che questi risultati possono esser raggiunti solo se si passa da una stretta interazione di governance locale, nazionale e ed europea. Quindi per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione non basta lasciare crescere una foresta in autonomia. È proprio in questo contesto che Forest Sharing opera proponendo tra l’altro, grazie ai risultati della ricerca scientifica, un approccio di “Climate Smart Forestry”, dove la gestione forestale sostenibile mira ad integrare le misure di mitigazione e adattamento legate alle foreste e migliorare la resilienza delle foreste e dei servizi ecosistemici forestali.
Forest Sharing consente agli utenti di diventare attori attivi nell’azione per il clima e nella decarbonizzazione. Infatti, tornare a gestire un bosco abbandonato significa tornare a conoscerlo e questo può consentire di migliorare la sua resilienza, mitigare i rischi dovuti ad eventi estremi come siccità, incendi e tempeste di vento ed avere benefici economici e ambientali più ampi associati ai servizi ecosistemici forestali. Infatti, crediamo che anche se un bosco viene lasciato crescere o in rewilding debba sempre essere previsto un piano di monitoraggio che consenta la valutazione di fattori complessi utili a capire e a misurare anche come si possono raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione che ci siamo posti come Italia, Europa ma in generale nel mondo.
Grazie per la tua disponibilità Yamuna!