Abbiamo intervistato Gianluca Ruggieri, ingegnere ambientale, ricercatore universitario e socio fondatore di ènostra.
Ecoló: Che cosa è ènostra?
Gianluca Ruggieri: ènostra è una cooperativa – probabilmente al momento la più importante cooperativa in Italia che si occupa di fonti rinnovabili – che produce e vende elettricità da fonti rinnovabili.
E: Ci dai tre buoni motivi per i quali un utente che non ha mai cambiato fornitore di energia dovrebbe scegliervi?
GR: Il primo è che cerchiamo di essere protagonisti della transizione energetica con un progetto che tiene insieme, da una parte l’efficienza energetica dall’altra la produzione di elettricità da fonti rinnovabili. Il secondo è che essendo una cooperativa non siamo a scopo di lucro e quindi tutti i benefici generati vengono poi ripartiti tra i soci. Il terzo è che è un vero progetto di comunità anche se di grandi dimensioni.
E: Quanti sono i soci?
GR: Siamo più di 9.000 oramai, in crescita da quando siamo nati. La cosa importante è che siamo arrivati alla soglia, per noi considerata critica, intorno alle 5.000 persone, che ci consente di essere sostenibili nel tempo e operare con maggiore tranquillità.
E: Come si fa in pratica a cambiare operatore?
GR: Essendo una cooperativa, ènostra, richiede di diventare soci con un versamento iniziale di 50€ per poter attivare il contratto. Detto questo, diventare socio, attivare il contratto di fornitura e interrompere il contratto precedente è un’unica operazione che si fa compilando una procedura online (pensiamo noi a contattare il precedente fornitore del passaggio). E’ tutto molto semplice e guidato, di solito per uno che ha una minima alfabetizzazione informatica non costituisce un problema. Una volta diventati soci, attraverso il pagamento di una sorta di prima bolletta “0” del valore di 50€, il trasferimento dell’utenza avviene in un’unica operazione. Se uno è titolare di più contratti l’iscrizione a socio è sufficiente effettuarla solo alla prima attivazione.
E: Mi posso aspettare che, almeno nel breve periodo, potrebbe aumentare il costo di quanto andrò a spendere?
GR: Al momento, per la tariffa standard dei soci cooperatori (che versano come si diceva 50€ una tantum), abbiamo un extra costo equivalente a un cappuccino al mese rispetto al servizio di maggior tutela (tra i 10 e 15 € all’anno per una bolletta media). Poi c’è la possibilità di diventare socio sovventore, con la possibilità di attivare una tariffa particolare chiamata “prosumer” che due caratteristiche particolari. La prima è di avere un prezzo fisso che dipende soltanto dalla prestazione dei nostri impianti, quindi completamente sganciato dal mercato dei fossili e, in un momento come questo in cui il gas ha un prezzo alto diventa molto conveniente. L’anno scorso invece, quando il costo di generazione era molto più basso ovviamente non eravamo competitivi. L’altra caratteristica è che ha un bonus e quindi vengono in qualche modo scalati dei kWh proporzionali con il tipo di investimento che si è fatto (stiamo parlando di investimenti di cifre relativamente piccole, dai 500 ai 1.000-2.000 €, poi ognuno trova la sua taglia, anche in funzione dei suoi consumi). In un momento in cui il kWh del mercato costa tanto – come questo – il beneficio economico è molto rilevante in termini proprio di rendimento percentuale sul capitale investito, con pochi concorrenti al momenti. (ndr … e che magari sono investimenti in mine antiuomo!).
E: Un freno al passaggio di fornitore potrebbero essere dubbi sulla vostra solidità societaria (pensiamo ai casi di Eviva e Gala). Si tratta di un dubbio infondato? O ènostra potrebbe andare a gambe all’aria nel giro di qualche mese mettendo in difficoltà chi vi sceglie?
GR: Ovviamente tutte le imprese, compresa ènostra, hanno un rischio che fa parte della vita delle imprese. Nel nostro caso il tentativo che è sempre stato fatto è quello di crescere in maniera equilibrata tra la nostra produzione e la nostra vendita e di avere contratti che ci garantiscano, difatti in questo momento tariffe fortemente convenienti riusciamo a farle soltanto per l’energia che produciamo noi. E’ chiaro che, per esempio, avendo appena inaugurato una pala eolica, se questa dovesse crollare costituirebbe un problema, però, per le dimensioni che abbiamo adesso, sarebbe un problema che saremmo in grado di gestire.
Eravamo molto più a rischio quando all’inizio eravamo una piccola società con 1000-2000 soci e per i primi anni abbiamo accumulato delle perdite, comunque previste dai nostri piani. L’idea era che essendo pochi non potevamo tenere i prezzi molto alti per non fare buchi in bilancio ma rischiando poi di non convincere nessuno a diventare socio. Abbiamo invece optato per tenere i prezzi relativamente bassi sapendo di correre qualche rischio iniziale, ma adesso che siamo alle dimensioni che dicevamo prima i conti tornano e con il 2020-2021 andremo a coprire una parte significativa delle perdite accumulate nei primi 5-6 anni di attività. Quindi il rischio c’è sempre, però per come si è costruito il modello, lontano da qualsiasi tipo di speculazione, questo è per sua natura anche un pochino più stabile e tranquillo.
E: In un mercato in cui tutto viene venduto come “green” come faccio ad essere sicuro che ènostra non sia l’ennesima operazione di greenwashing?
GR: Tre cose: la prima è che sulla totalità della nostra energia abbiamo le garanzie d’origine, certificazioni che garantiscono sulla provenienza da fonti rinnovabili. La seconda è che abbiamo degli impianti di proprietà che sono fatti secondo dei criteri, non solo di rinnovabilità, ma anche di basso impatto ambientale. Il terzo tema, che per noi è sempre fondamentale, è che il nostro è un progetto a 360°. Il supporto che diamo ai nostri soci che vogliano produrre energia elettrica a casa loro con un impianto fotovoltaico, o ridurre i loro consumi energetici, per esempio con operazioni come quelli presenti adesso favorite dal Superbonus 110% o altro tipo di detrazioni, fa sì che emerga chiaramente come il progetto della cooperativa sia quello di abbattere l’impronta ecologica dei nostri consumi energetici. Per assurdo, se un giorno tutti i nostri soci fossero totalmente autosufficienti in termini di consumo energetico, ènostra a quel punto potrebbe chiudere e lo farebbe avendo raggiunto il suo obiettivo, che è quello della transizione. Il nostro obiettivo non è quello di massimizzare il fatturato o il rendimento sul capitale investito, il nostro obiettivo è fare l’interesse dei soci. E’ un approccio molto diverso di quello che ha un grosso investitore che, in questo momento trova la tematica green molto interessante e ci si butta dentro e magari si fa pochi scrupoli su cosa c’è veramente dietro.
E: Esistono realtà simili a ènostra in Europa e nel mondo?
GR: ènostra fa parte di un movimento più ampio, in particolare facciamo parte di RESCOOP, associazione europea delle cooperative e iniziative di comunità che si occupano di rinnovabili in Europa. Lavoriamo soprattutto con altre realtà europee ma esistono altre realtà nel mondo, che hanno un approccio simile ma con modelli diversi, a seconda del contesto locale. Per chi fosse interessato ad approfondire recentemente è uscito “We the power” documentario prodotto da Patagonia ne racconta alcune.
GR: C’è un rapporto tra ènostra e comunità energetiche? Cosa pensi della modifica alla legge che le regolamenta e che futuro industriale vedi per questo tipo di progetti?
E: La nuova legge è ancora in bozza per cui ci sono ancora molti punti di domanda. Rispetto alla legge attualmente in vigore ci sono sicuramente aspetti positivi che allargano le dimensioni della comunità energetica. Le comunità energetiche sono per loro natura indipendenti a controllo locale ed i membri possono scegliere il fornitore, ma nell’ottica della transizione abbiamo lavorato, stiamo lavorando e lavoreremo alla promozione di realizzazioni di comunità energetiche: al momento stiamo portando avanti una dozzina di progetti, con differenti stati di avanzamento. Il nostro ruolo è di facilitatore iniziale del progetto con la redazione di studi di fattibilità, oppure con un ruolo più tecnico di assistenza nel dimensionamento e realizzazione del progetto collettivo, altrimenti è di dare supporto alla definizione dello statuto della comunità energetica che si va a formare. In sintesi abbiamo un ruolo di consulenza su tutto il percorso che porta alla creazione dell’ente giuridico. Anche se si potrebbero vedere questi progetti come concorrenti siamo contenti di aiutare allo sviluppo di questo approccio.
E: Se fossi un condominio che vuole creare una comunità energetica posso rivolgermi a ènostra per avere un supporto al loro percorso fornendo una consulenza? E quanto potrebbe costare?
GR: Il costo dipende da cosa ci viene chiesto di fare e non è detto che sia conveniente. Mentre in passato il “conto energia” era molto generoso adesso è necessario prestare molta attenzione, altrimenti la consulenza rischia di costare più del beneficio economico, per cui stiamo attenti a dosare il tipo di intervento che proponiamo a chi ci contatta. Nel caso di condominio, il consiglio è che sia il condominio stesso a fare la parte di discussione e partecipazione inziale, curando noi dimensionamento e valutazione tecnico-economica del progetto, con un costo di consulenza molto limitato.
E: Se oltre a cambiare operatore volessi investire in ènostra, quali prospettive e rendimenti mi aspetterei?
GR: Oltre a quanto detto prima, il motivo per cui immagino che qualcuno possa voler investire in ènostra è favorire l’uscita dalla dipendenza dei fossili. Dopodiché in un momento come questo, con il costo dei fossili molto alto, questa scelta può voler dire guadagnarci molto. In altri momenti potrebbe voler dire guadagnarci meno. La scelta quindi dipende molto dalle motivazioni personali. La tariffa è stata disegnata perché possa essere conveniente quasi sempre nelle condizioni di mercato che ci possiamo aspettare, però potrebbe ricapitare come l’anno scorso durante il lockdown che il prezzo dell’energia crolli a causa dell’eccesso di offerta in quel caso la nostra tariffa non sarebbe più conveniente. Certo se qualche calamità compromettesse il nostro impianto di Gubbio questo cambierebbe il beneficio per l’investitore.
E: L’investimento però è in ènostra, non in un unico impianto, corretto?
GR: Sì, ma un l’impianto appena realizzato è piuttosto grande rispetto al totale della nostra produzione.
E: Quanta energia producete attualmente?
GR: Con l’entrata in funzione di questo nuovo impianto arriveremo a 3 GWh/annui a regime e con il vento atteso, al momento la produzione è di 1,1 GWh/annui
E: Noi vediamo nel prosperare di esperienze come la vostra piccoli segni di transizione ancora in gran parte sulla carta nel nostro paese. Cosa pensi che manchi nel nostro paese perché possa prendere davvero il via il cambiamento necessario?
GR: Stiamo piano piano arrivando al momento in cui c’è una consapevolezza diffusa che la transizione e la decarbonizzazione siano una strada segnata. Ci abbiamo messo parecchio tempo: il protocollo di Kyoto è del 1997 e quindi sono passati quasi 25 anni, però alla fine ci siamo più o meno arrivati. Il punto è che ci possono essere modelli diversi di transizione, quelli in cui vengono ribaditi i poteri delle grandi aziende oligopoliste o modelli in cui c’è maggiore potere alle comunità e ai cittadini; modelli in cui c’è una maggiore attenzione al tema della povertà energetica, di una giusta transizione, e modelli in cui questi sono considerati perdite collaterali, come si diceva alle volte. Di sicuro è una buona notizia che nell’ultima settimana si è sentito il presidente Draghi dire delle cose che non ha mai detto nessun Presidente del Consiglio italiano. Probabilmente quello che manca è una visione di insieme che faccia sì che questa transizione, che più o meno adesso sappiamo che dobbiamo fare, venga disegnata in modo tale che se qualcuno deve pagare di più, sia qualcuno che se lo può permettere, e chi non se lo può permettere possa partecipare a questo processo senza essere escluso. Faccio esempi molto banali. E’ chiaro che nel momento in cui mettiamo forti incentivi sulle auto elettriche, che vanno a premiare auto di grande cilindrata, che magari costano 50 – 70 mila euro, disegniamo dei destinatari di questi benefici che non sono esattamente i ceti meno abbienti. Un altro esempio banale, nella Regione dove abito, la Lombardia, come operazione post-covid per rilanciare l’economia si è pensato di concludere la costruzione dell’autostrada pedemontana; io non credo che costruire nuove autostrade sia un modo per facilitare la transizione, almeno al momento. Magari fra 20 anni avremo tutti mezzi di trasporto super-efficienti e a zero emissioni, e allora ne riparliamo, ma al momento se ho delle risorse non le metto certo nella costruzione di nuove autostrade, perché vado esattamente nel senso opposto.
E: La politica potrebbe fare di più per aiutare progetti cooperativi come il vostro? Avete interlocutori utili nelle istituzioni? Sentite la mancanza di referenti credibili sulla transizione ecologica?
GR: Abbiamo avuto degli interlocutori e tuttora abbiamo interlocutori che ci ascoltano. In generale, mi sembra di poter dire che per fortuna siamo nati qualche anno fa e arriviamo a questo momento, che è un momento di grandi cambiamenti sia sul piano delle comunità energetiche sia sul piano della transizione in generale, avendo messo dietro le spalle un po’ di anni di attività, un po’ di credibilità , un po’ di numeri, che fanno sì che siamo un interlocutore credibile anche per le istituzioni, che non sono solo la politica, perché nel settore energetico ci sono enti e l’Autorità che hanno un ruolo importante.
Quando ormai tre anni fa si discuteva di come mettere nelle Direttive europee il tema delle comunità energetiche, abbiamo lavorato benissimo con esponenti italiani al Parlamento europeo e oggi lavoriamo bene con la Commissione Industria del Senato italiano. Quindi ci sono persone con cui abbiamo avuto relazioni, ma mi sembra che la cosa più interessante sia il fatto che siamo arrivati ad avere una dimensione ed una credibilità tale per cui siamo abbastanza riconosciuti al di là dell’avere un contatto nelle istituzioni che ti ascolta perché ti conosce personalmente e apprezza il tuo progetto.
Sul fatto che la politica possa fare di più per aiutare progetti imprenditoriali come il nostro, capisco che è complicato. Mi verrebbe da dire ‘semplificare’, ma è chiaro che c’è anche un tema di garanzia degli utenti finali.
E allora se semplificare poi rischia di introdurre situazioni come quella che citavi prima (ndr Gala), se tu favorisci la creazione di cooperative energetiche e lo fai in un modo che poi apre le porte a progetti speculativi, forse non stai facendo la cosa migliore.
Quindi io non saprei darti una risposta precisa su come poter favorire. Di sicuro c’è tutto un tema di semplificazione burocratica nel campo delle rinnovabili che però è più generale, cioè non riguarda solo noi ma più meno tutti gli operatori, che complica tanto, allunga i tempi e di conseguenza aumenta poi anche i costi. Cioè tecnologie che tecnicamente potrebbero essere anche competitive e convenienti, poi non lo sono perché tu inizi a fare un progetto e non sai quando finisce e non sai se finisce bene o se non finisce bene, cioè hai molto poche certezze.
E: Grazie del tuo tempo e della tua disponibilità Gianluca!
La mattina del 3 maggio Luana, operaia tessile, termina la sua vita per un incidente mentre lavorava all’orditoio, macchinario utilizzato per distribuire i filati e comporre così il tessuto nella successiva fase di tessitura.
Luana aveva 22 anni, un figlio piccolo, tanti sogni che cercava di portare avanti grazie al lavoro che svolgeva, da circa un anno, nel distretto tessile della provincia di Prato, il più grande d’Europa. Casi come questo “fanno notizia” ma il problema delle morti sul lavoro è quotidiano, anche in settori, come quello della moda che continua a crescere a ritmi importanti e che, soprattutto nell’est asiatico, presenta condizioni di salute e sicurezza e rispetto dei diritti sociali fortemente critiche.
Tutto ciò suscita in noi delle domande, tentativi di capire perché siamo arrivati a questo punto e come se ne può uscire. Abbiamo chiesto qualche impressione a Francesca Rulli, CEO di Process Factory e founder di 4sustainability, marchio che attesta il rispetto di standard di sostenibilità ambientale e sociale nella filiera moda.
Ecoló: Ciao Francesca, grazie per la tua disponibilità. La notizia della morte di Luana d’Orazio ha sconvolto un po’ tutti. Al di là del giudizio del caso specifico che verrà accertato e che non spetta a noi dare, possiamo pensare che sia stata una fatalità? Quanto è diffuso il problema del rispetto delle condizioni di sicurezza nelle lavorazioni tessili?
Francesca Rulli: Per nostra fortuna, la normativa italiana – il Decreto 81/2008, in particolare – è largamente applicata e rispettata. L’aspetto che ci preoccupa è più che altro quello culturale. La norma è presidiata infatti in modo diverso a seconda delle professionalità presenti in azienda: esistono aziende dalla grande responsabilità in cui le nomine sono forti, altamente professionali e quindi anche l’attenzione dell’imprenditore e dei suoi dipendenti sono elevate, perché si investe in formazione e controlli. C’è ancora una quota di aziende, però, in cui questo tema della sicurezza è visto ancora e soltanto sotto il profilo della compliance: metto in ordine “le carte” per sentirmi a posto sul piano formale, ma non investo sulla cultura, sulla formazione, sui controlli, sulle responsabilità… In questi casi, può capitare ciò che si vorrebbe non capitasse mai e che invece è capitato di recente in alcune aziende del settore tessile, come hanno riportato i media. La sfida è riuscire a far in modo che le regole esistenti siano vissute in azienda non come meri adempimenti di legge, ma come una responsabilità e un impegno: in gioco, c’è la sicurezza dei lavoratori.
Ecoló: Quali possono essere le soluzioni per evitare situazioni come queste? Servono più controlli? Considerato anche che le due vittime che ci sono state nel distretto tessile pratese nei primi mesi dell’anno erano poco più che ventenni, serve investire di più nella formazione dei lavoratori?
FR: Io direi proprio di sì, la formazione è fondamentale e i controlli lo sono altrettanto. C’è da diffondere una cultura e un’attenzione a queste tematiche che passa proprio dai comportamenti delle persone, dai controlli dei supervisori o dei capi reparto, dagli aggiornamenti normativi, dalla verifica di macchinari… Tutto ha spesso a che fare con i ritmi di lavoro a cui sono sottoposte le persone, ritmi che portano spesso a trascurare alcuni fattori non irrilevanti di rischi. “Ho sempre fatto così”, “Tanto, cosa vuoi che succeda?”… E la tragedia è lì, in agguato.
Ecoló: Le aziende della filiera sono spesso sotto forte pressione per la richiesta dei grandi marchi di ottenere bassi costi di produzione e lavorazione, questo influenza la capacità di garantire il rispetto delle condizioni di sicurezza e di impatto ambientale per le piccole aziende del settore?
FR: Non possiamo generalizzare perché dipende da committente a committente, ma in linea di massima direi di sì. Ci sono marchi fortemente impegnati anche nel controllo delle loro filiere, ma molti altri che, guardando solo alla leva del profitto e quindi all’abbattimento del prezzo, sottopongono le filiere a una pressione veramente importante. Questo non giustifica, naturalmente, la ricerca del risparmio in laddove c’è in gioco la sicurezza delle persone o la tutela dell’ambiente, ma certo, può essere una causa. I livelli di responsabilità, in questo caso, sono due: del cliente che tira al minimo il prezzo di produzione, ma anche quello dell’azienda che pur di prendere l’ordine e mantenere il livello produttivo prova a risparmiare su temi che sono invece fondamentali per la sostenibilità e il buon andamento del business, nel rispetto dell’uomo e dell’ambiente. È un tema su cui c’è un’attenzione crescente… Noi per primi ci spendiamo ogni giorno per aiutare le imprese della filiera a sistematizzare i controlli, le procedure, gli strumenti più idonei a performare bene nel rispetto dell’ambiente e delle persone. E a crescere integrando etica e business, che poi significa adottare un modello di sviluppo autenticamente sostenibile. Tutto questo si scontra ancora con logiche di mercato fortemente orientate al profitto. Noi spingiamo perché tale paradigma cambi velocemente e la distribuzione del valore, piano piano, cominci a toccare tutte le filiere.
Ecoló: Quello che vediamo in Italia ci tocca da vicino, ma sappiamo bene che in altri paesi del mondo le condizioni di lavoro sono anche peggiori. Cosa ci puoi dire su questo e secondo te il settore come sta affrontando queste problematiche?
FR: Come dicevo, l’Italia è tra le realtà più avanzate sul piano normativo – addirittura un altro pianeta, se il confronto lo facciamo con i paesi in via di sviluppo dove mancano le condizioni minime per parlare di responsabilità sociale, di diritti umani, di uguaglianza, di sicurezza… e quindi anche di macchinari all’avanguardia. Se il tema è poi quello della tutela ambientale, sono tante le aree del mondo in cui il concetto di depurazione o di riduzione delle emissioni in atmosfera si applica solo a poche realtà eccellenti isolate. In Italia no, in Italia il numero di imprese che ha avviato in qualche forma la trasformazione del proprio modello di business verso la sostenibilità – grazie al contesto favorevole, alla lungimiranza dell’imprenditore… – sono sempre più numerose. Ma guai ad abbassare la guardia: ci sono distretti in cui bisogna ancora investire su materie come l’antincendio, la formazione, la cultura dei lavoratori… Resta tanto da fare anche da noi.
Ecoló: Gli standard del commercio internazionale e i requisiti sulle merci possono essere un possibile strumento di controllo? Come mai aspetti di sostenibilità ambientale e sociale non fanno parte di questi standard?
FR: Non siamo arrivati ancora a questo punto, ma ci sono dei segnali incoraggianti. È in corso di definizione, infatti, la due diligence legislation[1], votata a marzo scorso dal Parlamento Europeo e relativa alla due diligence delle imprese in materia di diritti umani e ambiente. Lanciata un anno fa dal commissario UE della giustizia Didier Reynders, l’iniziativa comporterà l’obbligo per i paesi membri di dare evidenza della trasparenza delle filiere, arrivando a monitorarne i requisiti ambientali e sociali, appunto, il rispetto dei diritti umani, della sicurezza, dell’impatto ambientale.
Questo sul fronte normativo. Di iniziative volontarie da parte di molti grandi brand sulle proprie filiere globali possiamo già contarne diverse da anni, ma è chiaro che non potremo assistere a un vero cambio sistemico finché non ci sarà una legge uguale per tutti. La due diligence legislation potrebbe essere un fattore non trascurabile di cambiamento proprio perché interesserà le filiere globali: se l’azienda ha sede in Europa ma si approvvigiona ovunque, nel mondo, dovrà dare evidenza del rispetto dei requisiti ambientali e sociali della filiera da cui si approvvigiona.
Ecoló: Per concludere, cosa è 4sustainability e come, con le vostre attività, cercate di portare quel cambiamento di cui ci hai parlato? Quale prospettiva vedi per i prossimi anni?
FR: 4sustainability è un protocollo, un sistema di implementazione di filiera basato su sei dimensioni di sostenibilità e concepito per supportare l’impresa nella realizzazione di un modello di business sostenibile e quindi nella verifica di tutti i requisiti ambientali e sociali necessari per poterlo definire tale. Partendo da una fotografia iniziale, il protocollo consente di mettere a punto un serie di procedure, regole di implementazione e misurazione relative all’impatto sociale e ambientale del proprio sistema produttivo per dimostrare un miglioramento continuo nel tempo. Al momento, con nostra grande soddisfazione, vediamo che in Italia sono tantissime le aziende che hanno voglia di scommettere su questo e si stanno mettendo in discussione, aziende che, partendo da performance ambientali e sociali già molto buone, vogliono continuare a crescere, a innovare, a cercare soluzioni per ridurre il proprio impatto ambientale e migliorare le condizioni sociali. Dal nostro osservatorio – principalmente italiano, ma con numeri interessanti anche a livello globale – vediamo che questo trend è già in essere e che alcuni grandi nomi della moda stanno facendo da apripista. Pochi, purtroppo, ma volenterosi! Mi riferisco per lo più a gruppi internazionali che hanno dedicato budget e risorse importanti per trainare e formare le filiere mondo, sviluppando sistemi di controllo e in alcuni casi anche di riconoscimento. Noi, con loro, ci diamo da fare sulla filiera perché questo si realizzi e sia monitorato e misurato costantemente, con un sistema trasparente di condivisione dei risultati a marchio 4sustainability.
Un’ultima considerazione voglio farla sul tema dell’educazione alla responsabilità, che negli ultimi 30-40 anni ci siamo persi, troppo occupati a guardare solo al profitto. Fare sostenibilità – evitando incidenti come quello drammatico in cui ha perso la vita Luana – significa invece recuperare i principi della responsabilità: nelle famiglie, nella scuola, in azienda… L’etica nel business nasce da qui, è ciò che porta le imprese (e gli individui) a immaginare un modello operativo diverso che si rivela anche, peraltro, il più efficace sul piano delle performance.
[1] http://www.vita.it/it/article/2021/04/27/governance-societaria-sostenibile-un-passo-avanti/159140/
Quando si parla di economia cicolare spesso è la retorica ad avere la meglio. Ma un modo di entrare nel concreto è quello di parlare di vuoto a rendere. Per farlo abbiamo coinvolto Pietro Ceciarini, assegnista di ricerca al Dipartimento di Ingegneria Civile, Chimica, Ambientale e dei Materiali dell’Università di Bologna e fondatore della startup BackBo, nata dal suo progetto di tesi: “Progetto BackBO – Studio di fattibilità per la gestione dei rifiuti da imballaggi attraverso il sistema del vuoto a rendere all’interno della Zona Universitaria di Bologna.”
Ecoló: In Italia produciamo una quantità inimmaginabile di imballaggi. Il dato sulle bottiglie di plastica è da Guinness dei primati con 8 miliardi di bottiglie prodotte ogni anno. Come siamo arrivati fin qui?
Pietro Ceciarini: Il dato delle bottigliette di plastiche è terribile. In Italia siamo il 5° paese in Europa per salubrità della nostra acqua potabile da acquedotto (dietro a paesi prettamente montani come Austria e Svezia ad esempio) e, allo stesso tempo, siamo il 3° paese al mondo per consumo di acqua minerale in bottiglia, dopo Thailandia e Messico, che hanno problemi di potabilità e sicurezza dell’acqua da rubinetto. Siamo arrivati a questo punto perché negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, in pieno boom economico, è stato capito che si potevano fare i soldi con un bene di tutti, privatizzandolo. È stato creato un marketing per esaltare la salubrità dell’acqua in bottiglia che ha iniziato quindi ad essere commercializzata. La televisione, anche oggi, ci propone tantissima pubblicità di acqua minerale che ne esalta gli aspetti salutari, creando una cultura specifica, oltre all’abitudine ad un sapore diverso.
Ecoló: Vuoi dirci, brevemente, come funziona il meccanismo del “vuoto a rendere” e quali ingredienti rendono possibile che funzioni?
PC: Il vuoto a rendere è un meccanismo molto semplice, e per questo bellissimo. Si è sviluppato nel dopo guerra, anche in Italia, per motivi economici, le aziende infatti risparmiavano recuperando gli imballaggi, lavandoli e riutilizzandoli. Tutto questo fino alla scoperta dell’usa e getta. Di recente, alcuni paesi, come Germania, Svezia, Croazia e altri, lo hanno fatto diventare obbligo di legge, sia per gli imballaggi riutilizzabili che per quelli monouso. Per gli imballaggi riutilizzabili il meccanismo funziona grazie a una cauzione che il produttore applica sulla vendita del prodotto, ad esempio una bottiglia di birra, e che è presente in tutti i passaggi, dal distributore fino al consumatore finale e varia da pochi centesimi fino a massimo 1-2 euro. In questo modo il produttore si garantisce un minimo di budget per acquistare nuovi imballaggi nel caso non li riceva indietro tutti. Per riavere la cauzione è sufficiente restituire indietro l’imballaggio integro da parte del consumatore finale, del distributore e così via fino al produttore che può così recuperarlo e riutilizzarlo. Il vuoto a rendere è possibile anche per i prodotti monouso e, in questo caso, serve a garantire standard di riciclaggio più efficienti, andando a selezionare il rifiuto in modo più preciso coinvolgendo il consumatore che riceve un piccolo contributo, riportando indietro ad esempio una lattina vuota o un determinato tipo di bottiglietta di plastica.
Ecoló: Tutti noi abbiamo avuto esperienze positive con la gestione del vuoto a rendere, in alcuni paesi del nord Europa o in Alto Adige, e ci chiediamo sempre: perché nel resto d’Italia non c’è?
PC: Domanda molto interessante, che ci permette di far capire come siamo arrivati a questo. Credo dipenda da due aspetti, uno normativo e uno culturale. Siamo un paese infatti dove il senso civico non è così elevato e il vuoto a rendere presuppone comunque un impegno da parte di ognuno per il benessere collettivo. A livello normativo invece, con il Decreto Ronchi del 1998, anziché spingere sul riutilizzo degli imballaggi e dei rifiuti, è stato scelto di puntare prima di tutto sul riciclaggio con la creazione di consorzi appositi senza scopo di lucro, come il CONAI (Consorzio Nazionale Imballaggi). Questo non gestisce il vuoto degli imballaggi, ma i materiali di scarto conferiti dai comuni provenienti dalla raccolta differenziata. Le aziende che producono imballaggi partecipano attraverso un contributo all’origine del prodotto, versato al Conai per le spese di gestione dei rifiuti che dalla raccolta sul territorio passano ai Consorzi per il riciclo. Questo si è dimostrato un forte limite e un rallentamento alla possibilità di sviluppare un sistema di vuoto a rendere. Oltre a questo, in Italia, la stessa definizione normativa di rifiuto è piuttosto “sottile” creando spesso problemi e interpretazioni e, negli ultimi tempi, stiamo anche sempre più assistendo alla diversificazione delle bottiglie, come tratto distintivo da parte delle aziende, soprattutto di birra, al contrario della standardizzazione che si ha invece in altre parti di Europa e che aiuta il vuoto a rendere.
Nonostante tutto ciò, il vuoto a rendere era presente in Italia e in parte c’è ancora. Qualche anno fa, ad esempio, è stata lanciata una campagna in Sardegna, da parte della birra Ichnusa e, soprattutto nel sud Italia, esistono ancora realtà industriali che usano il sistema del vuoto a rendere come pratica quotidiana, la Peroni stessa nel suo stabilimento meridionale fa vuoto a rendere da anni, proprio perché ancora legato a un’economia di risparmio più che a un’economia di sfruttamento.
Ecoló: Quali sono i costi aggiuntivi (e su chi ricadono) e quali i risparmi di una filiera del vuoto a rendere e quindi qual è il bilancio economico complessivo di una operazione di questo tipo?
PC: Non credo che il sistema del vuoto a rendere porti costi aggiuntivi. La presenza di una cauzione è solo uno strumento per far funzionare il sistema permettendo il recupero dell’imballaggio. Dal punto di vista del consumatore quindi i dati di costo in più sono irrisori se non minori, dal momento che con la diffusione del sistema, dovrebbe affermarsi un minor costo nella gestione dei rifiuti (che potrebbe portare a uno sconto sulla Tari, ad esempio). Il bilancio economico complessivo non aumenta, anzi porta valore anche per le istituzioni, valutando non solo l’aspetto economico del sistema ma anche altri vantaggi in termini di sostenibilità, soprattutto in un’ottica di ciclo di vita e di impatto ambientale, economico e sociale, considerando anche la possibilità di fare risparmio da parte di persone meno abbienti che, in modo dignitoso, possono guadagnare sopperendo ai comportamenti poco virtuosi di altre persone.
Ecoló:Quando qualche mese fa si è iniziato a parlare di un’imposta sugli imballaggi di plastica è scoppiato un putiferio, malgrado si trattasse di un tentativo molto timido di arginare la sovrapproduzione di imballaggi nel nostro paese, quali sono gli ostacoli maggiori che oggi non permettono di proporre soluzioni efficaci come il vuoto a rendere?
PC: Già, la plastic tax era sicuramente un provvedimento importante. A mio avviso il problema di fondo è stato un po’ lo stesso avuto in passato: non aver integrato nel processo legislativo fin da subito le varie parti interessate, gli utenti finali, produttori, distributori, senza avere così un dialogo che permettesse di arrivare a una soluzione valida per tutti, condivisa e consensuale. Poi, come detto anche prima, il Decreto Ronchi ha creato un sistema molto rigido tra consorzi, comuni, aziende municipalizzate che rende difficile il cambiamento, anche per motivi culturali.
Ecoló: A che livello è più utile agire per sviluppare un progetto di vuoto a rendere? è possibile fare qualcosa a livello regionale?
PC: Con la mia esperienza e formazione ho sviluppato un approccio in ambito startup e innovazione usando metodi di lean startup e design thinking. Partirei quindi sempre dal piccolo, con un modello da testare e poi ingrandire e riprodurre, adattandolo al contesto in cui è calato. La realtà di Bologna, in cui lavoro, è diversa da un paesino della Sicilia o dalla realtà autonoma dell’Alto Adige. Non possiamo pretendere da subito che si possa espandere il vuoto a rendere alla dimensione nazionale. Anche per la logistica è più semplice partire da piccole realtà locali, come birrerie artigianali o piccole cantine con poche bottiglie.
A livello regionale, anche pensando alla Toscana, potrebbe essere interessante pensare a progetti di hub territoriali che fungano da centri di lavaggio e smistamento di questi imballaggi, in modo da ridurre i costi di trasporto e non dover avere il lavaggio in house.
Ecoló: Raccontaci il tuo progetto: in due parole, che cosa è BackBO?
PC: BackBO è nato proprio per essere un hub e un esperimento di vuoto a rendere in zona universitaria. Pian piano, nonostante tutti i problemi di burocrazia e normativa di cui abbiamo parlato, abbiamo mantenuto la missione e una visione coerente: distruggere il mondo dell’usa e getta a favore di una cultura verso un’economia circolare e sempre più riutilizzabile. Siamo un centro di economia circolare a Bologna, che è anche centro di innovazione sociale, grazie all’integrazione con il territorio e con la cittadinanza.
Ecoló: Pensi che questa esperienza possa essere replicata in altre università? Come associazione politica come potremmo spingere perché ciò avvenga?
PC: A livello universitario tutto è partito facendo una tesi all’interno di un progetto europeo più ampio che riguardava la rigenerazione della zona universitaria di Bologna (afflitta da problemi di devastazione e di degrado urbano) e che avrebbe potuto portare vantaggi anche dal punto di vista della sostenibilità. Come BackBO vorremmo crescere e cercare di sviluppare centri in altre città italiane, ma con un percorso di crescita dal basso, fungendo noi da facilitatori per aiutare a far nascere nuovi hub.
Un’associazione politica può essere uno strumento e un metodo importante per cercare di fare leva sulle istituzioni, in modo da coinvolgere dal punto di vista anche culturale e di comunicazione di possibili progetti di questo tipo, in modo da espandere attività di vuoto a rendere.
Ecoló: Oltre al vuoto a rendere, quali potrebbero essere soluzioni innovative da sviluppare in ottica di economia circolare sul territorio? anche in relazione al tuo lavoro di ricerca che stai portando avanti all’Università di Bologna.
PC: Noi con BackBO, all’interno dell’associazione, facciamo diverse attività. Abbiamo un hub che è anche un laboratorio di design per prototipare in ottica di economica circolare, con stampanti 3d e altri macchinari, sull’onda di Precious Plastic (community che ha reso possibile la costruzione di macchinari domestici per il riciclo della plastica). Questo potrebbe essere un’attività molto interessante, esportabile e replicabile, proprio perché avvicina tutti i cittadini a una modalità di economia circolare più partecipata, più attiva, più vicina. Quello che vorremmo diventare è un centro di ricerca sperimentale per l’economia circolare per fare diverse attività, non solo plastica, ma in futuro anche altro, riducendo quelli che sono i tempi delle università e avere più dinamismo rispetto alle istituzioni pubbliche. Poi è importante coinvolgere il più possibile le persone: se le persone cambiano, se la cultura cambia, le aziende e le istituzioni dovranno adattarsi e regolamentare le nuove esigenze del popolo.
Ecoló: Grazie mille della tua disponibilità!