Il Tirreno ha pubblicato un reportage sul consumo di suolo nella Piana fiorentina. Un approfondimento meritorio da cui emerge un quadro preoccupante. Ma la classifica comparsa sulle pagine del quotidiano lo scorso lunedì 21 novembre fa apparire troppo virtuosi comuni, come quello di Firenze, che pur avendo un territorio già saturo a inizio anni 2000 hanno continuato a costruire in questi anni.
La percentuale riportata da Il Tirreno fa riferimento agli ettari costruiti in più oltre a quelli consumati fino al 2006. In una classifica del genere un comune con 99 ettari su 100 di superficie consumata nel 2006, che avesse consumato anche l’ultimo ettaro disponibile, esaurendo completamente il suo territorio, con un consumo del 100%, risulterebbe più virtuoso del comune di Scandici che, seppur ha consumato 17 ettari di terreno negli ultimi 15 anni, ha un consumo totale di suolo attorno al 25%.
Secondo noi il modo corretto di rappresentare il problema è un altro.
In primo luogo bisogna chiederci in che misura i comuni si sono allontanati dalla prospettiva di consumo zero di suolo. Cioè quanti ettari sono stati consumati in più. Purtroppo il trend è di un maggior consumo di suolo per tutti (quinta colonna della tabella). In secondo luogo occorre domandarci quale percentuale del suolo non ancora consumato nel 2006 è stato sottratto alle sue funzioni ecosistemiche.
Il grafico sotto riporta i valori per comune, mettendo a confronto la misura riportata da Il Tirreno (in blu) con la misura del consumo percentuale di suolo libero (in verde).
Come si inverte il trend? Secondo Ecolo’ è inevitabile, con l’evolvere di un sistema sociale ed economico, che emergano esigenze di consumo di suolo. Nuove scuole, nuove insfrastrutture per il trasporto, nuove esigenze per abitazioni e produzione. Per questo motivo le amministrazione dovrebbero adottare un piano di rinaturalizzazione e ricomplessizzazione ecologica di aree all’interno dei propri territori che riportino in attivo il conto del suolo riguadagnato alle sue funzioni naturali.
Troppo spesso la strategia di riduzione di consumo di suolo è vissuta come una resistenza alla tendenza divoratrice del mercato. Dobbiamo portare nelle istituzione una visione che ribalta la logica e che vede nelle rinaturalizzazione di parte del territorio all’interno delle città un obiettivo strategico fondamentale. Per il pianeta, per la persone che lo abitano.
Come riportato nel dossier ISPRA 2021 ‘Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici – Edizione 2021’, in Italia nel solo anno 2020 nuove coperture artificiali hanno riguardato altri 56.7 kmq, in media quindi 15 ettari al giorno. Il nostro paese perde quasi 2 mq di suolo ogni secondo. La crescita delle superfici artificiali è solo in parte ricompensata dalla ricostituzione e dal ripristino di aree naturali, che si attesta attualmente intorno a soli 5 kmq all’anno. Dobbiamo quindi da una parte ridurre drasticamente il nuovo consumo di suolo, fino ad azzerarlo, e dall’altra far crescere il recupero e la ricreazione di spazi e territori naturali. Purtroppo, nonostante tanti proclami e nonostante indicazioni forti in tal senso anche dalle Istituzioni internazionali (le Nazioni Unite hanno intitolato il decennio 2021-2030 come Decade on Ecosystem Restoration per sottolineare la necessità e l’urgenza di un’azione su questo piano), i segnali positivi continuano ad essere pochi.
Abbiamo intervistato Andrés Lasso, biologo, giardiniere e responsabile per Legambiente Toscana del verde urbano, già candidato sindaco per la Federazione dei Verdi a Firenze nel 2019.
Ecolo’: Ciao Andrés, grazie per la tua disponibilità, per prima cosa vorremmo chiederti se quello che ci sembra di vedere attorno a noi, cioè un deperimento del verde urbano e periurbano, è una suggestione o è confermato dai dati a tua disposizione?
Grazie a voi per questa occasione di confronto. Il deperimento del verde c’è, teniamo conto che abbiamo vissuto un’estate davvero eccezionale, (che purtroppo sta diventando la norma o quasi), con cinque intense e prolungate ondate di calore in contemporanea a una siccità spaventosa. Anche specie adattate a climi caldi e asciutti, penso all’alloro, sono andate in gran sofferenza.
Al netto di questa eccezionalità, questo deperimento ha anche spesso delle cause più circoscritte: errata pianificazione, budget scarsi o allocati in modo sbagliato, assenza di risorse, mancanza di competenza. Tutto questo incide sulla qualità complessiva del verde urbano.
Ecolo’: Le piante che muoiono sono necessariamente piante che sarebbero morte comunque in breve, o sono piante meno adatte al clima che cambia?
Le piante possono morire per vari fattori. Incide ad esempio l’età e la dimensione di una pianta (piante messe a dimora da grandi hanno enormi esigenze idriche per almeno due se non tre estati consecutive), la specie utilizzata, la posizione, la qualità del lavoro fatto e del materiale vivaistico, la stagione in cui viene fatto. La messa a dimora per una pianta è un passaggio delicato, un certo tasso di mortalità sui nuovi impianti può essere fisiologico, l’impressione nella nostra città è che siamo molto oltre il tasso considerabile come accettabile. Il clima che cambia richiederebbe una maggior attenzione alle piante di recente messa a dimora durante stagioni estive così critiche. Questa attenzione complessivamente è molto carente.
Ecolo’: Sappiamo che le due persone morte a Lucca e a Massa per il maltempo sono state entrambe schiacciate da alberi che non hanno retto alle raffiche di vento. Possiamo aspettarci gli stessi rischi in autunno nelle nostre città? Che problemi pongono dal punto di vista della sicurezza?
Quando avvengono raffiche di vento oltre i 100 km/h gli alberi iniziano a fare paura, lo so bene. Va detto che anche oggi in epoca di eventi estremi, il rischio di morire schiacciati da un albero resta un rischio relativamente basso, inferiore a quello di essere colpiti da un fulmine, enormemente inferiore a quello di essere investiti da un’auto. Questo non deve certo condurci a una sottovalutazione del rischio, deve farci pensare però in termini di rischio accettabile, perché il rischio zero non esiste in nessun campo e neanche nell’arboricoltura. Deve anche portarci a una maggior competenza nella gestione dell’alto fusto, perché spesso le piante più pericolose sono piante potate male (anche nell’ultimo evento ho visto molte piante sbrancate in corrispondenza di precedenti capitozzature). Deve anche portarci a una revisione dei protocolli. Il sistema VTA (visual tree assessment) con le sue classi di rischio, è un sistema che dobbiamo considerare obsoleto, come affermato dal dottor Luigi Sani in un recente convegno dell’ANCI Toscana.
Ecolo’: curiosamente i grandi accusati di mettere a repentaglio la sicurezza in città, i pini, sembrano stare benone. È anche qui una nostra impressione o in effetti si tratta di piante più capaci di resistere al clima più caldo e siccitoso?
Il pino domestico si è guadagnato una cattiva fama negli ultimi anni tra la cittadinanza e tra gli amministratori. Al punto che si vedono spesso abbattimenti di interi filari per sostituirli con altre specie. In realtà un pino allevato bene è una pianta che sa resistere ai venti forti. A Trieste, città in cui soffia la bora vari giorni all’anno, una delle piante prevalenti è il pino domestico, oltre al pino d’Aleppo. Nell’ultimo evento a Firenze si sono avuti venti molto intensi su chiome asciutte (la pioggia è caduta dopo le forti raffiche) In queste condizioni sono andati più in sofferenza i cipressi ad esempio, i pini hanno retto benissimo. Comunque credo che su queste situazioni sappiamo ancora poco, ci basiamo per lo più su osservazioni empiriche riguardanti fenomeni che fino a poco tempo fa erano rarissimi. Un dato a sfavore del pino è quello che riguarda i sempreverdi: siccome molti eventi estremi arrivano d’inverno, quando altre specie non hanno foglie e dunque oppongono meno resistenza al vento, è chiaro che gli eventi invernali faranno danni più facilmente su pini o cedri piuttosto che su tigli o platani.
Ecolo’: Nella foto qui sotto vedi un esempio della difficoltà del Comune di Firenze nel difendere le piante dalla siccità. Si tratta degli alberi piantati davanti all’ex Meccanotessile. Come è possibile che, per il secondo anno consecutivo, questi alberi vengono piantati e di nuovo muoiano tutti? Si tratta di morti inevitabili? O più verosimilmente c’è qualche errore?
Non avendo visto la situazione di persona dico di aspettare qualche settimana a darli per morti perché a volte le piante stupiscono, e tra la chioma secca potremmo veder spuntare qualche gemma. Molto probabilmente ci sono stati degli errori, sicuramente trascuratezza nelle annaffiature estive. Sul meccanotessile se vediamo una foto aerea precedente al cantiere vediamo che il verde era ben superiore e l’asfalto minore. In situazioni come quella in foto, con l’asfalto che arriva molto a ridosso del colletto della pianta, la temperatura alla quale la pianta può trovarsi nelle giornate di caldo estremo diventa veramente altissima. Tra l’altro secondo il regolamento del verde del comune di Firenze, la “zona di rispetto dell’albero” dovrebbe avere un raggio che va dai 2 ai 4 metri in base al tipo di specie. Da quello che si vede in foto la distanza tra l’asfalto e il fusto è intorno a un metro circa.
Ecolo’: Sono arrivati dei temporali e i prati sono velocemente rinverditi. Ma quali sono gli effetti a catena che possiamo attenderci nel medio e lungo periodo sullo stato del verde delle nostre città?
Se non si invertono i trend in atto, sia quelli climatici che quelli gestionali, vedremo molti disseccamenti di siepi (che a differenza dei prati, se seccano del tutto non recuperano dopo l’estate), continueremo a vedere un tasso di mortalità elevato nei nuovi impianti, vedremo abbattimenti sbrigativi dettati più dalla paura che dall’analisi razionale delle situazioni, vedremo proliferare specie aliene invasive come l’ailanto, ed avremo un verde urbano complessivamente trascurato e al di sotto delle proprie potenzialità.
Ecolo’: Siamo rimasti colpiti da quanto sta succedendo sulle Dolomiti orientali, la tempesta del 2018 ha danneggiato il bosco, le decine di migliaia di piante rimaste a marcire insieme al caldo e alla siccità di queste estati, hanno creato un habitat favorevole ad un coleottero, il bostrico, che infestando gli abeti ne causa velocemente la morte. Anche se non se ne parla si tratta di una catastrofe ecologica ed economica per alcune zone del nostro paese. Possiamo immaginare scenari del genere anche nel resto di Italia e nelle nostre città?
Premesso che non sono un esperto in gestione forestale, sicuramente il bostrico è un patogeno molto temibile perché porta a morte tutta la pianta. Problemi di bostrico ne abbiamo anche dalle nostre parti, alla riserva dell’Acquerino, dove ha fatto notizia lo scontro tra comune di Cantagallo e Regione toscana su dei tagli previsti, tra le varie questioni c’era di mezzo anche il bostrico. Dal punto di vista ecologico il bostrico è un parassita nostrano, non è una specie aliena e questo fa sì che in un ecosistema funzionale esistano anche i suoi antagonisti, dal picchio, a insetti parassitoidi, a funghi patogeni, che aiutano a far sì che le “pullulazioni” abbiano un picco e poi si ritorni dopo qualche anno a un equilibrio. In generale resta vero che un ecosistema con maggior biodiversità è più resiliente anche rispetto a questi eventi, mentre invece un contesto a bassa biodiversità, monospecifico o quasi, è più fragile. Un bosco in cui l’abete rosso, privilegiato dal bostrico, è mescolato ad altre specie come il pino silvestre, il larice, il pino cembro, l’abete bianco, potrebbe contribuire a frenare le esplosioni di bostrico. E’ comunque vero che situazioni come la tempesta “VAIA” del 2018 sono eventi talmente inediti che creano degli scenari e interrogativi nuovi anche dal punto di vista ecologico.
Ecolo’: la tragedia delle Alpi introduce vari temi interessanti fra i quali quello dello smaltimento. Cosa accade agli alberi che muoiono? Il legno viene recuperato in qualche modo?
Questa è una domanda fondamentale dal punto di vista della CO2 e della ricerca di una carbon neutrality. Oggi il “cosa accade dopo”, al materiale di risulta, almeno nelle nostre città, è a totale discrezione delle ditte che eseguono abbattimenti e potature. Invece esistono scelte che mantengono sequestrato gran parte del carbonio che la pianta ha fissato e altre che lo rimandano in atmosfera. Usare quella legna per fare mobili, per fare cippato, per fare giochi per bambini nei parchi, sono scelte che conservano sequestrato il carbonio. Bruciare la legna significa rimandare quel carbonio in atmosfera. E’ evidente cosa sia meglio. Nell’agosto 2015, quando ci fu il disastro che distrusse la zona dell’anconella a Firenze, una ditta che conosco si è presentata in quartiere 2 proponendo un progetto in cui quella legna diveniva arredi per il parco stesso e giochi per bambini. Purtroppo il progetto non venne accolto. Cosa è successo a quella legna non lo so con certezza ma probabilmente quel carbonio ha fatto una fine diversa. Al di là di questi eventi estremi, il tema si pone anche per la gestione ordinaria. Ogni anno dal nostro verde urbano escono tonnellate di materiale di risulta sotto forma di foglie cadute d’autunno, potature, abbattimenti. La gestione di quel materiale sarebbe un tema chiave se vogliamo che il verde abbia davvero un impatto sulle concentrazioni di CO2.
Ecolo’: Collegato alla modalità di smaltimento, da un punto di vista dell’equilibrio globale delle emissioni climalteranti, la morte delle piante è un elemento necessariamente negativo? Sappiamo ad esempio che ci sono alcuni tecnici che sostengono che piante in accrescimento siano in grado di stoccare molta CO2 e per questo suggeriscono una strategia basata sulla sostituzione di vecchie piante con piante giovani. Cosa ne pensi?
Credo che intanto dovremmo intenderci su che significhi pianta “giovane”. Un tiglio può vivere oltre mille anni, un melo meno di cento, in genere. Dunque un melo ottantenne è un “anziano”, un tiglio ottantenne è un “ragazzino”. Complessivamente e abborracciando un po’, cito Giorgio Vacchiano, possiamo dire che una pianta ad alto fusto dà il “meglio di sé” come assorbimento di CO2 tra il 50esimo ed il 150esimo anno. Nelle nostre città piante che abbiano più di 150 anni sono praticamente assenti. Dunque sostituirle per “assorbire più CO2” è un errore, se la pianta è in salute e posizionata bene (sulla fotosintesi netta incidono anche altri fattori, non solo l’età). Su questo tema credo si siano diffusi molti equivoci, in seguito anche a dei convegni che non hanno fatto molta chiarezza. Spesso si è confuso produzione con produttività (cioè quella per unità di biomassa o di superficie fogliare). Una foglia di una pianta appena uscita da vivaio, fotosintetizza di più rispetto ad una pianta di 80 anni, ma quella di 80 anni ha una superficie fogliare enormemente superiore. Quando sostituiamo una pianta adulta, a meno che sia vetusta o non in salute, con una nuova, quella nuova impiegherà qualche decennio per avere la stessa capacità di fissare la CO2 della precedente. Non parliamo poi degli altri servizi ecosistemici: dal punto di vista prettamente ecologico, la pianta adulta vince su tutti i fronti.
Ecolo’: Recentemente Andrea Giorgio il nuovo Assessore alla transizione ecologica al Comune di Firenze ha dichiarato di voler realizzare un cambio di passo nella gestione del verde in città. Da dove pensi che dovrebbe cominciare questo nuovo corso dell’amministrazione fiorentina?
Come Legambiente abbiamo avuto interlocuzioni positive con il nuovo assessore Giorgio, mi pare sinceramente desideroso di collaborare e di dare una svolta sul tema del verde urbano. Premesso questo le urgenze sono molte, io ritengo che serva primariamente ricostruire un servizio pubblico del verde, così come servirebbe tornare ad esempio ad avere dei vivai comunali come esistevano a Mantignano. So che sono questioni complesse che non dipendono del tutto neanche da un assessore o da una giunta, molti comuni sono nella stessa situazione, avendo spesso un decimo o un ottavo del personale per il verde che avevano trent’anni fa. Ma se davvero un verde urbano che ci dia una mano a contrastare la crisi ecologica, non possiamo farlo con meno risorse rispetto a quando questi temi non erano all’ordine del giorno. Inoltre, se siamo in epoca di “vacche magre” dobbiamo rivedere le nostre scelte, si vedono cantieri molto onerosi per l’amministrazione su progetti che sono al contempo conflittuali rispetto a gran parte della popolazione, e discutibili dal punto di vista tecnico. Si sono visti abbattimenti sbrigativi, e gli abbattimenti e sostituzioni hanno costi elevati. Dobbiamo essere cauti su progetti che richiedono molti soldi per la manutenzione, come le “living walls”. Quando vedo nella mia città alberature mal gestite e parchi spesso trascurati, e al contempo rotonde stradali estremamente curate, penso che da un lato la nostra società è ancora pensata a misura di auto più che di fruitore di parco, dall’altro che dobbiamo costruire insieme, associazioni, amministrazioni, cittadini, una visione sistemica del verde urbano.
Ecolo’: Grazie mille e a presto!
L’area che ospitò le Officine Galileo dal 1909 e che si convertì al settore meccanotessile dopo la liberazione di Firenze attende ancora una sua destinazione definitiva. Un’area strategica e densa di storia che si è accompagnata negli ultimi 40 anni ad un reale processo di partecipazione attraverso il Comitato “Il Meccanotessile è dei cittadini”. Siamo nel Quartiere di Rifredi, in un’area compresa tra l’Ospedale di Careggi e Piazza Dalmazia.
A Firenze riteniamo necessario incidere su questo spazio e perciò abbiamo intervistato l’Architetto Giuseppe Santarelli, memoria storica del comitato e già presidente della Commissione speciale sul Meccanotessile del Quartiere 5.
Ecoló: Buonasera Giuseppe. Innanzitutto, grazie per questo momento di approfondimento e confronto. Rappresenti stasera il comitato “Il Meccanotessile è dei cittadini”, cosa è necessario raccontare della sua storia per capire le vicende attuali?
Arch. Santarelli: E’ necessario partire dagli anni ’70, periodo in cui i cittadini già dimostrarono la forte volontà di partecipare al processo decisionale sul destino dell’area.
Il Meccanotessile rappresenta la storia industriale di Rifredi, quartiere di Firenze nato intorno alle fabbriche. Alla fine degli anni ’70 la produzione del complesso industriale fu trasferita a Campi Bisenzio prevedendo di demolire e sostituire i fabbricati esistenti con nuovi edifici ad alta densità abitativa (La nuova destinazione residenziale era frutto del P.R.G. del 1962 che aveva destinato l’area in questione a zona di ristrutturazione edilizia). Gli operai e la cittadinanza si ribellarono alla decisione e cercarono di fermare le ruspe riuscendo, in nome della memoria storica del lavoro di molti operai ancora residenti nel quartiere, a salvaguardare il fabbricato principale che rappresenta un importante esempio di archeologia industriale, era il 1981.
Il Comune finanziò così alla fine degli anni ’80 un ingente restauro conservativo dell’immobile, che era stato destinato a Museo dell’Arte Contemporanea. Nasce allora il primo comitato cittadino che vuole partecipare al processo politico attraverso il dialogo con l’amministrazione. Il progetto è ben accetto ma il comitato ritiene necessario riportare alla politica la forte necessità di servizi per bambini, giovani ed anziani del quartiere, da inserire all’interno degli spazi. Una parte dei cittadini che avevano aderito al comitato fece Osservazioni al Piano Regolatore Generale proponendo: “Area a verde Pubblico con alberi di alto fusto al posto di manufatti edilizi e parcheggi di superficie”. Le Osservazioni furono in parte accolte: il futuro museo di arte contemporanea avrebbe mantenuto un’area a verde al di sopra del nuovo parcheggio sotterraneo (ed uno spazio di memoria del lavoro), i servizi sociosanitari sarebbero sorti in un edificio presso Via Bini.
Ecoló: Quando sono partiti i lavori di restauro conservativo?
Arch. Santarelli: Nel Maggio del 1990 si apre il cantiere, primo lotto e primo stralcio per la costruzione del nuovo Centro D’Arte Contemporanea nell’area delle ex Officine Galileo finalizzato alla ”conservazione e recupero integrale del padiglione ex Meccanotessile”. Il 17 Aprile del 2000 con delibera n. 488, la Giunta Comunale approva il progetto esecutivo del secondo stralcio per il completamento dei lavori e della gestione economica e funzionale dell’intero complesso mediante Atto di Concessione e gestione (questa seconda parte non andò a buon fine). Attraverso la presenza di membri del comitato all’interno del consiglio di quartiere nasce la “Commissione speciale sul meccanotessile”, trasversale ai partiti politici, che si riunisce dopo cena per poter coinvolgere la cittadinanza. Per il quartiere l’anno 2001 è infatti un momento particolarmente dinamico nella partecipazione al processo: nel frattempo la commissione decise la nuova definizione del Centro: Centro delle Arti Contemporanee. Si realizzano tesi di laurea sul tema seguite direttamente dalla Commissione speciale sul Meccanotessile che organizza, insieme all’Assessore alla Cultura del Comune di Firenze , presso il circolo SMS di Rifredi eventi e mostre sull’arte contemporanea, il giornale “Il Colle” segue le vicende mantenendo aggiornati i cittadini.
Ecoló: Questo connubio tra cittadini e politica sembra destinato a grandi risultati. Cosa è successo dopo?
Arch. Santarelli: Attraverso vicissitudini legate ad appalti e ricorsi i lavori si fermano per anni, inoltre la Commissione Meccanotessile si scioglie al termine del primo mandato del Sindaco Domenici. Nel 2009 Matteo Renzi cambia rotta politica sul destino dell’ex Meccanotessile e il progetto si interrompe totalmente: l’area viene messa in vendita, infatti il 4 febbraio 2010 il lotto viene inserito nel piano di alienazione del Comune. E’ in questo momento storico che nasce il secondo Comitato, cioè l’attuale “Il Meccanotessile è dei cittadini” (questo nome fu fortemente voluto da Romano Moretti, principale fondatore ed animatore del comitato per significarne l’appartenenza alla città ed ai cittadini), per fermare la cessione del Bene Pubblico e salvaguardare questo luogo nevralgico per tutto il quartiere. Per il Comitato l’ipotesi di vendita era illegittima, sia sotto il profilo urbanistico che sotto quello giuridico: gli immobili erano pervenuti in proprietà al Comune di Firenze come oneri di urbanizzazione “ex Officine Galileo”, per realizzare servizi pubblici di diritto che erano e sono ancora più che mai necessari alla sopravvivenza del Quartiere. Tutta l’area era funzionale all’attuazione degli standard urbanistici, che erano relativi alla grande volumetria già edificata dopo il trasferimento della fabbrica e a compensazione del grande impatto edilizio dell’area.
La forte pressione dei cittadini e del comitato porta alla rinuncia del Sindaco alla vendita e al varo di un nuovo progetto, con la partecipazione attiva del comitato, nel mese di settembre del 2011. Il nuovo progetto prevede un giardino pubblico, un asilo, una ludoteca, una biblioteca, un centro anziani, (posti auto), l’archivio comunale e una piazza coperta e spazi per la documentazione della storia della Galileo. In cambio verrebbero venduti gli ex laboratori, gli ex uffici e lo spazio-mensa della ex Galileo, con destinazione per appartamenti e residenze per studenti.
Ecoló: Così arriviamo ai giorni nostri. Per cosa lotta adesso il comitato?
Arch. Santarelli: vanificato il progetto del centro delle arti contemporanee ma bloccato il processo di vendita ai privati, ottenuto il giardino pubblico adesso il confronto con l’Amministrazione è legato a come garantire i servizi necessari al quartiere come precedentemente argomento e come integrarli con la destinazione del fabbricato principale a due Istituti di eccellenza come l’ISIA E l’INDIRE. Mentre si argomentava di Istituti di eccellenza e servizi un’altra questione è sorta quest’anno quando la Giunta ha deliberato 60 mini alloggi di housing sociale a canone calmierato, chiamati “volano” in quanto provvisori, all’interno di parte dei volumi dell’ex meccanotessile, nello specifico da inserire negli ex uffici ed ex mensa. Il Comitato sta quindi chiedendo all’Amministrazione Comunale come si possa conciliare la necessità di servizi richiesti da 40 anni con un complesso inserimento demografico in un luogo dove ancora mancano spazi aggregativi, culturali, spazi per giovani e anziani. In un approccio multidisciplinare è necessario creare le condizioni per un assorbimento di pressione sociale rendendo l’intervento di edilizia sociale una risorsa anziché un problema. Il comitato ritiene che 60 alloggi volano siano un numero incompatibile con l’area, oltretutto al momento tale progetto sarebbe in sostituzione a quei servizi tanto attesi.
Il prossimo appuntamento è il 14 Dicembre 2021 quando una delegazione del comitato sarà ricevuta dalla
Vicesindaca A. Bettini a Palazzo Vecchio.
Ecoló: Si è parlato di cosa, ma forse è importante anche spendere due parole su “come”. Il progetto su cui si lavora da anni riesce a recepire l’esigenza di un impatto ambientale ridotto ed essere un esempio di edilizia moderna?
Arch. Santarelli: come comitato abbiamo proposto da sempre l’installazione di pannelli fotovoltaici sulla
copertura del fabbricato principale, che si presta a un progetto moderno e sostenibile, ma non è mai stato
recepito perché, ci è stato sempre detto, non gradito alla Sovrintendenza ( l’edificio principale è sottoposto
a vincolo).
Ecoló: Grazie per il tempo che ci hai dedicato!
Per quale futuro del meccanotessile lottare?
Come Ecolò riteniamo che un ecologismo sociale richieda lo studio approfondito dell’impatto del
progetto di alloggi volano, là dove i cittadini lottano da anni per la creazione di servizi mai realizzati.
E’ necessaria una coesistenza tra la necessità di edilizia sociale, i servizi ai cittadini e la memoria storica
del quartiere. E allora perché non partire proprio dal progetto di servizi per analizzare quanti alloggi
volano possono essere compatibili e integrabili? Affinché l’housing sociale sia una risorsa per il
quartiere occorre che sia inserito con equilibrio nel tessuto del quartiere.
Ci preme anche chiarire che una valutazione sul progetto non può prescindere da quali tecnologie l’Amministrazione prevede di usare. Un’area così strategica e nevralgica deve essere esempio per la città di come possa essere sostenibile la riconversione di un ex fabbricato industriale. E’ possibile realizzare qualcosa di molto ambizioso, prevedendo una copertura che produca energia elettrica, stazioni di ricarica per auto elettriche nell’adiacente parcheggio, riuso delle acque meteoriche per l’irrigazione del giardino, pompe di calore geotermiche, impiantistica a risparmio energetico.
Crediamo sia necessario utilizzare questi spazi per dare un segnale di città innovativa che sperimenta sia nel sociale che nel rispetto dell’ambiente. Firenze può fare un salto di qualità e l’ex Meccanotessile è una grande opportunità per tutti, dal Comune ai cittadini.