La politica agricola comune europea, la PAC, è stata per molto tempo la politica cardine del bilancio europeo. Alla fine degli anni ’70 la PAC assorbiva oltre il 75% della spesa complessiva dell’allora Comunità Economica Europea. Anche se la gran parte dei cittadini dell’Unione non lo sa, ancora oggi i sussidi al settore agricolo rappresentano oltre un terzo del budget europeo.
La PAC è spesso usata ad esempio di come l’intervento pubblico possa essere distruttivo. Partendo da obiettivi sacrosanti: garantire cibo a sufficienza per tutti gli europei, un reddito dignitoso agli agricoltori e prevenire eccessive fluttuazioni di prezzi sui mercati dei beni agricoli, la PAC si è distinta per meccanismi di funzionamento estremamente dannosi per l’ecosistema.
Alle origini, negli anni ’60 e ’70, i trasferimenti erano erogati attraverso un meccanismo che teneva i prezzi dei prodotti agricoli artificialmente elevati. Un’agenzia acquistava a un prezzo minimo quantità illimitata di beni garantendo ai produttori prezzi superiori a quelli di mercato. L’effetto di questo meccanismo fu una corsa al sovra-sfruttamento delle risorse ed enormi quantità di prodotti agricoli invenduti finiti in discarica. Fra i danni procurati dalla PAC si annoverano l’epidemia da “mucca pazza” e la distruzione di interi ecosistemi per lasciar posto a coltivazioni intensive. Inoltre i profitti aumentarono, ma l’incremento fu proporzionale alle quantità prodotte. Ai piccoli produttori andarono le briciole, il grosso dei profitti venne spartito fra multinazionali e mega imprese del settore.
I meccanismi di finanziamento della PAC sono stati profondamente criticati e in seguito modificati. A partire dai primi anni 2000 il grosso passo avanti è consistito nello svincolare i sussidi dalle quantità prodotte. Riducendo l’incentivo alla sovrapproduzione e ripartendo in modo più equo i trasferimenti fra gli operatori del settore.
Nel 2018, a 15 anni di distanza da quelle riforme, la Commissione Junker ha sentito il dovere di aggiornare il quadro normativo della PAC proponendo alcune modifiche che tengono tiepidamente conto dei cambiamenti nei mercati agricoli e dell’emergente crisi climatica.
Come spiega Elisa Meloni di Volt Italia, oggi, anche se sono passati solo due anni, quella proposta non può che essere considerata datata. “[Dalla proposta Junker] molte cose sono cambiate: si è insediata una nuova Commissione presieduta da Ursula Von Der Leyen, che ha adottato il Green Deal Europeo e, al suo interno, le strategie per la Biodiversità e Dalla fattoria alla tavola (“from farm to fork”), che ad esempio prevedono entro il 2030 una drastica riduzione degli agenti chimici in agricoltura […], almeno il 25% della superficie agricola destinata all’agricoltura biologica e almeno il 10 % ad elementi caratteristici del paesaggio con elevata diversità. In questo contesto, la proposta di riforma della PAC si è rivelata ancora più obsoleta e inadeguata rispetto al livello di ambizione ambientale e climatica professato per il continente, tant’è che lo scorso maggio la Commissione si è affrettata a pubblicare un documento in cui spiegava come rendere la PAC compatibile col Green Deal.”
In questi giorni la proposta della Commissione ha affrontato i passaggi nel Consiglio e nel Parlamento europeo. Ci si attendeva che il testo fosse emendato trasformando i sussidi a pioggia in sussidi condizionati a standard di sostenibilità, escludendo dai trasferimenti le attività dal forte impatto ambientale. Invece il Consiglio europeo e il Parlamento hanno approvato una proposta legislativa addirittura peggiorativa rispetto a quella della Commissione Junker.
Questo atteggiamento fortemente conservatore ha sollevato reazioni da più parti: “Senza cambiare agricoltura non si combatte il collasso climatico” ha dichiarato Annalisa Corrado co-portavoce di Green Italia. “Non si può annunciare un fantasmagorico e strabiliante Green New Deal senza cambiare profondamente lo strumento principe che indirizza i comportamenti e gli investimenti nel settore. Perché il cibo buono e sano per la salute e per i territori arrivi sulle tavole di tutti, è necessario chiudere le porte ad agricoltura ed allevamenti intensivi e cibi ultraprocessati.”
La transizione verso una PAC sostenibile non è d’altra parte urgente solo per garantirci cibo di migliore qualità e minor impatto. Come ha fatto notare Mauro Romanelli di Ecolobby: “La PAC approvata recentemente al Parlamento europeo, ha perduto l’occasione per incrementare il sostegno a quelle forme di agricoltura e allevamento, meno competitivi nell’immediato, ma preziosissimi per la preservazione di varietà più rare, e quindi della biodiversità.
Il tracollo della ricchezza genetica è uno degli effetti meno evidenti e meno immediati per il grande pubblico dell’agricoltura e dell’allevamento intensivi, ma è anche uno dei più drammatici.
Anche su questo il lavoro per mettere una pezza alle brutte scelte che sono state prese dovrà essere duro e intransigente.”
Per questi motivi la senatrice Rossella Muroni si è rivolta con una lettera aperta alla ministra Bellanova, che con i suoi omologhi ha approvato nel Consiglio europeo dei ministri dell’agricoltura un testo peggiorativo della proposta iniziale di riforma: “lo dico sinceramente: grazie di niente! La nuova politica agricola comunitaria delude e preoccupa perché somiglia sempre meno a quella che aveva disegnato la Commissione europea e sposta il baricentro a vantaggio di un modello agricolo intensivo e ad alto impatto ambientale.”
Secondo Alberto Bencistà, presidente di FirenzeBio, la partita non è persa irrimediabilmente “abbiamo un’ultima occasione perché l’approvazione definitiva dipenderà dall’intesa che sarà raggiunta in sede di “trilogo “ ( Commissione, Parlamento, Consiglio ) che si riunirà nelle prossime settimane e che dovrà sentire la pressione delle cittadine e dei cittadini europei affinché sia ritirato il testo approvato dal Parlamento in quanto in aperto conflitto con il New Green Deal : una contraddizione che L’Europa non può permettersi.“
Ecoló si unisce al fronte di chi chiede una PAC diversa. Cosa possiamo fare per far sentire la nostra voce?
In questi giorni è stata pubblicata una lettera, di cui sono primi firmatari Bas Eickhout, vicepresidente della commissione ambiente del Parlamento europeo, e Ska Keller co-portavoce dei Verdi Europei, indirizzata alla presidente della Commissione Von der Leyen che la invita a ritirare la proposta di riforma. “È venuto il momento di ritirare la proposta di riforma della PAC della commissione, debole e datata, e di presentarne una nuova, in linea con il Green Deal europeo”.
Attraverso il portale www.greens-efa.eu/dossier/ritiri-questa-cap/ è possibile scrivere alla Von der Leyen aderendo all’appello lanciato dai Verdi Europei.
Da oggi l’Associazione Ecoló è un’associazione affiliata a Green Italia. Cosa significa questo? Significa che collaboreremo con Green Italia per dare rappresentanza alle istanze ecologiste e verdi sul territorio di Firenze. Significa che ci aggreghiamo ai tantissimi che in Italia si riconoscono nei valori e nell’azione dei Verdi Europei e vogliono costruire, anche nel nostro paese, i presupposti culturali necessari perché la politica metta al centro della propria azione l’urgenza della transizione ecologica. Che va realizzata da subito. Vorremmo ringraziare Annalisa Corrado, Carmine Maturo e tutto l’Ufficio di Presidenza di Green Italia per aver accettato, anche in fase di revisione statutaria, la nostra richiesta di affiliazione.
Qua sotto riportiamo il manifesto di Green Italia!
Manifesto Green Italia
approvato all’Assemblea generale del 14 settembre 2019
C’è bisogno che l’impegno per fermare l’emergenza climatica diventi una priorità reale nella cultura, nella politica, nell’economia e nella società, passando dal mondo dei desideri e dei proclami a quello delle strategie e delle scelte radicali. Questa è una priorità globale, poiché non solo il controllo delle fonti fossili continua ad essere la causa principale di conflitti striscianti o espliciti, ma le migrazioni sono ad oggi l’unica forma di adattamento ai cambiamenti climatici, le cui prime vittime sono i Paesi poveri e i poveri dei Paesi ricchi.
Mai come in questi mesi è risultato evidente quanto la crisi climatica sia divenuta una questione di sicurezza nazionale, con eventi metereologici estremi sempre più intensi e frequenti, che mettono alla prova un territorio già reso fragile da dissesto idrogeologico, cementificazione selvaggia, abusivismo e dalla mancanza di manutenzione di strutture e infrastrutture.
Il collasso climatico provoca già oggi danni economici rilevanti, dalla messa in crisi dell’agricoltura, all’erosione delle coste, dalla scomparsa delle api e la crisi della biodiversità, alle isole di calore nelle grandi città: mettere in campo ogni possibile azione di mitigazione e investire in resilienza e adattamento è l’unica via possibile: decisiva per la salute, la sicurezza, il benessere dell’intera umanità e delle generazioni future.
Un altro problema ambientale ormai fuori controllo nasce dall’uso indiscriminato e crescente di plastica (in particolare di quella mono-uso) e dal diffondersi sempre più devastante dell’inquinamento da microplastiche, che stanno mettendo in crisi alla radice il delicato e prezioso equilibrio di mari, fiumi e oceani, che, in assenza di straordinarie inversioni di rotta, si vedranno popolati da più plastica che materia vivente entro il 2050.
Fenomeni, questi, che, combinati ai rischi di una prossima crescita della popolazione mondiale oltre i 10 miliardi di persone, mettono davvero a repentaglio la persistenza, sul Pianeta Terra, delle condizioni che hanno permesso al genere umano di espandersi.
Di fronte a queste crisi serissime, l’Italia deve cambiare tanto la strada quanto il passo rispetto alla mancanza di coraggio e visione manifestata dagli ultimi governi (in quasi totale fossile continuità); occorre tagliare completamente i ponti con l’antistorico immobilismo, con i molteplici passi falsi di un passato anche recente che continua a vedere l’ecologia come uno dei vari temi da trattare (spesso l’ultimo) invece che la chiave strategica di interpretazione della realtà e di ispirazione dell’azione.
Non possiamo più permetterci piccoli passi o un governo che funzioni “a canne d’organo”: è assolutamente necessario che venga coordinata un’azione sinergica almeno tra Ministeri dell’ambiente, dello sviluppo economico, dei trasporti e delle infrastrutture, dell’agricoltura, dell’istruzione, dell’economia, della salute, attraverso un vero e proprio gruppo di lavoro incardinato nella Presidenza del consiglio.
Il primo atto dovrà essere la scrittura di un PNIEC (Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima) che superi l’insufficienza grave dei precedenti documenti strategici e, finalmente, costituisca tanto uno strumento operativo, quanto il primo atto con cui il nostro governo s’impegni con forza, in Europa e in tutte le sedi internazionali a partire dalla Conferenza sul Clima del prossimo dicembre in Cile, per l’adozione di obiettivi vincolanti che consentano almeno di raggiungere gli obiettivi fissati nel 2015 a Parigi.
Vogliamo che si crei lavoro e si esca da questa lunga e profonda crisi economica, finanziaria e sociale puntando sulla green economy e sull’economia circolare: un’economia basata sul rispetto dei territori, delle persone, siano lavoratori, lavoratrici o consumatori e su un uso efficiente, etico e ecologicamente sostenibile dell’ambiente, delle risorse naturali e dei beni comuni. Possiamo dire basta all’economia “grigia” e iniqua, che da una parte produce inquinamento, malattie, disastri climatici, dall’altra alimenta le diseguaglianze sociali e fa crescere la povertà.
Migliaia di imprese, anche in Italia, hanno già imboccato la strada della green economy e dell’economia circolare: sono i veri “campioni” della nostra economia, imprese visionarie ed eccellenti che, grazie alle loro scelte consolidate ispirate alla responsabilità sociale ed ambientale d’impresa, si affermano nella competizione globale e resistono meglio alla crisi economica, ma che hanno bisogno di una politica e di politiche più moderne e più degne.
Occorre favorire la nascita e lo sviluppo di reti per unire le imprese in grandi progetti “green”.
Vogliamo che l’Italia difenda la sua Natura, tra le più ricche di biodiversità dell’intero Pianeta, e che lo faccia restituendo dignità, risorse umane e economiche, alle strutture e agli Enti deputati a farlo (Riserve protette, Parchi Regionali e Nazionali etc.). C’è bisogno che le innumerevoli aree protette, tra cui i SIC e le ZPS, siano tutelate da misure normative efficaci e con fondi che ne possano garantire la gestione, affidata a figure competenti e non a portaborse politici. Questo nuovo approccio può comportare anche possibilità di lavoro per i numerosi giovani che, anche come volontariato, dedicano il loro tempo alla difesa della Natura
Possiamo pretendere un’Europa democratica, solidale, capace di politiche economiche e finanziarie, sociali e ambientali che rispondano all’interesse dei cittadini e non come oggi alla convenienza delle grandi banche o di ristretti cartelli di grandi imprese dall’energia fossile alla siderurgia all’automobile. Per costruire un’Europa così occorre trasmettere una più forte consapevolezza del nostro destino comune di europei, ottenere l’abbandono delle fallimentari politiche di austerità fine a se stessa seguite in questi anni e un forte rilancio dell’impegno per un’Europa federalista. L’Italia deve impegnarsi con più forza per un’Unione Europea luogo e strumento di diritti e di cittadinanza attiva, che cancelli ogni spazio per il razzismo e l’autoritarismo. Ci sentiamo italiani e ci sentiamo cittadini europei, crediamo che solo unendo le loro forze e le loro stesse “diversità” i popoli europei troveranno la via di un futuro desiderabile.
Vogliamo che l’Italia e l’Europa si facciano protagoniste di un impegno rinnovato e concreto per la pace e il disarmo. Nel mondo attuale continuano a proliferare guerre tra Stati e all’interno degli Stati, e ad imperversare un commercio più o meno legale di armamenti che vede i Paesi più ricchi Come padroni di un business orrendo giocato al di fuori di ogni regola di controllo democratico. L’Italia come tutti i Paesi europei deve ridurre le sue spese militari, cominciando dal taglio di investimenti insensati come quello sui bombardieri F35.
Dobbiamo impedire ogni tentativo di appropriazione privata e di mercificazione dei beni comuni sia materiali che immateriali: dall’acqua al suolo, dal sistema scolastico a quello sanitario, dalla difesa dei cittadini contro l’inquinamento all’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. In particolare la salute dei cittadini è un bene assoluto e indisponibile: un bene minacciato troppo spesso da chi inquina e avvelena impunemente i territori – dall’Eternit all’Ilva – un bene la cui tutela va sempre anteposta a interessi e convenienze privati ed al ricatto occupazionale.
Possiamo e dobbiamo pretendere un commercio internazionale giusto e solidale, fondato sui vincoli di promozione e tutela dei diritti umani definiti dal diritto internazionale; attento ai diritti delle popolazioni e dell’ambiente, alla sostenibilità, al principio di precauzione e di salvaguardia della salute umana ed animale. Serve insomma affermare criteri ad approcci di relazioni commerciali ben diversi, da quelli asimmetricamente negoziati oggi, ad esempio nel caso di accordi bilaterali come il Ttip, il Ceta, il Mercosur.
Vogliamo legalità, a cominciare dalla tutela dell’ambiente: occorre pretendere che il quadro normativo si completi e vigilare perché le norme siano applicate con rigore e completezza, così da sconfiggere le ecomafie e da impedire nuove Ilva e nuove “terre dei fuochi”.
Vogliamo favorire e accelerare la rivoluzione energetica già in atto: in Italia entro vent’anni la gran parte del fabbisogno energetico deve essere soddisfatta con le fonti rinnovabili, ed è altrettanto urgente investire nel miglioramento degli standard di efficienza energetica a cominciare dall’energia consumata per usi domestici. Per abbattere l’inquinamento dell’aria e per fermare i cambiamenti climatici bisogna uscire al più presto dall’era del petrolio e dei fossili, e per l’Italia – che importa gran parte del petrolio, del carbone, del gas che utilizza – questa è anche la via più rapida e virtuosa per superare la condizione attuale di dipendenza energetica. Possiamo e dobbiamo imparare a dire sì alle politiche industriali necessarie per portare a compimento la transizione, impegnandoci anche per un rapido sviluppo di un modello diffuso e partecipato di produzione energetica a partire dalle “comunità energetiche” e vigilando perché tali politiche vengano messe in atto sempre tutelando le fasce più fragili e svantaggiate della popolazione, a partire dalle lavoratrici e dai lavoratori dei settori che dovranno trasformarsi radicalmente, e orientate all’obiettivo di combattere le diseguaglianze e aggredire il fenomeno della povertà energetica.
Dobbiamo, con la stessa fermezza, dire no a tutto ciò che ricalchi i molteplici tentativi di garantire “via libera” generalizzati a scelte profondamente “anti-moderne”, che rappresentano una grave minaccia per l’ambiente e che, di fatto, rallenterebbero invece di accelerare la transizione verso un sistema energetico “fossil-free”: come trivellazioni petrolifere in mare e a terra, nuovi inceneritori, grandi opere inutili.
Vogliamo promuovere l’innovazione e l’industria che scommettono sull’ambiente, e invece smetterla di sovvenzionare “a perdere” attività decotte e inquinanti. Basta con politiche che per tutelare ristretti e ormai anacronistici poteri economici – dalle energie fossili, alla rendita immobiliare, a tutti i settori industriali più retrivi e anti-ecologici che sacrificano sistematicamente l’interesse generale.
Vogliamo un’Italia sempre più “digitale”. Garantire a tutti i cittadini l’accesso alle più avanzate tecnologie digitali costituisce un fattore decisivo di equità sociale, di trasparenza amministrativa e lotta alla corruzione, di rafforzamento di tutti i presìdi di cittadinanza attiva impegnati in difesa dei beni comuni. Occorre inoltre limitare e rendere più trasparente l’attuale strapotere delle multinazionali digitali.
Chiediamo un uso ecologico della finanza pubblica, la lotta alle speculazioni finanziarie e alle varie forme di elusione fiscale, in Italia e in Europa.
La giustizia fiscale è condizione indispensabile per canalizzare i fondi che servono alla giustizia climatica e sociale. Le tre giustizie sono inscindibili.
La transizione ecologica non può prescindere da una finanza al servizio della società. Il denaro può essere uno straordinario strumento di lotta alle disuguaglianze
che si stratificano a causa di modelli economici del tutto fallimentari Vogliamo un sistema bancario trasparente e non speculativo,
attivo al sostegno della riqualificazione dell’economia reale in senso ecologista. Vogliamo nuovi meccanismi di regolamentazione della finanza privata, contro i paradisi fiscali. Chiediamo che liquidità e credito siano considerati “beni comuni”.
Vogliamo azzerare il consumo di suolo, che distrugge la natura e alimenta la corruzione, e avviare un grande programma di rigenerazione urbana e riqualificazione del patrimonio edilizio esistente nel segno dell’efficienza energetica, della sicurezza antisismica, di una migliore qualità urbanistica e architettonica, nell’ottica generale del necessario adattamento ai cambiamenti climatici. Occorre rafforzare le politiche di sostegno alle aree protette ed alle reti naturali, presidio insostituibile di salvaguardia degli equilibri ecologici. Serve una politica nazionale per le città, fondata su obiettivi concreti e ravvicinati di miglioramento della qualità della vita e della qualità dei servizi per tutti gli italiani – oggi una larga maggioranza – che vivono nei centri urbani. Occorre mettere al centro dell’innovazione urbana e territoriale la riqualificazione ambientale, sociale e culturale delle periferie.
Vogliamo che l’Italia “faccia l’Italia”, cioè valorizzi le sue vocazioni, i suoi talenti, dalla bellezza del paesaggio alla ricchezza culturale delle città alla creatività imprenditoriale che ha reso famoso in ogni angolo del mondo il “made-in-Italy. All’Italia serve una nuova visione, una direzione di marcia che ci guidi e possa darci un ruolo da protagonisti nel mondo sempre più “largo” che sta prendendo forma. La bussola di questo necessario e diverso cammino è nelle nostre ricchezze più grandi, quelle scritte nell’articolo 9 della Costituzione: la cultura, l’educazione, la ricerca, il paesaggio. Finora le abbiamo tutte maltrattate, questa è la radice più profonda del declino italiano. Vogliamo che al patrimonio culturale sia riconosciuta piena valenza didattica, quale supporto prezioso di crescita civile per l’intera collettività.
Vogliamo che la scuola pubblica diventi il centro pulsante della conversione ecologica in Italia e torni a svolgere la funzione di emancipazione delle persone e di potente ascensore sociale, come avvenuto nel secolo scorso. Strettamente collegate alla valorizzazione delle vocazioni e dei talenti sono, infatti, le questioni centrali e strategiche della riuscita scolastica e della corrispondente lotta all’abbandono scolastico. Il fenomeno dell’analfabetismo di ritorno e dell’insoddisfacente raggiungimento di standard educativi adeguati si lega strettamente alla regressione culturale in atto sul fronte dell’accoglienza e della tolleranza sociale, con gravi effetti sulla partecipazione democratica nel Paese.
La scuola va posta al centro delle strategie politiche nazionali: è qui la vera opportunità per il Paese di coniugare innalzamento degli standard educativi e sensibilità operative e attive.
Vogliamo promuovere la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica in campo ambientale, in primo luogo per accompagnare il tessuto imprenditoriale alla riconversione produttiva in senso ecosostenibile, con una visione di medio-lungo periodo. Ciò può essere perseguito con un’azione mirata, e possibilmente coordinata, in primo luogo dei Ministeri dello sviluppo economico e dell’istruzione/università/ricerca, per gestire con efficacia i fondi esistenti per la ricerca finalizzata e individuando obiettivi e strumenti nella prossima elaborazione del Programma Nazionale della Ricerca. Va sostenuta anche in questo modo l’industria che ha scelto con convinzione e concretezza (no al “green washing”!) la via della sostenibilità ambientale. Basta con politiche che per tutelare ristretti e ormai anacronistici poteri economici – dalle energie fossili, alla rendita immobiliare, a tutti i settori industriali più retrivi e antiecologici – che sacrificano sistematicamente l’interesse generale.
Possiamo e dobbiamo chiudere definitivamente la porta agli Ogm, combattere l’abuso di pesticidi (a partire dal bando del glifosato) e contrastare le pratiche intensive di agricoltura e allevamento che impoveriscono e ammalano i territori e i consumatori, riducono la biodiversità e non tengono minimamente conto del benessere animale, producendo emissioni di C02. Dobbiamo, invece, rafforzare la nostra vocazione a un’agricoltura e un’agro-industria di qualità e generativa, legata alle tradizioni ed ai saperi del passato, ma illuminata da innovazione buona e ispirata all’economia circolare, che non solo produca buoni cibi ma salvaguardi il territorio.
Vogliamo che si investa molto di più per mettere in sicurezza il nostro territorio, reso fragilissimo da decenni di abusivismo edilizio impunito e di cementificazione senza regole e senza limiti, e molto di meno finanziare grandi opere inutili per la collettività, come il mega-tunnel in Val di Susa.
Vogliamo una forte accelerazione nella bonifica dei siti contaminati e spesso resi invivibili da decenni di inquinamento industriale impunito, cominciando dalla creazione di un fondo nazionale per le bonifiche finanziato da tutte le imprese – chimiche, petrolchimiche, siderurgiche – che operano in settori industriali dall’elevato impatto ambientale. Dobbiamo pretendere un cambio di passo nella gestione della drammatica questione della capillare diffusione di manufatti in amianto nel nostro Paese, considerandone anche la crescente pericolosità in relazione alla prolungata esposizione agli agenti atmosferici e/o all’invecchiamento e obsolescenza delle strutture.
Possiamo davvero rivoluzionare il modo di gestire i rifiuti per avvicinare concretamente il traguardo dei “rifiuti-zero”: dobbiamo chiarire in ogni modo il quadro normativo per rendere possibili le molte pratiche industriali già disponibili per il recupero e la trasformazione di scarti in materie prime seconde, investire in innovazione e ricerca mirate al risparmio di materie prime e il riutilizzo di ogni materiale di scarto, massimizzare la raccolta differenziata e il recupero di materia, perseguire come finora non è stato fatto la riduzione dei rifiuti alla fonte a cominciare dagli imballaggi, a partire dalla plastica mono-uso, condurre una vera guerra contro le ecomafie dei rifiuti, eliminare definitivamente ogni incentivo per l’incenerimento.
Vogliamo treni più moderni e più efficienti per i pendolari, per i lunghi viaggi, per le merci; più tram, autobus e metropolitane, servizi innovativi in “sharing”, incentivazione alla mobilità elettrica nel trasporto pubblico e privato, forte sostegno all’uso della bicicletta per una mobilità urbana sostenibile; molti meno miliardi buttati via per costruire autostrade inutili e favorire il trasporto su gomma sprecando energia e aumentando l’inquinamento. Per queste ragioni occorre superare la “Legge Obiettivo”, che privilegia le grandi opere e in particolare le grandi opere autostradali, e cancellare le norme del decreto “Sblocca-Italia” che in palese violazione delle normative europee consentono proroghe delle concessioni autostradali finalizzate alla realizzazione di nuove autostrade. Allo stesso modo va radicalmente rivisto il decreto “sblocca-cantieri” del Governo Lega-Cinquestelle, che incrementa opacità, regole allentate, grande opere inutili, trattativa privata nel settore degli investimenti e delle opere pubbliche. Per scegliere le opere davvero utili all’Italia e agli italiani serve una politica dei trasporti sostenibile che fissi obiettivi strategici – riduzione del peso oggi preponderante della mobilità su gomma, riduzione dell’inquinamento, stop al consumo di suolo, destinazione di almeno la metà della spesa per investimenti disponibile alla mobilità urbana – e da questi faccia derivare le decisioni sulle singole opere. Le politiche e i singoli interventi per una mobilità sostenibile devono essere sempre più accessibili alle fasce più fragili della popolazione e alle periferie urbane e territoriali.
Vogliamo promuovere gli stili di vita, di consumo e di alimentazione che mettano al centro la salute delle persone, i criteri della qualità ecologica, la lotta al collasso climatico e la responsabilità sociale, a partire da preziose esperienze di cittadinanza attiva diffusa come i “gruppi di acquisto solidale” e le forme di commercio equo e solidale. Ci sentiamo inoltre impegnati per accrescere nella società e nell’economia l’attenzione verso i temi del benessere e della dignità dei diritti degli animali. L’Italia è il solo Paese in Europa ad avere politiche sanitarie in grado di abbracciare salute umana ed animale: un patrimonio di cultura politica da valorizzare al massimo, soprattutto nel senso delle politiche di prevenzione, che devono essere finanziate con ben maggiore convinzione e coraggio, in una ottica di salute pubblica integrale.
Vogliamo una politica dell’immigrazione aperta, inclusiva, solidale, che dia priorità ad una autentica integrazione dei cittadini migranti che arrivano nel nostro Paese in fuga da guerre e violenze ovvero alla ricerca di una vita di dignità ed autodeterminazione. La loro presenza in Italia è stimolo alla costruzione di un Paese rinnovato, plurale, diverso, dunque, di una società più capace ad affrontare le complessità del tempo presente. Occorre pertanto ribaltare la narrazione securitaria in merito alla presenza delle persone migranti nel nostro Paese. Dobbiamo pretendere una profonda revisione del Trattato di Dublino, in relazione all’accoglienza dei migranti e dei richiedenti asilo, nell’ottica solidale già tracciata dal Parlamento Europeo, ma mai portata alla discussione in Consiglio, nella consapevolezza che le migrazioni sono per l’Europa una grande opportunità di innovazione sociale e culturale. Occorre assolutamente mettere fine alla stagione delle morti nel Mediterraneo, della repressione dei flussi migratori e del finanziamento di finte guardie costiere e dei centri di detenzione e tortura in Libia, luoghi di terrore e di morte di cui i Paesi Europei si sono resi complici. Dobbiamo esigere la creazione di canali di accesso regolato e sicuro per chi fugge da povertà endemica, guerre, disastri ambientali e climatici, distruzione, desertificazione, appropriazioni indebite delle terre, crisi climatiche (spesso “effetti collaterali” del modello di sviluppo occidentale) convenzioni sociali oppressive o violenza politica.
E’ urgente e indispensabile, quindi, istituire corridoi umanitari europei per evacuare immediatamente la Libia, che è paese in guerra civile e NON sicuro, come dimostrato da tutte le organizzazioni internazionali.
Occorre una riforma organica del modello legislativo in materia di immigrazione e ciò comporta l’abrogazione non solo della Legge Bossi-Fini (che ha modificato in chiave restrittiva e proibizionistica il Testo Unico) ma anche del decreto Minniti-Orlando e dei due decreti Salvini.
Le regole che abbiamo oggi, oltre ad essere disumane e ciniche, funzionano male e costano molto.
E’ necessario uscire dalla logica emergenziale con cui si continua ad affrontare il tema delle migrazioni. In questo senso l’Italia si dovrebbe prendere la responsabilità di normare il diritto alla mobilità a monte, con una disciplinata erogazione di visti per i molti e diversi motivi per cui le persone arrivano. Il 98,2 % delle richieste di visto dai paesi africani per motivi di studio viene respinto; eppure l’Italia è il paese che ha il più basso livello di internazionalizzazione delle proprie università.
Sarebbe necessaria una sanatoria per le persone che sono già in Italia e servirebbe un serio programma di integrazione, tale da permettere ai migranti che adesso girano per le strade delle nostre città di poter colmare il gap di 1.250.000 posti di lavoro che, in Italia, restano inevasi, visto che, a quanto consta, non interessano gli italiani.
Questi i criteri a cui ispirare le politiche pubbliche in questo campo: favorire la regolarizzazione di chi già è in territorio italiano, regolamentare l’ingresso dei cittadini extracomunitari non solo attraverso la previsione, nell’immediato, di corridoi umanitari, ma anche mediante accordi multilaterali con i Paesi di Origine di maggior flusso verso l’Italia; superare i numerosi profili di illegittimità delle norme vigenti (operazione di per se doverosa), anche per dare ossigeno alla nostra asfissia demografica che è un fardello per la nostra economia e per la sostenibilità nel tempo del nostro welfare; introdurre il visto d’ingresso per ricerca di lavoro (per superare l’attuale meccanismo impraticabile, inefficace e criminogeno dell’incontro a distanza tra domanda e offerta di lavoro); introdurre un meccanismo di regolarizzazione permanente per chi è già in Italia; abrogare il reato di clandestinità; istituire un’autorità indipendente per la tutela dei diritti umani e contro le discriminazioni; riconoscere il diritto di voto nelle elezioni amministrative agli stranieri regolarmente soggiornanti; riformare la legge sulla cittadinanza e introdurre lo ius soli: perché i nuovi italiani, bambini e giovani di origine straniera nati in Italia non devono più essere trattati come cittadini di serie b ma devono sentirsi protagonisti di una società multiculturale e plurale.
Vogliamo combattere senza tregua ogni forma di xenofobia, di razzismo, di criminalizzazione indiscriminata tanto dei fenomeni di immigrazione e dei migranti, quanto delle ong e delle associazioni che si occupano di salvare vite in mare, sostituendosi all’assordante assenza dei Governi europei. L’Italia, Paese con una storia lunga e dolorosa di emigrazione alle spalle, deve dare piena accoglienza a chi fugge dalle guerre e dalle persecuzioni, come previsto dall’articolo 10 della Costituziuone, e deve fare molto di più per i diritti e la dignità di milioni di cittadini e cittadine immigrati che vivono e lavorano da anni nel nostro Paese, ma sono tuttora esclusi da molte tutele sociali.
Vogliamo un Paese che riconosca pienamente il ruolo che le donne possono e devono giocare nella società, per fare dell’Italia un Paese moderno. Chiediamo una vera parità, per promuovere e sostenere un reale protagonismo delle donne in ogni sede pubblica, aziendale, politica, istituzionale.
Sono queste le condizione perché venga riconosciuta alle donne parità di accesso al lavoro e di trattamento retributivo. Si tratta di una priorità assoluta nel necessario cammino di riforma e aggiornamento del nostro welfare. Occorre dare molto più spazio e visibilità alla lotta contro tutte le forme di violenza sulle donne, dalla terribile emergenza dei femminicidi alle forme di pressione e discriminazione più striscianti.
Possiamo e dobbiamo pretendere uno stato sociale più equo e moderno: che dia davvero a tutti i cittadini pari opportunità e diritti, che perfezioni e definisca in maniera più efficace le forme tradizionali di tutela sociale come il diritto alla salute, attraverso un servizio sanitario pubblico universalista e forme recenti ormai irrinunciabili come il reddito di cittadinanza, che sostenga adeguatamente le persone e le famiglie – sempre più numerose – che si trovano sotto la soglia di povertà.
Vogliamo per tutti diritti essenziali e irrinunciabili: particolare importanza devono avere i diritti delle comunità LGBTQ+: l’omo-transfobia che discrimina ed emargina le persone omosessuali è un crimine; ogni coppia, eterosessuale o no, ha diritto ad essere riconosciuta dallo Stato come famiglia.
Vogliamo, ancora, uno stato sociale che metta al centro delle sue politiche i giovani, che li aiuti a costruire il loro futuro incoraggiandone l’ambizione, il merito, l’intraprendenza.
Vogliamo uno Stato, una pubblica amministrazione molto più amichevoli verso le persone, con regole e norme tanto severe nel difendere l’interesse pubblico e il principio di legalità quanto semplici e chiare nell’applicazione.
Vogliamo ecologia nella politica e nello Stato. Nessuna vera ripresa sociale, economica, civile sarà possibile in Italia senza “disinquinare” la politica e la pubblica amministrazione, senza ripulirle da corruzioni, abusi di potere, conflitti d’interesse, illegalità favorite o tollerate, rapporti opachi e spesso nascosti tra decisori pubblici e interessi economici. Questo cambiamento, condizione necessaria perché l’Italia si rimetta in cammino, passa obbligatoriamente per un forte rinnovamento, culturale prima ancora che generazionale, delle classi dirigenti.
Vogliamo regole che garantiscano di più e meglio la partecipazione dei cittadini e cittadine, in particolare delle comunità territoriali alle scelte concrete in ambito sociale e ambientale. Questo è un passaggio indispensabile per dare vita alla prospettiva del “green new deal” e anche per contrastare “sul campo” quelle forme di “Nimby” che ostacolano gli interventi e le opere necessari alla transizione verso un’economia sostenibile e circolare.
L’emergere di una pandemia che colpisce le vie respiratorie comporta una significativa richiesta di maschere protettive. I numeri attuali, dovuti all’emergenza sanitaria 2020, dicono che con l’inizio dell’anno scolastico l’utilizzo di mascherine monouso aumenterà fino a 10 milioni al giorno solo per la scuola e le attività collegate, si tratta quindi di 2 miliardi di unità ogni anno!
Sono numeri impressionanti, sia per la produzione di mascherine necessarie, sia per il loro impatto a fine vita. Sono classificate infatti come rifiuto indifferenziato che andrà in discarica o sarà incenerito. Ma molte mascherine saranno semplicemente abbandonate nell’ambiente: incrociando i dati dell’Ispra e diffusi da Legambiente si stima addirittura che in Italia vengano gettate a terra circa 330mila mascherine al giorno.
Da molte parti si levano proteste e richieste di poter utilizzare mascherine lavabili e riutilizzabili invece che usa e getta (Zero Waste Italy e altre associazioni invitano alla mobilitazione il prossimo 30 e 31 ottobre).
La situazione è sicuramente non semplice, ma riteniamo che la politica davanti a questi numeri debba farsi carico, sulla base delle evidenze scientifiche, di valutare le soluzione migliori su un piano sanitario senza trascurare gli aspetti ambientali devastanti che possono comportare.
Perché dobbiamo utilizzare mascherine usa-e-getta?
La mascherina è un presidio fondamentale. È assodata l’importanza di utilizzare mascherine di contenimento per ridurre la probabilità di propagazione dell’infezione da SARS-CoV-2, soprattutto in ambienti chiusi e dove non è possibile mantenere distanze fisiche adeguate. Ciò vale anche per le scuole e, secondo le disposizioni ministeriali vige quindi l’obbligo di mascherina dalle elementari in su, con indirizzo da parte del Comitato Tecnico Scientifico verso l’utilizzo di maschere monouso.
Le mascherine accettate sono quindi quelle chirurgiche. Sono pensate per essere utilizzate in ambiente ospedaliero e in luoghi ove si presti assistenza a pazienti.
Le mascherine chirurgiche devono essere prodotte nel rispetto della norma tecnica UNI EN 14683:2019, che prevede caratteristiche e metodi di prova; possono essere realizzate con uno o più strati sovrapposti di tessuto-non-tessuto (TNT) sviluppati con varie tecnologie. I materiali sono principalmente polipropilene e poliestere, anche se non si esclude la possibilità di utilizzare altri materiali polimerici.
Perché non usiamo le mascherine “di comunità”? Molte persone hanno deciso di utilizzare maschere di stoffa durante la pandemia. Tuttavia, a livello scientifico c’è una conoscenza limitata sulle prestazioni dei tessuti comunemente disponibili e utilizzati per le maschere di stoffa, chiamate anche di comunità.
La valutazione dell’efficacia di una mascherina dipende dalle dimensioni del particolato aerosol nell’intervallo da 10 nm a 10 μm, particolarmente rilevante per trasmissione del virus. L’articolo “Aerosol Filtration Efficiency of Common Fabrics Used in Respiratory Cloth Masks” del U.S. Department of Energy ha effettuato uno studio su diversi tessuti comuni e facilmente disponibili tra cui cotone, seta, chiffon, flanella, vari sintetici e la loro combinazione. I risultati indicano che le efficienze di filtrazione variano dal 5% all’80% per particelle minori di 300nm, e dal 5% al 95% per particelle maggiori, queste però migliorano quando sono stati utilizzati più livelli e quando si utilizza una combinazione specifica di diversi tessuti. L’efficienza di filtrazione degli ibridi (come cotone-seta, cotone-chiffon, cotone-flanella) è risultata essere >80%, per particelle <300 nm e >90%, per particelle >300 nm. Si ipotizza che le prestazioni migliorate degli ibridi siano probabilmente dovute all’effetto combinato di filtrazione meccanica ed elettrostatica. Il cotone, materiale più utilizzato per le maschere di stoffa, offre prestazioni migliori a densità di trama più elevate (ad esempio, numero di fili) e può fare una differenza significativa nell’efficienza di filtrazione.
A giudicare da questi risultati, sembra quindi possibile stabilire differenti combinazioni in grado di fornire una protezione significativa contro la trasmissione anche utilizzando mascherine lavabili di stoffa. Allo stesso tempo, occorre chiedersi quale sia la capacità di mantenere efficacia in funzione del numero e modalità di lavaggio.
Manca quindi uno standard per le mascherine riutilizzabili? A dire il vero non sembra essere questo il problema. Se infatti le combinazioni di strati in tessuto possono essere diverse e di difficile valutazione, così come il loro lavaggio, sono già presenti sul mercato mascherine riutilizzabili in stoffa certificate secondo lo stesso standard UNI EN 14683:2019 valido per le mascherine chirurgiche. Fino ad un certo numero di lavaggi la loro capacità di filtrazione è quindi identica a quella delle mascherine usa-e-getta.
Il limite potrebbe essere allora la capacità produttiva? Considerando i numeri di mascherine in gioco potremmo pensare che la capacità produttiva per mascherine riutilizzabili, certificate secondo lo standard richiesto, non sia attualmente sufficiente a coprire la domanda. Immaginiamo che per garantire la certificabilità del prodotto sia necessario un certo sforzo da parte delle aziende, ma questo ci sembra un limite superabile con una buona capacità di programmazione e coinvolgimento del mondo produttivo da parte della politica.
Il problema del controllo. A nostro avviso il limite principale è nella capacità di controllo. Difatti, avere uno standard che stabilisca, non solo le caratteristiche tecniche, ma anche frequenza e modalità di lavaggio, necessita anche che questo sia rispettato, ma a chi spetta controllare? Non possiamo pensare che siano le scuole, così come le aziende, già oberate da moltissime incombenze anti-COVID, a dover fare anche questi controlli. Ma è importante chiarire che questa criticità vale per le mascherine lavabili ma allo stesso modo per quelle usa-e-getta: chi garantisce che il bambino a scuola o il dipendente non stia usando la stessa mascherina per troppo tempo? Per questo motivo non crediamo che questo argomento possa essere quello decisivo.
Qual è l’impatto ambientale delle mascherine lavabili? L’impatto ecologico delle mascherine lavabili non è zero. Anche se ci è molto caro il concetto di riutilizzo sarà necessaria un’attenta valutazione del materiale utlizzato e del numero di lavaggi ammissibili. Non conosciamo studi specifici sulle mascherine ma, come dimostrato per le borse utilizzate per lo shopping da uno studio dell’Agenzia del Regno Unito per l’Ambiente del 2011, l’impatto di un oggetto riutilizzabile può essere uguale o superiore a quello di uno usa-e-getta. Lo studio dell’Agenzia britannica confrontò il costo in termini di emissioni di CO2eq di vari tipi di sacchetti comunemente usati per la spesa mostrando che, affinché fosse minore l’impatto di una busta riutilizzabile in polipropilene riciclato rispetto a un comune sacchetto di plastica usa-e-getta, era necessario che venisse utilizzata almeno 11 volte. Ancora superiore l’impatto delle shopper in cotone per le quali servono oltre 100 utilizzi perché nel ciclo di vita producano minori emissioni di un sacchetto di plastica.
Basta usa-e-getta quindi? Il problema dei miliardi di mascherine che produrremo nei prossimi mesi non si risolve semplicemente permettendo l’utilizzo di mascherine lavabili. La risposta a situazioni di questo tipo non può venire che da un insieme di soluzioni e, soprattutto, da una serie di azioni che riducano il rischio di contagio ma limitino al contempo il più possibile l’impatto sull’ambiente.
Azioni che comportano condivisione, responsabilizzazione, educazione e formazione. Rafforzare il patto educativo di corresponsabilità scuola-famiglia, informare sull’impatto di ciò che si utilizza, coinvolgere maggiormente il dipendente in azienda nella valutazione delle soluzioni, fornire istruzioni precise sulle modalità di produzione, recupero e riutilizzo delle mascherine. Questo insieme di strategie sono il primo passo per poter gestire soluzioni che integrino la tutela della salute e il rispetto dell’ambiente.
Foto di copertina: www.flickr.com/photos/olgierd-cc/
Enrico Buonincontro è un animatore di comunità, a iniziare da quella degli studenti della sede fiorentina della New York University, dove lavora, fino ad arrivare al gruppo Parco Stibbert degli Angeli del Bello che ha contribuito a fondare. Sabato 10 ottobre ci si può unire a lui e a tanti altri per una giornata nei boschi del Sestaione e della Val di Luce per la prima edizione di “Thrashed Abetone”.
Ecoló: Ciao Enrico, ci racconti cos’è Thrashed Abetone?
Enrico Buonincontro: Thrashed Abetone è una giornata di volontariato aperta a tutti! L’evento prevede la raccolta di piccoli rifiuti abbandonati dai turisti lungo i sentieri di Abetone, della Val Sestaione e della Val di Luce durante il periodo estivo.
Thrashed Abetone sarà organizzato in collaborazione con Thrashed Dolomites che si è tenuto per la prima volta quest anno in Val di Fassa su iniziativa di un gruppo di giovani amanti della montagna che hanno deciso di dare un segnale importante per la difesa dell’ambiente. L’obiettivo è sensibilizzare le persone e creare in tutta Italia una rete di cittadini responsabili, soprattutto giovani. È un progetto che vuole restituire la speranza in un momento così drammatico come quello che stiamo affrontando; è un progetto nato dai giovani ed è anzitutto per i giovani, che saranno il futuro dell’Italia e delle nostre montagne.
Ecoló: Abbiamo letto che i promotori di Thrashed Dolomites in agosto hanno raccolto 600 litri di immondizia intorno al Sella. Cosa ti aspetti per sabato?
EB: L’importante non è quanto raccoglieremo, ma il fatto che la nostra comunità e tante altre persone che amano la montagna si ritroveranno insieme con lo stesso obiettivo: dare un segnale forte in difesa dell’ambiente. Il concetto fondamentale non è raccogliere, ma sensibilizzare.
Ecoló: La giornata mette insieme volontariato ed escursionismo come si riescono a tenere insieme questi due aspetti?
EB: Credo che sia del tutto naturale. Chi ama veramente la montagna non può tollerare che l’ambiente naturale sia trattato senza rispetto. Il desiderio di fare qualcosa nasce spontaneo. Il merito di Thrashed Abetone è di dare voce agli amanti della montagna e di fornire loro gli strumenti per entrare in azione!
Ecoló: Come per gli Angeli del bello a Firenze qualcuno storce il naso davanti a queste iniziative. Una critica che si sente è che in questo modo si deresponsabilizzano le istituzioni che sarebbero preposte a svolgere questi servizi. Cosa rispondente a questa critica?
EB: Capisco il punto di vista di chi avanza simili obiezioni, ma vorrei dimostrare che si realizza proprio l’opposto! Anzitutto, tutti noi, come cittadini, abbiamo una responsabilità nei confronti dell’ambiente e dei beni comuni in generale. Durante tutti questi anni, ho osservato che grazie a iniziative come Thrashed Dolomites (e Thrashed Abetone) si responsabilizzano sia le istituzioni, che i cittadini. Il pubblico non viene sostituito dal privato. L’impegno dei cittadini si accompagna alla volontà di collaborare con le istituzioni e di richiamarle ai propri doveri: i cittadini diventano soggetti partecipi e propositivi, in grado di offrire alle istituzioni conoscenze, risorse e soluzioni; le istituzioni trovano così, nei cittadini, alleati disposti a collaborare per la cura dei beni comuni.
Ecoló: La politica parla spesso della costa toscana e delle zone agricole, la nostra montagna invece rimane il più delle volte tagliata fuori dai progetti di sviluppo regionali. Qual è lo stato di salute del nostro Appennino?
EB: L’Appennino rappresenta un patrimonio inestimabile dal punto di vista ambientale, culturale e sociale. La nostra montagna ha bisogno di progetti concreti, in grado di esprimere una visione di lungo periodo. Non mi riferisco solo alla carenza cronica dei servizi essenziali (viabilità, trasporti e assistenza sanitaria su tutti), ma anche e soprattutto a progetti di sviluppo capaci di generare opportunità e posti di lavoro. Il tutto, naturalmente, all’insegna della sostenibilità e del rispetto dell’ambiente. Ci vogliono amministratori capaci di leggere la complessità della realtà attuale e di tradurla in forme di sviluppo concrete e sostenibili.
Anche i cittadini, però, devono dare il loro contributo. Per questo, un progetto come Thrashed Abetone può dare impulso a energie positive e aiutare i cittadini della montagna a riscoprire uno spirito di coesione.
Ecoló: Noi siamo convinti che la montagna toscana dovrebbe puntare su un futuro più sostenibile e non su nuovi impianti di risalita come quello progettato fra la Doganaccia e lo Scaffaiolo. Di cosa ha bisogno secondo te la Montagna Pistoiese oggi?
EB: Quest’estate ho iniziato un viaggio a piedi lungo i sentieri della Montagna Pistoiese. Mi sono spinto fino a Pàvana, la frazione di Sambuca Pistoiese dove vive Francesco Guccini. Ho deciso di fare questo viaggio per scoprire in modo autentico il territorio. Camminare mi ha permesso di entrare in contatto con le persone e di visitare luoghi che non avrei altrimenti scoperto. Uno dei percorsi più belli – e che mi sento di consigliare a tutti – è il Cammino di San Bartolomeo, una via pedonale che unisce Fiumalbo a Pistoia in cinque tappe. La Montagna Pistoiese è il crocevia di numerosi cammini e percorsi di più giorni: ad Abetone fanno tappa la Grande Escursione Appenninica, l’Alta Via dei Parchi (nella valle del Sestaione si attraversa la più bella foresta che si incontra sull’intero percorso dell’Alta Via) e adesso anche il Sentiero Italia del CAI; a Cutigliano si intersecano il già menzionato Cammino di San Bartolomeo e la Romea Strata Nonantolana-Longobarda. Un’altra esperienza da vivere è il grande museo diffuso che permette di conoscere la montagna attraverso il rapporto tra uomo e ambiente nei secoli: l’Ecomuseo della Montagna Pistoiese.
Il futuro della nostra montagna passa dalla valorizzazione di simili esperienze e, soprattutto, dalla destagionalizzazione. L’inverno è importantissimo dal punto di vista turistico, ma non ci possiamo più limitare a una sola stagione, con l’aggiunta di poche settimane in estate. Destagionalizzare – e quindi diversificare – è l’obiettivo essenziale per un turismo più sostenibile. La primavera e l’autunno sono due stagioni bellissime per scoprire il nostro territorio. Molti imprenditori del settore turistico e alberghiero, soprattutto giovani, l’hanno capito. Li dobbiamo sostenere.
Ecoló: Prima di salutarci ci spieghi come è possibile partecipare a Thrashed Abetone?
EB: Sabato 10 ottobre la giornata di raccolta inizierà ufficialmente alle 9:00 presso lo stand di “Thrashed Dolomites” che sarà collocato sulla terrazza panoramica del centralissimo piazzale Europa (meglio conosciuto come piazzale delle Piramidi) ad Abetone, nei pressi della scritta “Abetone 100” (orario 9:00-16:00, per informazioni: Enrico 3286249393, @locanda_farinati_abetone).
Un altro stand di “Thrashed Abetone” sarà allestito dalla Pro Loco di Pian degli Ontani (in collaborazione con il Gruppo Alpini “Aldo Pagliai” Cutigliano) a Pian di Novello, presso il parcheggio della Pianaccina (orario 9-16; per informazioni: 3663507854).
In Val di Luce, grazie al sostegno di Val di Luce Spa, sarà organizzato un altro evento di “Thrashed Abetone”, con la partecipazione dei dipendenti della società, dei cittadini e di quanti vorranno dare il proprio aiuto (per informazioni consultare la pagina Facebook Info Val di Luce).
Non è necessario iscriversi! Basta passare da uno degli stand di “Thrashed Abetone” per avere tutte le informazioni e per ritirare gratuitamente il materiale necessario per la raccolta. Saranno distribuiti sacchetti e guanti monouso a tutti i partecipanti: cittadini abetonesi, escursionisti e amanti della montagna. Ognuno cercherà i rifiuti autonomamente o in gruppo lungo i sentieri di Abetone, della Val Sestaione e della Val di Luce. Saranno anche organizzati due percorsi guidati che partiranno alle 10:00 dallo stand di Abetone.
“Thrashed Abetone” terminerà intorno alle 16:00, quando tutti i partecipanti avranno riportato i sacchetti pieni allo stand di “Thrashed Dolomites” presso il piazzale Europa di Abetone. I rifiuti raccolti saranno quindi differenziati. Perché non basta raccogliere, è necessario anche educare al recupero di quanto non serve più.
Ecoló: Grazie del tuo tempo Enrico e buona raccolta!
Un sistema elettorale basato sulle preferenze non è la soluzione a tutti i mali della politica italiana. Rapporti clientelari possono essere rafforzati da questo meccanismo di selezione. Ma crediamo che in questo momento la priorità per la politica italiana debba essere recuperare un rapporto di fiducia fra eletti e comunità rappresentate. Questo può essere fatto abolendo le candidature multiple e le liste bloccate.
Per questo Ecoló aderisce all’appello di Lorenza Carlassare, Enzo Cheli, Ugo De Siervo, Roberto Zaccaria, Paolo Caretti, Roberto Romboli, Stefano Merlini, Emanuele Rossi, Giovanni Tarli, Andrea Pertici.
Visto il risultato del referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari, come professori di Diritto costituzionale, riteniamo che sia indispensabile procedere rapidamente verso la definizione di una nuova legge elettorale.
Tra di noi, alcuni hanno votato Sì e altri No, ma ora riteniamo che debba essere comune il nostro impegno per sollecitare una legge che favorisca la rappresentanza e il pluralismo politico e territoriale, da anni sacrificati.
Essenziale è un sistema elettorale che consenta alle persone di individuare e scegliere chi mandare in Parlamento, instaurandovi un effettivo rapporto rappresentativo e potendo far valere la loro responsabilità politica. In questo modo si potrà dare una migliore qualità alla rappresentanza e favorire anche una maggiore efficienza delle Camere.
Da troppo tempo le nostre leggi elettorali (“Porcellum”, “Italicum” e “Rosatellum”) hanno imposto sistemi di liste bloccate e la proposta oggi in discussione in Commissione Affari costituzionali della Camera non può rischiare di cadere nello stesso errore, né in quello di privare molti elettori di rappresentanza con soglie troppo elevate. La Corte costituzionale (sentenze n.1 del 2014 e n.35 del 2017) è stata chiara: niente lunghe liste bloccate. Partendo da questo punto, riteniamo essenziale favorire un’effettiva scelta da parte degli elettori, valorizzando i principi costituzionali, superando liste bloccate e candidature multiple.
Con questo appello intendiamo rivolgerci a tutte le forze politiche presenti in Parlamento perché si impegnino nell’approvazione di una legge elettorale che restituisca una maggiore, rappresentanza, invitando i colleghi che condividano le nostre posizioni a unirsi alle nostre richieste.
Ecoló sostiene l’iniziativa europea “salviamo le api e gli agricoltori” è possibile firmare la petizione all’indirizzo: www.savebeesandfarmers.eu
Il diritto di iniziativa dei cittadini europei è uno strumento di partecipazione diretta alla politica dell’Unione europea, previsto dal Trattato sull’Unione Europea, che all’articolo 11 comma 4, prevede che se una iniziativa raccoglie almeno un milione di firme, la Commissione europea e il Parlamento europeo sono tenuti a valutarne le proposte e rispondere alle richieste che vi sono contenute.
L’iniziativa dei cittadini europei ‘Salviamo le api e gli agricoltori’ chiede al Parlamento Europeo:
1) L’eliminazione graduale dei pesticidi sintetici
Eliminare gradualmente i pesticidi sintetici nell’agricoltura dell’UE entro il 2030, iniziando da quelli più pericolosi, per diventare privi al 100% di pesticidi entro il 2035.
2) Il ripristino della biodiversità
Ripristinare gli ecosistemi naturali nelle aree agricole e trasformare i mezzi di produzione in modo che l’agricoltura contribuisca nuovamente alla promozione della biodiversità.
3) Il sostegno agli agricoltori nella transizione
Riformare l’agricoltura dando priorità ad un’agricoltura su piccola scala, diversificata e sostenibile, sostenendo un rapido aumento delle pratiche agroecologiche e biologiche e consentendo la formazione e la ricerca indipendente degli agricoltori in materia di agricoltura senza pesticidi e OGM.
Aiutaci a raggiungere questo obiettivo: ogni firma è importante.
L’utilizzo diffuso di agrofarmaci tossici sta distruggendo la biodiversità delle nostre campagne e mettendo a rischio la nostra salute. Il fenomeno del declino degli insetti impollinatori rischia di annullare un meccanismo fondamentale che è alla base della sopravvivenza di tutto l’ecosistema terrestre e costituisce una terribile minaccia per la sopravvivenza di tutti noi. Nello stesso tempo la diffusione dell’agricoltura industriale sta costringendo alla chiusura un numero sempre crescente di piccole aziende con una industrializzazione sempre più spinta delle pratiche agricole. Quello che deve essere cambiato è il sistema stesso che oggi guida la nostra agricoltura, in modo da poter giungere ad un’agricoltura priva di pesticidi, rispettosa della biodiversità e del clima, vicina alle esigenze del consumatore ma anche dell’agricoltore, capace, nel fornire cibo di qualità e sufficiente a rispondere alle richieste alimentari, di creare lavoro e sostenere le comunità locali.
Per ottenere questo, per innescare e portare a compimento una vera transizione ecologica dell’agricoltura europea, abbiamo bisogno della forza di milioni di firme di cittadini europei.
Hanno aderito alla raccolta moltissime associazioni e movimenti. L’elenco completo è visibile sul sito della iniziativa (www.savebeesandfarmers.eu ). Gli European Greens sono fra i sostenitori dell’iniziativa.
L’Unione Europea sta già facendo dei passi in questa direzione, come si evidenzia dalla nuova Strategia europea sull’agricoltura (Farm to Fork) che è stata approvata nel 2020 e che già indica come obiettivi da raggiungere entro il 2030 la riduzione del 50% dell’uso di pesticidi e del 20% dei fertilizzanti entro il 2030, almeno il 25% del territorio agricolo coltivato secondo i canoni dell’agricoltura biologica, il raggiungimento di una agricoltura neutra dal punto di vista della produzione/assorbimento di carbonio, più resiliente, più equa e più sostenibile. Ma ancora non basta e la necessità del compimento di una vera e completa transizione ecologica dell’agricoltura deve essere sostenuta dalla richiesta e dalla consapevolezza (che comprende anche un comportamento da consumatori consapevoli) dei cittadini europei.
Quando si parla di economia cicolare spesso è la retorica ad avere la meglio. Ma un modo di entrare nel concreto è quello di parlare di vuoto a rendere. Per farlo abbiamo coinvolto Pietro Ceciarini, assegnista di ricerca al Dipartimento di Ingegneria Civile, Chimica, Ambientale e dei Materiali dell’Università di Bologna e fondatore della startup BackBo, nata dal suo progetto di tesi: “Progetto BackBO – Studio di fattibilità per la gestione dei rifiuti da imballaggi attraverso il sistema del vuoto a rendere all’interno della Zona Universitaria di Bologna.”
Ecoló: In Italia produciamo una quantità inimmaginabile di imballaggi. Il dato sulle bottiglie di plastica è da Guinness dei primati con 8 miliardi di bottiglie prodotte ogni anno. Come siamo arrivati fin qui?
Pietro Ceciarini: Il dato delle bottigliette di plastiche è terribile. In Italia siamo il 5° paese in Europa per salubrità della nostra acqua potabile da acquedotto (dietro a paesi prettamente montani come Austria e Svezia ad esempio) e, allo stesso tempo, siamo il 3° paese al mondo per consumo di acqua minerale in bottiglia, dopo Thailandia e Messico, che hanno problemi di potabilità e sicurezza dell’acqua da rubinetto. Siamo arrivati a questo punto perché negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, in pieno boom economico, è stato capito che si potevano fare i soldi con un bene di tutti, privatizzandolo. È stato creato un marketing per esaltare la salubrità dell’acqua in bottiglia che ha iniziato quindi ad essere commercializzata. La televisione, anche oggi, ci propone tantissima pubblicità di acqua minerale che ne esalta gli aspetti salutari, creando una cultura specifica, oltre all’abitudine ad un sapore diverso.
Ecoló: Vuoi dirci, brevemente, come funziona il meccanismo del “vuoto a rendere” e quali ingredienti rendono possibile che funzioni?
PC: Il vuoto a rendere è un meccanismo molto semplice, e per questo bellissimo. Si è sviluppato nel dopo guerra, anche in Italia, per motivi economici, le aziende infatti risparmiavano recuperando gli imballaggi, lavandoli e riutilizzandoli. Tutto questo fino alla scoperta dell’usa e getta. Di recente, alcuni paesi, come Germania, Svezia, Croazia e altri, lo hanno fatto diventare obbligo di legge, sia per gli imballaggi riutilizzabili che per quelli monouso. Per gli imballaggi riutilizzabili il meccanismo funziona grazie a una cauzione che il produttore applica sulla vendita del prodotto, ad esempio una bottiglia di birra, e che è presente in tutti i passaggi, dal distributore fino al consumatore finale e varia da pochi centesimi fino a massimo 1-2 euro. In questo modo il produttore si garantisce un minimo di budget per acquistare nuovi imballaggi nel caso non li riceva indietro tutti. Per riavere la cauzione è sufficiente restituire indietro l’imballaggio integro da parte del consumatore finale, del distributore e così via fino al produttore che può così recuperarlo e riutilizzarlo. Il vuoto a rendere è possibile anche per i prodotti monouso e, in questo caso, serve a garantire standard di riciclaggio più efficienti, andando a selezionare il rifiuto in modo più preciso coinvolgendo il consumatore che riceve un piccolo contributo, riportando indietro ad esempio una lattina vuota o un determinato tipo di bottiglietta di plastica.
Ecoló: Tutti noi abbiamo avuto esperienze positive con la gestione del vuoto a rendere, in alcuni paesi del nord Europa o in Alto Adige, e ci chiediamo sempre: perché nel resto d’Italia non c’è?
PC: Domanda molto interessante, che ci permette di far capire come siamo arrivati a questo. Credo dipenda da due aspetti, uno normativo e uno culturale. Siamo un paese infatti dove il senso civico non è così elevato e il vuoto a rendere presuppone comunque un impegno da parte di ognuno per il benessere collettivo. A livello normativo invece, con il Decreto Ronchi del 1998, anziché spingere sul riutilizzo degli imballaggi e dei rifiuti, è stato scelto di puntare prima di tutto sul riciclaggio con la creazione di consorzi appositi senza scopo di lucro, come il CONAI (Consorzio Nazionale Imballaggi). Questo non gestisce il vuoto degli imballaggi, ma i materiali di scarto conferiti dai comuni provenienti dalla raccolta differenziata. Le aziende che producono imballaggi partecipano attraverso un contributo all’origine del prodotto, versato al Conai per le spese di gestione dei rifiuti che dalla raccolta sul territorio passano ai Consorzi per il riciclo. Questo si è dimostrato un forte limite e un rallentamento alla possibilità di sviluppare un sistema di vuoto a rendere. Oltre a questo, in Italia, la stessa definizione normativa di rifiuto è piuttosto “sottile” creando spesso problemi e interpretazioni e, negli ultimi tempi, stiamo anche sempre più assistendo alla diversificazione delle bottiglie, come tratto distintivo da parte delle aziende, soprattutto di birra, al contrario della standardizzazione che si ha invece in altre parti di Europa e che aiuta il vuoto a rendere.
Nonostante tutto ciò, il vuoto a rendere era presente in Italia e in parte c’è ancora. Qualche anno fa, ad esempio, è stata lanciata una campagna in Sardegna, da parte della birra Ichnusa e, soprattutto nel sud Italia, esistono ancora realtà industriali che usano il sistema del vuoto a rendere come pratica quotidiana, la Peroni stessa nel suo stabilimento meridionale fa vuoto a rendere da anni, proprio perché ancora legato a un’economia di risparmio più che a un’economia di sfruttamento.
Ecoló: Quali sono i costi aggiuntivi (e su chi ricadono) e quali i risparmi di una filiera del vuoto a rendere e quindi qual è il bilancio economico complessivo di una operazione di questo tipo?
PC: Non credo che il sistema del vuoto a rendere porti costi aggiuntivi. La presenza di una cauzione è solo uno strumento per far funzionare il sistema permettendo il recupero dell’imballaggio. Dal punto di vista del consumatore quindi i dati di costo in più sono irrisori se non minori, dal momento che con la diffusione del sistema, dovrebbe affermarsi un minor costo nella gestione dei rifiuti (che potrebbe portare a uno sconto sulla Tari, ad esempio). Il bilancio economico complessivo non aumenta, anzi porta valore anche per le istituzioni, valutando non solo l’aspetto economico del sistema ma anche altri vantaggi in termini di sostenibilità, soprattutto in un’ottica di ciclo di vita e di impatto ambientale, economico e sociale, considerando anche la possibilità di fare risparmio da parte di persone meno abbienti che, in modo dignitoso, possono guadagnare sopperendo ai comportamenti poco virtuosi di altre persone.
Ecoló:Quando qualche mese fa si è iniziato a parlare di un’imposta sugli imballaggi di plastica è scoppiato un putiferio, malgrado si trattasse di un tentativo molto timido di arginare la sovrapproduzione di imballaggi nel nostro paese, quali sono gli ostacoli maggiori che oggi non permettono di proporre soluzioni efficaci come il vuoto a rendere?
PC: Già, la plastic tax era sicuramente un provvedimento importante. A mio avviso il problema di fondo è stato un po’ lo stesso avuto in passato: non aver integrato nel processo legislativo fin da subito le varie parti interessate, gli utenti finali, produttori, distributori, senza avere così un dialogo che permettesse di arrivare a una soluzione valida per tutti, condivisa e consensuale. Poi, come detto anche prima, il Decreto Ronchi ha creato un sistema molto rigido tra consorzi, comuni, aziende municipalizzate che rende difficile il cambiamento, anche per motivi culturali.
Ecoló: A che livello è più utile agire per sviluppare un progetto di vuoto a rendere? è possibile fare qualcosa a livello regionale?
PC: Con la mia esperienza e formazione ho sviluppato un approccio in ambito startup e innovazione usando metodi di lean startup e design thinking. Partirei quindi sempre dal piccolo, con un modello da testare e poi ingrandire e riprodurre, adattandolo al contesto in cui è calato. La realtà di Bologna, in cui lavoro, è diversa da un paesino della Sicilia o dalla realtà autonoma dell’Alto Adige. Non possiamo pretendere da subito che si possa espandere il vuoto a rendere alla dimensione nazionale. Anche per la logistica è più semplice partire da piccole realtà locali, come birrerie artigianali o piccole cantine con poche bottiglie.
A livello regionale, anche pensando alla Toscana, potrebbe essere interessante pensare a progetti di hub territoriali che fungano da centri di lavaggio e smistamento di questi imballaggi, in modo da ridurre i costi di trasporto e non dover avere il lavaggio in house.
Ecoló: Raccontaci il tuo progetto: in due parole, che cosa è BackBO?
PC: BackBO è nato proprio per essere un hub e un esperimento di vuoto a rendere in zona universitaria. Pian piano, nonostante tutti i problemi di burocrazia e normativa di cui abbiamo parlato, abbiamo mantenuto la missione e una visione coerente: distruggere il mondo dell’usa e getta a favore di una cultura verso un’economia circolare e sempre più riutilizzabile. Siamo un centro di economia circolare a Bologna, che è anche centro di innovazione sociale, grazie all’integrazione con il territorio e con la cittadinanza.
Ecoló: Pensi che questa esperienza possa essere replicata in altre università? Come associazione politica come potremmo spingere perché ciò avvenga?
PC: A livello universitario tutto è partito facendo una tesi all’interno di un progetto europeo più ampio che riguardava la rigenerazione della zona universitaria di Bologna (afflitta da problemi di devastazione e di degrado urbano) e che avrebbe potuto portare vantaggi anche dal punto di vista della sostenibilità. Come BackBO vorremmo crescere e cercare di sviluppare centri in altre città italiane, ma con un percorso di crescita dal basso, fungendo noi da facilitatori per aiutare a far nascere nuovi hub.
Un’associazione politica può essere uno strumento e un metodo importante per cercare di fare leva sulle istituzioni, in modo da coinvolgere dal punto di vista anche culturale e di comunicazione di possibili progetti di questo tipo, in modo da espandere attività di vuoto a rendere.
Ecoló: Oltre al vuoto a rendere, quali potrebbero essere soluzioni innovative da sviluppare in ottica di economia circolare sul territorio? anche in relazione al tuo lavoro di ricerca che stai portando avanti all’Università di Bologna.
PC: Noi con BackBO, all’interno dell’associazione, facciamo diverse attività. Abbiamo un hub che è anche un laboratorio di design per prototipare in ottica di economica circolare, con stampanti 3d e altri macchinari, sull’onda di Precious Plastic (community che ha reso possibile la costruzione di macchinari domestici per il riciclo della plastica). Questo potrebbe essere un’attività molto interessante, esportabile e replicabile, proprio perché avvicina tutti i cittadini a una modalità di economia circolare più partecipata, più attiva, più vicina. Quello che vorremmo diventare è un centro di ricerca sperimentale per l’economia circolare per fare diverse attività, non solo plastica, ma in futuro anche altro, riducendo quelli che sono i tempi delle università e avere più dinamismo rispetto alle istituzioni pubbliche. Poi è importante coinvolgere il più possibile le persone: se le persone cambiano, se la cultura cambia, le aziende e le istituzioni dovranno adattarsi e regolamentare le nuove esigenze del popolo.
Ecoló: Grazie mille della tua disponibilità!
Serena Spinelli, pediatra di pronto soccorso al Meyer, consigliera regionale uscente e candidata per la lista “Sinistra Civica Ecologista” nelle circoscrizioni Firenze 1, Firenze 2.
1. La prima cosa che farai il giorno dopo le elezioni, se sarai eletta consigliera
Ringrazierò uno per uno tutti coloro che mi hanno aiutato, mettendo a disposizione il proprio tempo e il proprio impegno in questa campagna elettorale, perché senza di loro non sarebbe stato possibile, così come ringrazierò tutti i compagni e le compagne con cui abbiamo lavorato in questi mesi per il progetto di Sinistra Civica Ecologista.
2. La prima cosa che farai il giorno dopo le elezioni, se non sarai eletta consigliera
Ringrazierò tutti lo stesso. Ma poi chiamerò anche il mio primario per organizzare il rientro al mio lavoro come medico al Pronto Soccorso dell’Ospedale pediatrico Meyer.
3. Se tu dovessi scegliere una battaglia da fare nel corso della prossima legislatura, una sola, su cosa ti concentreresti?
Mi impegnerei per la riorganizzazione e il potenziamento dei servizi sociali e sanitari sul territorio. Le persone hanno bisogno di essere prese in carico in maniera complessiva sul territorio, con servizi di prossimità, nei loro bisogni di salute e di assistenza. In particolare, penso alle cronicità, alle disabilità, alla salute mentale. E alla prevenzione, che è fondamentale per il benessere di tutti.
4. Di cosa avrebbe bisogno davvero la Toscana nei prossimi 5 anni?
Di un nuovo modello di sviluppo socialmente e ambientalmente sostenibile. Un modello che non depredi le risorse naturali, che sia inclusivo, dove tutte e tutti hanno le stesse opportunità di realizzare le proprie aspirazioni e la propria crescita personale, contribuendo a quella collettiva.
5. Qual è l’intervento più urgente che necessita la regione Toscana nella gestione dell’ambiente?
Credo che sia imprescindibile attuare un grande piano complessivo di manutenzione e di sistemazione idrogeologica del territorio, con obiettivi anche di prevenzione, corretta gestione e cura. E’ anche necessario accelerare sulla riduzione delle emissioni, sulla transizione energetica e sulla conversione ecologica, sfruttando le risorse messe a disposizione dall’Europa.
6. Giani: un pregio e un difetto
Giani è una persona affabile e disponibile al dialogo. Gli manca un po’ di radicalità verso il cambiamento, ma in coalizione ci siamo noi e su questo potremo senz’altro aiutarlo.
7. Fattori: un pregio e un difetto
Ho apprezzato Fattori come collega preparato, che studia a fondo, e con il quale ho condiviso anche molti atti in Consiglio regionale. Non so se è un difetto, e non voglio nemmeno che sia una critica, perché lo considero coerente, ma credo che la sua visione della sinistra sia troppo sbilanciata verso un ruolo di opposizione piuttosto che su come agire per orientare e incidere sui processi in corso.
8. Secondo le proiezioni degli scienziati del clima, riprese anche dai ragazzi di Friday For Future, gli anni a disposizione per invertire la tendenza rispetto ai cambiamenti climatici in atto sono poco più di quelli della prossima legislatura. Cosa può fare la Toscana per contribuire alla sfida che ci aspetta? Sarà in grado?
Le azioni da mettere in campo sono molteplici e secondo me l’obiettivo si raggiunge mettendo la sostenibilità al centro delle politiche regionali, per poi da qui derivarle e declinarle: dall’urbanistica alle infrastrutture, dalla salute pubblica agli investimenti per la ripresa economica e il tessuto imprenditoriale. Chiaramente serve accelerare verso gli obiettivi dell’azzeramento di emissioni nette climalteranti, di crescita delle energie da fonti rinnovabili, di efficienza energetica con la riduzione dei consumi, di economia circolare.
Grazie a Ecolò per l’opportunità di esporre le mie idee su temi che dovranno essere priorità nella prossima legislatura regionale.
Grazie a te per il tuo tempo e in bocca al lupo!.
Tommaso Grassi, già consigliere comunale a Firenze per due consiliature, storico attivista ecologista fiorentino si candida nella lista “Toscana a Sinistra” nella circoscrizione di Firenze.
1. la prima cosa che farai il giorno dopo le elezioni, se sarai eletto consigliere
Sarò poco rock, ma prenderei le leggi principali della Toscana e inizierei ad ipotizzare proposte di modifica avendo 3 punti di riferimento: politiche per l’ambiente, riconoscimento pieno di diritti e lotta alle disuguaglianze. Si riparte da qui per 5 anni di battaglie sui temi e sui contenuti, per approvare leggi e modifiche cercando di convincere sulle idee e non con il peso del numero degli eletti.
2. la prima cosa che farai il giorno dopo le elezioni, se non sarai eletto consigliere
Se non eletto personalmente, dal punto di vista politico darò una mano a chi verrà eletto; in caso di non elezione della lista, sui territori continueremo a organizzare iniziative e occasioni di riflessione e diffusione delle idee che sono contenute nel nostro programma, ben sapendo che la politica non si fa solo dentro le istituzioni, ma anche in strade e piazze, sui territori dove la gente vive e lavora. Professionalmente proseguirò la bella esperienza che da un anno mi vede dipendente di un piccolo Comune del pratese, dove mi occupo di patrimonio, mobilità, lavori pubblici, protezione civile e sport, e dove potrò dare il mio contributo di idee.
3. se tu dovessi scegliere una battaglia da fare nel corso della prossima legislatura, una sola, su cosa ti concentreresti?
Non ci sono battaglie capaci, in un solo atto, di riassumere tutti i temi del programma e di ciò che merita attenzione, ma certo che il tema ambientale e la battaglia per un piano di riconversione ecologica del mondo toscano che possa unire ambiente, diritti, lavoro ed economia la sento come la vera sfida in grado di permetterci di chiudere con opere inutili e ridurre l’inquinamento, mettere in sicurezza il nostro territorio fragile e creare posti di lavoro, riconvertendo la produzione di siti importanti del nostro territorio.
4. di cosa avrebbe bisogno davvero la Toscana nei prossimi 5 anni?
Di Politica. Di Consigliere e Consiglieri che abbiano a cuore la Regione e ogni angolo del territorio. Che siano disponibili 24 ore su 24 ad ascoltare i bisogni e nelle istituzioni sappiano trovare soluzioni condivise.
5. qual è l’intervento più urgente che necessita la regione Toscana nella gestione dell’ambiente?
Messa in sicurezza del territorio dal punto di vista idrogeologico e sismico, e contestualmente la diffusione su edifici da adeguare e nei territori fragili della diffusione delle energie rinnovabili su proprietà pubblica, come incentivo all’installazione e diffusione di fonti di energia rinnovabili da parte di privati.
6. Giani: un pregio e un difetto
Grande conoscitore della storia fiorentina e della Toscana – pregio
Mancanza di un piano organico programmatico – difetto
7. Fattori: un pregio e un difetto
Sa ascoltare e non nasconde come la pensa – pregio
Ha un pessimo rapporto col cellulare – difetto
8. Secondo le proiezioni degli scienziati del clima, riprese anche dai ragazzi di Friday For Future, gli anni a disposizione per invertire la tendenza rispetto ai cambiamenti climatici in atto sono poco più di quelli della prossima legislatura. Cosa può fare la Toscana per contribuire alla sfida che ci aspetta? Sarà in grado?
Tanto. E finora ha fatto poco. Per esempio considerare come punteggio nei bandi e selezioni in ogni ambito di competenza, l’impatto ambientale e l’effetto sul territorio di qualsiasi intervento finanziato con fondi pubblici regionali, statali ed europei. Non solo come criterio premiante, bensì stabilendo limiti non superabili per tutti quegli interventi che prevedano un impegno finanziario a fondo perduto per misure strutturali a favore di aziende e imprese. Bene sostenere l’economia ma si deve chiedere che ogni occasione sia buona per ridurre l’impatto ambientale e invertire la rotta rispetto ai cambiamenti climatici. Piccoli passi per un futuro migliore e che non sia solo la copia del passato.
Linda Maggiori, educatrice, scrittrice, blogger vive con la sua famiglia a Faenza cercando di avere il minor impatto possibile sul pianeta. Fra i suoi libri “Vivo senz’auto” e “Impatto Zero. Vademecum per famiglie a rifiuti zero”. Una persona da ascoltare, soprattutto quando ci chiediamo come sia possibile ridurre la nostra impronta ecologica.
Ecoló: Ciao Linda, grazie per aver accettato di rispondere alle nostre domande. Abbiamo letto in giro nella rete che la tua famiglia vive a impatto zero, è vero? Cosa significa esattamente questa affermazione?
Linda Maggiori: Quasi zero! Vuol dire che cerchiamo di ridurre il nostro “peso carbonico” sull’ambiente, con tante piccole azioni quotidiane: riduciamo i nostri consumi, e quindi i rifiuti, compriamo quasi unicamente sfuso e alla spina, autoproduciamo, compriamo locale e bio, riduciamo carne e latticini (io sono vegana, mio marito vegetariano, i bambini mangiano talvolta carne dai nonni). Da 10 anni ormai non abbiamo auto privata e ci muoviamo prevalentemente con bici, piedi, e mezzi pubblici. Abbiamo da poco ristrutturato un vecchio appartamento in condominio, rendendolo carbon free, tutto elettrico, portandolo da classe G a classe A3…insomma, proviamo a fare la nostra parte!
Ecoló: Immaginiamo che, partendo dal modello di vita e di consumo al quale siamo abituati, si tratti di un percorso lungo, come è iniziato?
LM: Da un incidente che mise a rischio la nostra vita e quella dei nostri bambini. Eravamo in auto, guidavo io, pioveva, un’auto sbandò e ci venne contro, scontro frontale. Per un attimo pensai che era tutto finito. Lo schianto, le lamiere contorte, il silenzio spettrale. Quando sentii piangere i bambini e capii che non erano morti, la vita riprese a scorrere. Da quell’incidente non solo siamo sopravvissuti ma rinati. Abbiamo deciso che non avremmo ricomprato l’auto. Che avremmo provato a fare senza. Da lì, da quel momento, quella prima grande privazione è diventata la nostra forza, la nostra missione e battaglia. Abbiamo creato la rete delle famiglie senz’auto, abbiamo approfondito i danni della motorizzazione privata, partecipato a lotte e petizioni e manifestazioni. Abbiamo testimoniato, siamo stati intervistati…poi abbiamo volto il nostro sguardo verso ogni aspetto della nostra vita, dai rifiuti all’alimentazione, all’energia, cambiando poco alla volta, mettendoci alla prova, passo dopo passo, con entusiasmo, ironia e voglia di mettersi in gioco. Un tempo io e mio marito non sapevamo che strada percorrere, eravamo un po’ allo sbando. La lotta per un mondo migliore è ora la nostra strada, e ci ha fatto crescere anche come coppia.
Ecoló: C’è stata quale rinuncia particolarmente faticosa o ci sono stati momenti di scoraggiamento?
LM: Sicuramente tanti momenti di fatica, così come in ogni lotta e come in ogni salita. Cambiare il mondo dal basso, marciare controcorrente, non è una cosa semplice. La cosa più brutta è stato il senso di isolamento e di incomprensione, che abbiamo vissuto per tanto tempo, soprattutto qui nella nostra cittadina. Essere additati come estremisti, solo perché volevamo cose che altrove sono la norma (ad esempio chiudere al traffico selvaggio una stradina davanti alla scuola). La cosa più brutta è quando scopri che quelli che credevi amici non ti difendono, e si vergognano di te, e hanno paura di starti troppo vicino, perché temono di essere additati a loro volta estremisti. Questi sono stati momenti durissimi e credo che ce ne saranno altri. Ma ormai abbiamo le spalle abbastanza larghe per sopportarli, abbiamo inoltre creato un bel gruppo di attivisti e stretto vero amicizie. Inoltre sappiamo che tanti come noi vivono lo stesso ostracismo in altre zone d’Italia. Un’altra cosa pratica che ci dispiace, è il fatto che molti luoghi turistici montani non siano raggiungibili con navette e treni. E quindi spesso dobbiamo rinunciarci. Non è giusto! Quando vediamo foto di luoghi meravigliosi, come le colline di Castelluccio di Norcia, invase da colonne di automobilisti in cerca di selfie, mi viene rabbia e sconforto. La natura dovrebbe essere raggiunta solo a piedi bici o mezzi pubblici. Da noi invece è il contrario. Chi ha l’auto può andare ovunque, e chi non ha l’auto deve rinunciare a molte mete (almeno qui in Italia).
Ecoló: C’è qualcosa che vorreste eliminare dalla vostra vita ma non riuscite ancora a farlo?
LM: Tanti piccoli miglioramenti sono necessari, vorrei comprare molto meno formaggio, (di cui però i miei figli vanno pazzi), fare un orto migliore, scoprire più ricette…. Infine, vorrei usare meno il cellulare, ma è davvero molto molto difficile.
Ecoló: La crisi sanitaria di questi mesi ha messo a nudo tante fragilità della nostra organizzazione economica e sociale, le tue scelte di vita sono state più difficili durante il lockdown?
LM: In parte si e in parte no. E’ stato faticoso (impossibile direi) tenere i bambini in casa in modo forzato, in condominio, visto che ho sempre abituato i miei bambini a star molto fuori. In realtà uscivano e giocavano coi bambini del condominio nel cortile di sotto, ma lo spazio era poco e sempre qualche vicino anziano brontolava. Siamo stati anche multati per aver messo piede nel parco a fianco casa. Io credo che ci sia stata un’esagerazione delle norme ristrettive, soprattutto contro i bambini, che all’estero non ho notato (molti figli dei miei amici tedeschi o svizzeri potevano uscire a giocare senza essere multati nei parchi). Io credo che questa esagerazione sia legata alla nostra cultura italiana. Una cultura che da decenni considera i bambini degli “intralci”, da togliere dalle strade, dalle città, e chiudere in luoghi “protetti”. Una cultura che si è esacerbata con l’emergenza. Una cultura lontana dall’oudoor education. Abbiamo paura dell’aria, del freddo, del sole, della pioggia…Abbiamo paranoie igieniche ma non ci interessiamo dell’inquinamento che provoca una pulizia eccessiva. Durante il lockdown sentivo la mia vicina vantarsi perché puliva ogni giorno con litri di candeggina…Altro problema del lockdown: gli orti urbani e i mercatini bio e locali erano chiusi e così dovevo recarmi al supermercato. Ma poi col Gas ci siamo organizzati con consegne a domicilio e il fatto di fare molta autoproduzione ci ha sicuramente aiutato!
Ecoló: Alcuni dicono che la singola azione che può diminuire l’impatto ambientale di una famiglia è non fare figli. A voi, che avete quattro figli, sarà capitato di dover rispondere a chi ti chiedeva se non ti sentivate in contraddizione con il vostro essere ecologisti. Come rispondi a questa domanda?
Moltissime volte ci sollevano questa critica. In parte è vero, ammettiamo che a rigor di logica avremmo dovuto fare meno figli, ma come si sa, certe cose non sempre sono totalmente razionali 😉 In fondo poi, è un dilemma abbastanza ipocrita, soprattutto nei paesi ricchi. In Italia e in quasi tutti i paesi occidentali il tasso di natalità è sotto zero, eppure sono paesi che inquinano moltissimo. Ciò vuol dire che le emissioni dell’occidente non sono causate dalla sovrappopolazione (si fanno pochissimi bambini), ma dagli stili di vita esagerati. Come spiega bene Carola Rackete, ≪Il vero problema è il massiccio sfruttamento delle risorse, e non perché ci sono troppe persone sulla Terra ma perché una minima parte di loro ne utilizza troppe.” Pensiamo che ci sono più animali di allevamento che esseri umani, e per lo più destinati agli abitanti del Nord del mondo, che soffrono di malattie dovute a iperalimentazione. Le Nazioni Unite stimano che la popolazione mondiale toccherà i 9,8 miliardi nel 2050 per poi iniziare naturalmente a scendere. La terra avrà cibo per tutti, ma non potrà sfamarci se continueremo a mangiare carne a ritmi forsennati.
Con programmi di emancipazione, salute e istruzione per donne e bambini, aumentando i servizi sanitari, con l’estirpazione del fenomeno dei matrimoni precoci e del lavoro minorile, si riuscirà a fermare la bomba demografica nei paesi poveri. Al contempo però, il modello occidentale, consumista ed energivoro non può essere un modello da seguire per chi esce dalla povertà.
Ecoló: Vorremmo chiederti anche della tua esperienza di giornalista e scrittrice ecologista, come mai secondo te il pensiero ecologista fa così fatica ad affermarsi in Italia?
LM: L’Italia era un paese povero, è uscito dalla guerra con una gran voglia di riprendersi, e si è buttata a capofitto nelle braccia delle lobby delle auto, del cemento e delle strade, che hanno trasformato a loro immagine le città, tagliando per sempre mezzi pubblici, rotaie… I politici di destra e sinistra per decenni se ne sono strafregati dell’ambiente, della qualità urbana, pensando solo alla ripresa economica. La cultura ha fatto il resto. Una cultura estremamente familista, che tende a privilegiare il privato al pubblico, gli interessi egoistici al bene comune, una cultura che esalta la superficialità e l’ostentazione ma non si preoccupa delle conseguenze profonde delle azioni, una cultura politica basata sempre sul do ut des, sullo scambio voto-favori, sul ricatto occupazionale, sul ricatto delle lobby. Per questo quei pochi sindaci coraggiosi dopo poco venivano fatti fuori (vedi Fazio Fabbrini a Siena). Una politica poco coraggiosa, sempre balbettante, che invece di educare al bene comune, seguiva gli interessi di pancia e il populismo. La fissa per l’igiene ha creato terreno fertile per il radicamento dell’usa e getta in plastica. La fobia dei luoghi aperti e degli agenti atmosferici, uniti a una martellante pubblicità della grande industria automobilistica, ha forgiato coscienze e abitudini, rendendo gli italiani schiavi delle auto, incapaci di fare pochi km a piedi. E sappiamo che le abitudini, una volta prese, sono dure a morire e modellano la mente e la percezione di ogni cosa. Per questo ora è tremendamente difficile parlare di ambiente, rispetto della natura, zone pedonali, riduzione di auto e rifiuti. Viene sentito come un attacco ad abitudini radicate, un attacco a vitali diritti e si invoca sempre la libertà “di vivere come ci pare”. Non si viene mai compresi, come ecologisti, si viene additati come sognatori (se va bene) estremisti talebani (se va male). Se si vuole essere votati, bisogna fare buon viso a cattivo gioco, mai dire troppo e mai essere schietti. Ci si scontra con una mentalità radicata da decenni, che vede il progresso come distruttore di natura e la natura come un luogo da dominare, da sfruttare e da cui scappare.
Ecoló: Infine tre domande sulla tua esperienza con i Verdi dell’Emilia Romagna, come mai hai deciso di dare il tuo contributo alle ultime elezioni regionali?
LM: Credevo fosse giusto, in un periodo di crisi ambientale e climatica, fare un passo in più rispetto al semplice attivismo, volevo mettermi in gioco nella politica, pensavo di poter cambiare qualcosa. Non mi piaceva l’alleanza con Bonaccini, ma tutti dicevano che era il meno peggio…e mi sono fidata.
Ecoló: Sei pentita? O è stata un’esperienza che rifaresti?
Molto pentita e non lo rifarei mai più. Ho vissuto mesi molto duri. Io sono sempre stata abituata a dire quel che penso, con rispetto, ma senza finzione. In campagna elettorale, non potevo dire la mia idea, non potevo fare critiche a Bonaccini sulle sue prese di posizioni antiecologiste (autostrade, aereoporti, trivelle), perché si era in coalizione e bisognava “andarci piano”. Ma io non sopportavo queste finzioni, questi finti sorrisi, queste passerelle e comizi, sono sempre stata attivista e certe cose le denunciavo lo stesso. I verdi locali mi hanno tolto la possibilità di scrivere sulla pagina FB locale, evitavano di condividere ogni mio pensiero, si sono persino rifiutati di attaccare i manifesti col mio volto per una stupida gelosia….A parte alcuni gruppi locali fantastici (di Rimini, di Forlì), da parte del regionale, ho percepito molta freddezza verso i nuovi. In seguito ad un commento critico che scrissi su Bonaccini su FB, sono stata richiamata, mi hanno chiesto immediate scuse, altrimenti Bonaccini avrebbe annullato una conferenza stampa. Una situazione surreale. Io al telefono dovevo chiedere scusa a Bonaccini o lui avrebbe annullato una conferenza stampa (con gente che veniva dalla Francia apposta). E’ stato un mese molto faticoso e umiliante, mi sembrava di vivere un incubo, in cui volevo urlare ma non potevo. Eravamo tutti molto stanchi in famiglia. Ho capito che fingere non è il mio mestiere e la politica (almeno come è intesa qui da noi) non fa per me. Mi sono ributtata a capofitto nell’attivismo, nella Fiab, in XR, strafelice della libertà ritrovata. Ho deciso di non far più parte di alcun partito, ma lottare con passione come attivista. Credo di essere molto più utile (e serena) così. Ho trovato gente meravigliosa nelle associazioni, e sono davvero felice.
Ecoló: Cosa pensi che manchi al movimento ecologista italiano per fare un salto di qualità ed assomigliare ai movimenti del nord Europa?
LM: Non sono una buona analista politica, né esperta dei Verdi Europei, però vi posso parlare della mia esperienza. Credo che qui in Italia manchi da una parte molto coraggio nei Verdi, (tentennano troppo, inoltre le alleanze fatte col PD sono suicidi politici e di credibilità) e dall’altra parte, come già detto, manca molta sensibilità ambientale da parte della gente. I Verdi da quel che ho visto, mi pare che siano ancora troppo legati a logiche vecchie di partito, di calcoli e piccole gelosie. Devono assomigliare di più ad un’associazione, con meno gerarchia, più libertà, dare più spazio ai giovani, essere più coraggiosi.
Ecoló: Grazie del tuo tempo a presto!