L’idea di questa intervista ci è venuta mentre programmavamo i nostri prossimo viaggi di lavoro, in particolare un viaggio molto lungo, in Cile. Malgrado la scusa dei “viaggi di lavoro”, rimane il fatto che l’impatto di un volo è elevato, in particolare quello di un volo intercontinentale. Abbiamo chiesto a Francesco Capezzuoli di Italian Climate Network alcuni chiarimenti.
Paolo & Samuele: La prima domanda è: quanto inquino andando in aereo dall’Italia a Santiago del Cile?
Francesco Capezzuoli: Per calcolare le emissioni dei propri viaggi in aereo, esistono molti strumenti online direttamente fruibili dagli utenti che adottano metodologie di calcolo differenti. Personalmente utilizzo quello della ICAO (International Civil Aviation Organisation), un’agenzia ONU con sede a Montréal (Canada).
Ad esempio, se volassi da Roma per partecipare alla prossima COP25, che si terrà a Santiago del Cile il prossimo dicembre, emetterei 1.254,4 kg di CO2 (contando andata e ritorno). Una quantità emessa normalmente in due mesi da un cittadino italiano medio (considerate che se tutti emettessero tanta CO2 quanto un italiano medio avremmo bisogno di 3 pianeti per essere sostenibili!).
P&S: In rete si leggono statistiche riguardo al contributo dei viaggi aerei alle emissioni totali di CO2, sembra essere poca cosa, fra il 2 e il 3% del totale, perché è importante minimizzare l’uso dell’aereo?
FC: Sì, è vero. Ad esempio, le emissioni dirette dovute all’aviazione ammontano al 3% delle emissioni climalteranti europee. Tuttavia, le emissioni dovute all’aviazione civile cresceranno molto più rapidamente rispetto ad altre fonti. Al 2020, le emissioni globali relative all’aviazione aumenteranno del 70% rispetto ai livelli del 2005 e la stessa ICAO prevede che al 2040 triplicheranno almeno.
Altro punto: le emissioni rilasciate ad alta quota contribuiscono in maggior misura a quelle rilasciate “a terra”. Stando al meteorologo Luca Mercalli, questo impatto è misurabile al 5% del contributo al riscaldamento globale.
Infine c’è un dato secondo me molto significativo, circa l’85% della popolazione mondiale non ha mai viaggiato in aereo. Questo sembra essere un esempio perfetto di come il 15% più ricco della popolazione impatti sul mondo in maniera molto più che proporzionale rispetto alla sua numerosità.
P&S: Visto che in tanti andranno in vacanza nelle prossime settimane, puoi dirci qual è il modo meno impattante di spostarsi?
FC: Come abbiamo visto, i passeggeri e i voli dell’aviazione civile cresceranno ogni anno sempre più, occorre perciò fermarci un attimo e riflettere. È proprio indispensabile imbarcarsi su un aereo per godersi le vacanze? Esistono alternative molto meno inquinanti che permettono di raggiungere luoghi bellissimi, spesso vicino a noi ma completamente ignorati.
Questo grafico della EEA mostra l’impatto in termini di CO2 di un km percorso da un passeggero con vari mezzi di trasporto, e l’aereo risulta essere il mezzo di gran lunga più inquinante anche in termini climalteranti rispetto agli altri: il settore emette da 14 a 40 volte più CO2 rispetto ai treni, per chilometro percorso!
Purtroppo il mercato ci tenta continuamente con un’offerta di voli low cost continentali ed extracontinentali che permettono di visitare luoghi sì meravigliosi ma che in futuro non saranno più come li conosciamo (uno su tutti: la barriera corallina). È paradossale che esista già una “corsa” per visitare bellezze destinate a scomparire nei prossimi decenni, e che questa corsa sia parte del problema.
P&S: Spesso si legge della possibilità di compensare le emissioni degli spostamenti in aereo. Di cosa si tratta?
FC: Il meccanismo funziona così:
1 – calcolo le emissioni (in t o kg di CO2) dovute ai miei viaggi;
2 – acquisto di tasca mia qualcosa che permette di assorbire o di evitare l’emissione di una quantità di CO2 almeno pari a quella che ho emesso.
Che siano crediti di carbonio certificati o piantumazioni di nuovi alberi il risultato dovrà essere la compensazione delle emissioni.
P&S: Una delle critiche che viene fatta a chi vola pagando una compensazione per la CO2 emessa è che questo meccanismo sia un po’ come la compravendita delle indulgenze nel XVI secolo. I ricchi fanno scelte sbagliate e poi, pagando, si lavano la coscienza. In questo modo i comportamenti impattanti sono incentivati e non ridotti. Sei d’accordo?
FC: La compensazione non è di certo la soluzione, viviamo in un mondo finito e ad un certo punto lo spazio per compensare finirà. Senz’altro aiuta a guadagnare tempo ed a gestire le emissioni di viaggi difficili da evitare, come quelli di lavoro.
La compensazione viene usata da tantissimi operatori economici in tutto il mondo, anche multinazionali, e sono nate attività che fanno impresa con le attività di compensazione e dei crediti di carbonio (come le fiorentine Treedom e Carbon Sink).
P&S: Personalmente, sapendo come vengono usati molti dei soldi donati per progetti di sviluppo, rimane il dubbio che questa cifra non serva realmente a compensare le emissioni. Come posso essere sicuro dell’utilizzo dei soldi che verso?
FC: È un dubbio legittimo. Il consiglio è di rivolgersi a operatori che garantiscono autorevolezza e soprattutto tracciabilità delle azioni a cui il compensatore, ovvero il pagante, contribuisce. Ecco tre consigli:
P&S: Il sito www.co2.myclimate.org mi dice che se volo da Firenze a Parigi emetto 460 kg di CO2 e che posso compensare versando 10€. Questo numero ci stupisce, mi sembra molto basso, se davvero è così economico compensare le nostre emissioni di CO2 perché le emissioni continuano ad aumentare?
FC: Il motivo per cui il costo della compensazione è così basso è che ad oggi in pochi si pogono il problema di compensare. Questo fa si che esistano molti modi di farlo a basso costo. Piantare degli alberi in zone meno ricche del mondo, per esempio. Ma se tutti compensassimo per tutta la CO2 che emettiamo allora non sarebbe facile trovare un modo economico per compensare. I costi aumenterebbero molto.
Al contempo la popolazione e il PIL, in gran parte dei paesi in via di sviluppo in Africa e in Asia, sono destinati ad aumentare nei prossimi decenni con tutto ciò che questo comporta: più viaggi, più aerei per trasportare passeggeri e quindi più emissioni. Al tempo stesso bisogna riflettere sul fatto che il carburante degli aerei non rientra nell’Accordo di Parigi sul clima e, per giunta, grazie a un accordo del 1944 (Convenzione di Chicago) non è tassabile, e anzi il trasporto aereo beneficia di importanti incentivi che rendono l’uso di tale mezzo particolarmente conveniente. Un volo low cost costa mediamente 3 – 4 centesimi di euro al km, contro i 10 di un treno ad alta velocità e i 25 di un’automobile.
In uno studio condotto dal governo olandese, si afferma che una misura fiscale atta a tassare il kerosene degli aeromobili (ca 0,33 €/litro di carburante) ridurrebbe del 10-11% le emissioni di CO2 dell’aviazione senza impattare negativamente sul mercato del lavoro del settore.
P&S: Grazie e buone vacanze!
Come tutti i paesi europei, anche in Italia entro il prossimo 3 luglio deve essere recepita la Direttiva Europea SUP (Single Use Plastics), contro i prodotti in plastica monouso, pena una procedura di infrazione con tutti i costi connessi.
Nonostante il percorso di approvazione della Direttiva duri da tempo, ci troviamo alle porte di questa scadenza con resistenze dell’ultimo minuto, pressioni e richieste di deroghe e modifiche.
Rivolgiamo quindi 5 domande al Ministro Cingolani perché chiarisca e porti l’Italia nella giusta direzione di ridurre davvero la plastica e le criticità ambientali che la sua produzione e uso comporta.
La mattina del 3 maggio Luana, operaia tessile, termina la sua vita per un incidente mentre lavorava all’orditoio, macchinario utilizzato per distribuire i filati e comporre così il tessuto nella successiva fase di tessitura.
Luana aveva 22 anni, un figlio piccolo, tanti sogni che cercava di portare avanti grazie al lavoro che svolgeva, da circa un anno, nel distretto tessile della provincia di Prato, il più grande d’Europa. Casi come questo “fanno notizia” ma il problema delle morti sul lavoro è quotidiano, anche in settori, come quello della moda che continua a crescere a ritmi importanti e che, soprattutto nell’est asiatico, presenta condizioni di salute e sicurezza e rispetto dei diritti sociali fortemente critiche.
Tutto ciò suscita in noi delle domande, tentativi di capire perché siamo arrivati a questo punto e come se ne può uscire. Abbiamo chiesto qualche impressione a Francesca Rulli, CEO di Process Factory e founder di 4sustainability, marchio che attesta il rispetto di standard di sostenibilità ambientale e sociale nella filiera moda.
Ecoló: Ciao Francesca, grazie per la tua disponibilità. La notizia della morte di Luana d’Orazio ha sconvolto un po’ tutti. Al di là del giudizio del caso specifico che verrà accertato e che non spetta a noi dare, possiamo pensare che sia stata una fatalità? Quanto è diffuso il problema del rispetto delle condizioni di sicurezza nelle lavorazioni tessili?
Francesca Rulli: Per nostra fortuna, la normativa italiana – il Decreto 81/2008, in particolare – è largamente applicata e rispettata. L’aspetto che ci preoccupa è più che altro quello culturale. La norma è presidiata infatti in modo diverso a seconda delle professionalità presenti in azienda: esistono aziende dalla grande responsabilità in cui le nomine sono forti, altamente professionali e quindi anche l’attenzione dell’imprenditore e dei suoi dipendenti sono elevate, perché si investe in formazione e controlli. C’è ancora una quota di aziende, però, in cui questo tema della sicurezza è visto ancora e soltanto sotto il profilo della compliance: metto in ordine “le carte” per sentirmi a posto sul piano formale, ma non investo sulla cultura, sulla formazione, sui controlli, sulle responsabilità… In questi casi, può capitare ciò che si vorrebbe non capitasse mai e che invece è capitato di recente in alcune aziende del settore tessile, come hanno riportato i media. La sfida è riuscire a far in modo che le regole esistenti siano vissute in azienda non come meri adempimenti di legge, ma come una responsabilità e un impegno: in gioco, c’è la sicurezza dei lavoratori.
Ecoló: Quali possono essere le soluzioni per evitare situazioni come queste? Servono più controlli? Considerato anche che le due vittime che ci sono state nel distretto tessile pratese nei primi mesi dell’anno erano poco più che ventenni, serve investire di più nella formazione dei lavoratori?
FR: Io direi proprio di sì, la formazione è fondamentale e i controlli lo sono altrettanto. C’è da diffondere una cultura e un’attenzione a queste tematiche che passa proprio dai comportamenti delle persone, dai controlli dei supervisori o dei capi reparto, dagli aggiornamenti normativi, dalla verifica di macchinari… Tutto ha spesso a che fare con i ritmi di lavoro a cui sono sottoposte le persone, ritmi che portano spesso a trascurare alcuni fattori non irrilevanti di rischi. “Ho sempre fatto così”, “Tanto, cosa vuoi che succeda?”… E la tragedia è lì, in agguato.
Ecoló: Le aziende della filiera sono spesso sotto forte pressione per la richiesta dei grandi marchi di ottenere bassi costi di produzione e lavorazione, questo influenza la capacità di garantire il rispetto delle condizioni di sicurezza e di impatto ambientale per le piccole aziende del settore?
FR: Non possiamo generalizzare perché dipende da committente a committente, ma in linea di massima direi di sì. Ci sono marchi fortemente impegnati anche nel controllo delle loro filiere, ma molti altri che, guardando solo alla leva del profitto e quindi all’abbattimento del prezzo, sottopongono le filiere a una pressione veramente importante. Questo non giustifica, naturalmente, la ricerca del risparmio in laddove c’è in gioco la sicurezza delle persone o la tutela dell’ambiente, ma certo, può essere una causa. I livelli di responsabilità, in questo caso, sono due: del cliente che tira al minimo il prezzo di produzione, ma anche quello dell’azienda che pur di prendere l’ordine e mantenere il livello produttivo prova a risparmiare su temi che sono invece fondamentali per la sostenibilità e il buon andamento del business, nel rispetto dell’uomo e dell’ambiente. È un tema su cui c’è un’attenzione crescente… Noi per primi ci spendiamo ogni giorno per aiutare le imprese della filiera a sistematizzare i controlli, le procedure, gli strumenti più idonei a performare bene nel rispetto dell’ambiente e delle persone. E a crescere integrando etica e business, che poi significa adottare un modello di sviluppo autenticamente sostenibile. Tutto questo si scontra ancora con logiche di mercato fortemente orientate al profitto. Noi spingiamo perché tale paradigma cambi velocemente e la distribuzione del valore, piano piano, cominci a toccare tutte le filiere.
Ecoló: Quello che vediamo in Italia ci tocca da vicino, ma sappiamo bene che in altri paesi del mondo le condizioni di lavoro sono anche peggiori. Cosa ci puoi dire su questo e secondo te il settore come sta affrontando queste problematiche?
FR: Come dicevo, l’Italia è tra le realtà più avanzate sul piano normativo – addirittura un altro pianeta, se il confronto lo facciamo con i paesi in via di sviluppo dove mancano le condizioni minime per parlare di responsabilità sociale, di diritti umani, di uguaglianza, di sicurezza… e quindi anche di macchinari all’avanguardia. Se il tema è poi quello della tutela ambientale, sono tante le aree del mondo in cui il concetto di depurazione o di riduzione delle emissioni in atmosfera si applica solo a poche realtà eccellenti isolate. In Italia no, in Italia il numero di imprese che ha avviato in qualche forma la trasformazione del proprio modello di business verso la sostenibilità – grazie al contesto favorevole, alla lungimiranza dell’imprenditore… – sono sempre più numerose. Ma guai ad abbassare la guardia: ci sono distretti in cui bisogna ancora investire su materie come l’antincendio, la formazione, la cultura dei lavoratori… Resta tanto da fare anche da noi.
Ecoló: Gli standard del commercio internazionale e i requisiti sulle merci possono essere un possibile strumento di controllo? Come mai aspetti di sostenibilità ambientale e sociale non fanno parte di questi standard?
FR: Non siamo arrivati ancora a questo punto, ma ci sono dei segnali incoraggianti. È in corso di definizione, infatti, la due diligence legislation[1], votata a marzo scorso dal Parlamento Europeo e relativa alla due diligence delle imprese in materia di diritti umani e ambiente. Lanciata un anno fa dal commissario UE della giustizia Didier Reynders, l’iniziativa comporterà l’obbligo per i paesi membri di dare evidenza della trasparenza delle filiere, arrivando a monitorarne i requisiti ambientali e sociali, appunto, il rispetto dei diritti umani, della sicurezza, dell’impatto ambientale.
Questo sul fronte normativo. Di iniziative volontarie da parte di molti grandi brand sulle proprie filiere globali possiamo già contarne diverse da anni, ma è chiaro che non potremo assistere a un vero cambio sistemico finché non ci sarà una legge uguale per tutti. La due diligence legislation potrebbe essere un fattore non trascurabile di cambiamento proprio perché interesserà le filiere globali: se l’azienda ha sede in Europa ma si approvvigiona ovunque, nel mondo, dovrà dare evidenza del rispetto dei requisiti ambientali e sociali della filiera da cui si approvvigiona.
Ecoló: Per concludere, cosa è 4sustainability e come, con le vostre attività, cercate di portare quel cambiamento di cui ci hai parlato? Quale prospettiva vedi per i prossimi anni?
FR: 4sustainability è un protocollo, un sistema di implementazione di filiera basato su sei dimensioni di sostenibilità e concepito per supportare l’impresa nella realizzazione di un modello di business sostenibile e quindi nella verifica di tutti i requisiti ambientali e sociali necessari per poterlo definire tale. Partendo da una fotografia iniziale, il protocollo consente di mettere a punto un serie di procedure, regole di implementazione e misurazione relative all’impatto sociale e ambientale del proprio sistema produttivo per dimostrare un miglioramento continuo nel tempo. Al momento, con nostra grande soddisfazione, vediamo che in Italia sono tantissime le aziende che hanno voglia di scommettere su questo e si stanno mettendo in discussione, aziende che, partendo da performance ambientali e sociali già molto buone, vogliono continuare a crescere, a innovare, a cercare soluzioni per ridurre il proprio impatto ambientale e migliorare le condizioni sociali. Dal nostro osservatorio – principalmente italiano, ma con numeri interessanti anche a livello globale – vediamo che questo trend è già in essere e che alcuni grandi nomi della moda stanno facendo da apripista. Pochi, purtroppo, ma volenterosi! Mi riferisco per lo più a gruppi internazionali che hanno dedicato budget e risorse importanti per trainare e formare le filiere mondo, sviluppando sistemi di controllo e in alcuni casi anche di riconoscimento. Noi, con loro, ci diamo da fare sulla filiera perché questo si realizzi e sia monitorato e misurato costantemente, con un sistema trasparente di condivisione dei risultati a marchio 4sustainability.
Un’ultima considerazione voglio farla sul tema dell’educazione alla responsabilità, che negli ultimi 30-40 anni ci siamo persi, troppo occupati a guardare solo al profitto. Fare sostenibilità – evitando incidenti come quello drammatico in cui ha perso la vita Luana – significa invece recuperare i principi della responsabilità: nelle famiglie, nella scuola, in azienda… L’etica nel business nasce da qui, è ciò che porta le imprese (e gli individui) a immaginare un modello operativo diverso che si rivela anche, peraltro, il più efficace sul piano delle performance.
[1] http://www.vita.it/it/article/2021/04/27/governance-societaria-sostenibile-un-passo-avanti/159140/
Exctinction Rebellion è il movimento globale che non vuole arrendersi all’idea che il collasso ecologico sia inevitabile. Nato tre anni fa in Regno Unito si è diffuso in Italia e oggi è presente anche a Firenze. Gaia Pedrolli e Alberto Distefano, entrambi attivisti di XR Firenze, ce ne svelano la filosofia e la modalità d’azione.
Ecoló: XR è nato nel Regno Unito nel 2018, qual è lo stato del movimento oggi in Europa e nel mondo?
XR: Il movimento è in continua crescita, attualmente ha più di 1200 gruppi locali in 75 paesi. In Italia ci sono circa 30 gruppi locali. L’organizzazione di XR ci ha permesso di rimanere attivi anche durante i lockdown, spostando in parte l’attività sul web per programmare azioni sul territorio quando sarebbero diventate possibili. Malgrado le difficoltà logistiche è stata organizzata una Ribellione internazionale a settembre/ottobre che ha coinvolto tutti i paesi in cui l’organizzazione è presente.
Anche in questo momento siamo attivi sia online, con iniziative di informazione/formazione, sia sul territorio programmando e realizzando azioni.
In Toscana, oltre a partecipare alla Ribellione di ottobre a Roma, in questi mesi abbiamo organizzato una campagna per la tutela del Parco di Migliarino-San Rossore, nata per la revisione del PIT Regionale, delle iniziative per la chiusura delle cave nelle Apuane e stiamo progettando una campagna per l’istituzione di Assemblee cittadine sull’utilizzo dei fondi Next Generation EU nella nostra regione.
Ecoló: Uno dei concetti chiave alla base delle vostre rivendicazioni è l’affermazione di una cultura rigenerativa, potresti spiegarci meglio di cosa si tratta?
XR: La cultura rigenerativa è uno dei cardini di XR. L’attuale sistema politico-economico sta distruggendo la vita sulla terra ed è profondamente ingiusto, però tutti ne siamo parte, e se vogliamo davvero creare un mondo adatto alle generazioni future è necessario agire per il cambiamento, un cambiamento che coinvolga anche ciascuno di noi. La cultura rigenerativa si manifesta in quattro dimensioni: la prima è prendersi cura di sé stessi; la seconda è prendersi cura uno dell’altra (anche durante le azioni); la terza riguarda le modalità con cui interagiamo con la comunità, in primis la nostra comunità di Extinction Rebellion ma anche la comunità a cui apparteniamo; la quarta è la connessione con la natura, un aspetto fondativo del nostro movimento.
Crediamo che sia fondamentale modificare il modo di cui ci rapportiamo gli uni con gli altri, per questo non solo le nostre azioni sono sempre nonviolente ma tutto ciò che contraddistingue il movimento: come comunichiamo, come siamo organizzati, come agiamo.
Ecoló: Quali strumenti di lotta e protesta ritenete siano più efficaci per contrastare il cambiamento climatico?
XR: Ci teniamo a sottolineare che non esiste solo la crisi climatica, ma che siamo in mezzo ad un’altra crisi, interconnessa con quella climatica e se possibile ancor più grave: la drammatica riduzione della biodiversità. Vanno affrontate entrambe con grande urgenza. Decenni di attivismo ecologista hanno purtroppo dimostrato che le strategie finora adottate non sono riuscite a risolvere il problema: la crisi climatica ed ecologica stanno accelerando e niente sembra arrestarle. Questo perché, per quanto ampie e diffuse, le azioni portate avanti finora non sono riuscite a incidere significativamente sulle scelte politiche. Ci sono stati dei successi locali, ed anche alcuni successi globali, ma non si è riusciti a incidere veramente sui processi che sono alla base di queste crisi. Noi pensiamo che la crisi sia anche una crisi politica, di rappresentanza, in cui i politici sono troppo condizionati dalla ricerca del consenso e dagli obiettivi a breve termine. C’è però una speranza: ricerche socio-politiche hanno dimostrato che laddove i movimenti di protesta sono riusciti a coinvolgere attivamente una percentuale significativa della popolazione (si parla di almeno il 3,5% della popolazione) è stato possibile modificare radicalmente lo status quo, e questo ha funzionato più efficacemente per movimenti che hanno scelto di adottare la disobbedienza civile nonviolenta. Anche per queste ragioni, oltre che per un’adesione ai valori della nonviolenza, Extinction Rebellion ha deciso di utilizzare l’azione diretta nonviolenta come strumento di pressione sui governi e di acquisizione dell’appoggio della popolazione.
Ecoló: XR parla spesso di ecofascismo, ma cosa intendete con questo termine?
XR: Sappiamo che se non si interviene radicalmente e repentinamente le crisi climatica ed ecologica avranno effetti sempre più devastanti, e determineranno drammatiche conseguenze sociali ed economiche, come stiamo già sperimentando con l’attuale crisi pandemica.
Questo sovrapporsi di emergenze produce paura e angoscia verso il futuro, e potrebbe indurre le persone ad andare nel panico e a reclamare interventi decisi ed autoritari, interventi che a loro volta acuirebbero i contrasti sociali rendendo la transizione ecologica invisa alla popolazione. A questo ci si riferisce con ecofascismo, la situazione che viene presentata ad esempio nella distopia rappresentata dalla serie TV “La barriera”.
Extinction Rebellion pensa invece che a queste crisi le società debbano rispondere con più democrazia, modificando dal basso il sistema tossico che le ha determinate, adottando scelte condivise e rispettando il principio della giustizia climatica ed ecologica. È quanto già Alex Langer pensava un quarto di secolo fa quando affermava che “la conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile”.
Ecoló: Come prende decisioni Extinction Rebellion? Come garantisce democrazia e trasparenza?
XR: Il modello organizzativo di Extinction Rebellion si basa su autonomia e decentralizzazione. Creiamo collettivamente le strutture di cui abbiamo bisogno, all’interno delle quali esistono dei ruoli chiari e definiti. Per cercare di contrastare gli effetti tossici del potere i ruoli di responsabilità vengono ricoperti solo per un periodo di tempo definito, solitamente sei mesi, e poi ci si alterna a rotazione.
Le decisioni non vengono prese in un regime assembleare, ma ogni struttura ha piena responsabilità del proprio mandato e totale autonomia relativamente alle modalità per raggiungerlo, purché si muova all’interno dei valori di Extinction Rebellion. Le diverse strutture interagiscono fra loro al fine di conseguire gli obiettivi del movimento. È un’organizazione non orizzontale, ma a rete, con tanti cerchi autonomi che interagiscono fra loro, che favorisce l’assunzione di responsabilità, l’autonomia e la crescita di consapevolezza di ciascuno.
Ecoló: In cosa differisce da Fridays For Future e in che rapporto sono i due movimenti?
XR: Fridays For Future è un movimento che nasce fra gli studenti delle scuole superiori, che agiscono soprattutto attraverso gli scioperi del venerdì. Extinction Rebellion è un movimento al quale partecipano persone delle più diverse fasce di età, e dove ognuno apporta il proprio contributo in base a quelle che sono le propria disponibilità di tempo, le proprie inclinazioni e la propria propensione al rischio. Al cuore dell’attività di Extinction Rebellion c’è la disobbedienza civile che si esercita attraverso le azioni dirette nonviolente, ma anche chi non è disponibile a partecipare a questo tipo di iniziative può dare il proprio contributo, sostenendo chi partecipa alle azioni, svolgendo attività di promozione per allargare le fila del movimento, facendo presentazioni per aumentare la consapevolezza della popolazione sulla gravità dell’emergenza che stiamo attraversando. In Extinction Rebellion c’è posto per tutti quelli che aderiscono ai valori del movimento.
Ecoló: Cosa rimproveri alla politica dei partiti in Italia e in Europa?
XR: Sono sotto gli occhi di tutti i decenni di inazione nei confronti dell’emergenza climatica ed ecologica, che le hanno rese sempre più gravi e difficili da risolvere. La democrazia rappresentativa così come la conosciamo ha fallito e non è riuscita ad affrontare la sfida più grande, malgrado le roadmap e le COP che si sono susseguite di anno in anno, che hanno saputo produrre solo vuoti accordi non vincolanti.
È un sistema che produce enormi disuguaglianze e ingiustizie, ma la politica non ha mai espresso la volontà di metterlo minimamente in discussione, perché affonda le proprie fondamenta in una cultura estrattivista e patriarcale basata sulla competizione, la conquista e l’oppressione dell’altro.
Siamo tutti parte e all’interno di questo sistema tossico, e riteniamo che nessun singolo individuo sia da incolpare o biasimare, ma che siano da cambiare alla radice le strutture della società e i pilastri del potere.
Ecoló: Cosa dobbiamo aspettarci da voi in Italia e a Firenze per il prossimo futuro?
XR: Ci vedrete per le strade in occasione della ribellione di primavera, a partire dal Global Climate Strike del 19 marzo indetto da Fridays For Future, al quale parteciperemo alla nostra maniera.
In questo periodo stiamo organizzando un’assemblea di cittadini a livello toscano, in collaborazione con altre realtà dell’ecologismo locale e con organizzazioni che promuovono la democrazia partecipativa, al fine di permettere ai cittadini di dire la loro sulla destinazione dei fondi Next Generation EU che verranno spesi nel nostro territorio.
Ecoló: Grazie del vostro tempo!
Gaia Pedrolli è insegnante e attivista di Extinction Rebellion. Alberto Distefano è medico e attivista di Extinction Rebellion.
Paolo Pinzuti è un ciclista, un viaggiatore, ma di lavoro fa l’editore e si occupa di marketing e di comunicazione per Bikeitalia.it. Era stato anche candidato come indipendente nelle liste di Europa Verde alle ultime elezioni europee. L’abbiamo intervistato.
Ecoló: Ciao Paolo, grazie per la tua disponibilità per questa intervista. Ci racconti come hai fatto a far diventare la bicicletta il tuo lavoro?
Paolo Pinzuti. Nel 2011 io e Pinar, mia moglie, abbiamo lasciato il lavoro e siamo partiti per un viaggio in bicicletta di 4 mesi in sud America. Con bici e tenda, abbiamo girato per l’Argentina, il Cile, la Bolivia e il Perù. Per raccontare questa esperienza ho aperto un blog. Finito il viaggio ho continuato a scrivere di bici, cicloturismo, ciclabilità urbana, sicurezza sul mio blog, che nel 2013 è diventato una testata giornalistica, bikeitalia.it. La gestione della rivista ha reso necessario l’apertura di una società, Bikenomist srl, che oggi dà lavoro a 8 persone e fa comunicazione, organizza corsi di formazione e fa consulenza sulla mobilità urbana e sul cicloturismo.
Ecoló. La bici, oltre ad essere il tuo lavoro, è ancora una passione? Riesci a goderti un’escursione o un viaggio? Quest’estate ad esempio dove ti ha portato la tua bicicletta?
PP. La bici per me è parte integrante della vita, come lo sono i pantaloni o le scarpe. Pedalare, oltre a essere una forma di trasporto estremamente efficiente, è anche piacevole per lo spirito e per il fisico e per questo non vi rinuncerei mai. Quest’estate mi sono concesso delle pause di tre giorni con dei bei giri in bicicletta sulle Dolomiti, in alta Val di Susa e sulla Francigena in Toscana.
Ecoló. Questa primavera sei stato candidato alle elezioni europee per Europa Verde. Come è successo?
PP. Nel suo ultimo discorso da presidente degli USA, Obama disse una cosa che mi ha colpito molto: “se non vi piacciono i vostri rappresentanti nelle istituzioni è inutile lamentarsi: candidatevi e diventate voi i rappresentanti nelle istituzioni.“. Nauseato dal basso livello della politica italiana e dalla mancanza di un’agenda politica ambientalista, ho pensato che fosse mia responsabilità provarci e dare il mio contributo. Ho presentato la mia disponibilità alla candidatura, che è stata accettata.
Ecoló. Qual è il tuo bilancio della tua avventura elettorale? Lo rifaresti?
PP. 1.500 preferenze non sono molte, ma per un outsider della politica non sono da buttare via. Il bilancio comunque per me è positivo perché ho avuto modo di incontrare molte persone bellissime che hanno voglia di fare “cose” per raddrizzare la politica, il mondo e l’ambiente. Lo rifarei a occhi chiusi perché è stata una delle esperienze più intense della mia vita. Ma non so se lo rifarò.
Ecoló. Secondo te cosa manca al movimento ecologista italiano per poter diventare efficace nell’azione come i partiti verdi della Germania o di altri paesi europei?
PP. È una domanda difficile a cui ho pensato più volte e credo che non esista una risposta univoca perché è un insieme di fattori. Credo che il peccato originale sia una sorta di intellettualismo di fondo che parla (giustamente) di ambiente, ma che poi non è presente sul territorio per “fare” ambiente in modo coerente e continuativo facendosi conoscere dalla “base” coinvolgendola e includendola.
Ecoló. Torniamo alla bici, qual è il singolo intervento, in qualche città italiana, che suggeriresti come esempio virtuoso da imitare per favorire gli spostamenti in bici?
PP. Le persone vanno in bicicletta quando si trovano in un ambiente sicuro e una città è sicura per chi va in bici quando non si corre il rischio di essere investiti dall’automobilista distratto o incosciente di turno. Per questo occorre limitare la velocità d’uso delle auto, ma anche il suo utilizzo. Se ci pensiamo, le piste ciclabili altro non sono che pezzi di strada che sono stati interdetti alle auto. La moderazione del traffico è la chiave. E se vuoi un esempio, Reggio Emilia è più che calzante.
Ecoló. Grazie per il tuo tempo, buona strada!
I cambiamenti climatici e il conseguente aumento delle temperature provocheranno più frequenti e intense stagioni secche in tutto il mondo, rendendo il problema della scarsità idrica pervasivo.
In appena due decenni la quantità d’acqua potabile disponibile pro-capite è diminuita di circa il 20%, secondo l’ultimo rapporto annuale della FAO “The State of Food and Agriculture”. Le Nazioni Unite stimano che oltre due miliardi di persone vivono in Paesi “sottoposti a un forte stress idrico”, mentre quasi due terzi della popolazione mondiale deve affrontare gravi carenze d’acqua per almeno un mese all’anno. Inoltre, l’UNICEF prevede che, “entro il 2040, un bambino su quattro – circa 600 milioni di minori in tutto – vivrà in aree sottoposte a stress idrico estremamente elevato”. Siccità e fenomeni meteorologici estremi colpiscono in modo sproporzionato i più vulnerabili e, per larga parte, sono conseguenza dei cambiamenti climatici in atto per i quali i paesi più ricchi hanno le maggiori responsabilità.
Questi segnali fanno vedere la scarsità della risorsa acqua sempre più frequentemente come un rischio economico, alimentando gli appetiti del mercato al punto che, il Cme Group, la più grande piazza finanziaria dei contratti a termine del mondo, in collaborazione con il Nasdaq, ha annunciato la creazione del primo future sul mondo sull’acqua.
Ma cosa sono i Futures? Un contratto future è uno strumento mediante il quale acquirente e venditore si impegnano a scambiarsi una determinata quantità di una attività (detta sottostante) a un prezzo prefissato e ad una data futura prestabilita. Questo contratto può essere poi scambiato sui mercati regolamentati.
In pratica, un future nasce nel momento in cui qualcuno è interessato a predefinire il prezzo di un bene a causa delle variabili che tendono a renderlo imprevedibile. In California l’acqua è un bene molto appetibile per prodotti finanziari in quanto è una risorsa essenziale e soggetta all’impatto incisivo dei cambiamenti climatici: siccità brutali, alto numero di incendi e precipitazioni estreme. Basti pensare che il 40% dell’acqua consumata in California è destinata all’irrigazione, con costi molto elevati specie per alcune colture, come quella delle mandorle.
Da qui la nascita dei primi futures sull’acqua, proposti in linea teorica come strumento di risk management, per aiutare le municipalità, le aziende agricole e le imprese industriali a proteggersi dai rischi economici legati alla carenza idrica ma che già mostra ambizioni diverse.
In California il future sull’acqua debutterà nel quarto trimestre, sulla piattaforma Globex con sottostante il Nasdaq Veles California-Water Index per un mercato da 1,1 miliardi di dollari.
Sebbene sia stato progettato per il mercato californiano, il gruppo statunitense vuole espanderne il modello. “Con quasi due terzi della popolazione mondiale che dovrebbe affrontare la scarsità d’acqua entro il 2025, questa rappresenta un rischio crescente per le imprese e le comunità di tutto il mondo”, ha infatti spiegato Tim McCourt, responsabile Cme Group degli indici azionari e dei prodotti di investimento.
La situazione in Italia. Nel nostro paese la gestione della risorsa idrica è disciplinata da ARERA, che ne regola anche le tariffe di vendita, con il nuovo Metodo Tariffario Idrico valido per il periodo 2020-2023. Questo nasce nel segno del Water Service Divide e prevede l’efficientamento dei costi operativi e delle gestioni, la valorizzazione della sostenibilità ambientale anche attraverso il Piano per le Opere Strategiche e gli incentivi agli strumenti di misura dei consumi, per aumentare la consapevolezza dei cittadini. Il Metodo premia l’efficienza energetica e prevede incentivi per il risparmio e il riuso delle acque, nell’ottica di un’economia circolare.
Tutto ciò comporta che, rispetto al caso californiano, non ci possa essere un soggetto con interesse di mercato o di manovre speculative, in quanto il prezzo è regolato e non è possibile stipulare prezzi differenti in base alla disponibilità della risorsa.
Inoltre, ad oggi il sistema italiano prevede una gestione dell’acqua in cui la matrice pubblica è prevalente, considerando società a completa gestione pubblica, miste o gestite direttamente dall’ente locale[1] e che, in seguito alla vittoria del sì referendum di giugno 2011:
Difatti, nella realtà, poco è cambiato a seguito del referendum, che avrebbe dovuto portare ad una gestione effettivamente pubblica, ma ad oggi non è così! (maggiori informazioni qui).
Nonostante tutto ciò, pensiamo sia giusto chiedersi se è davvero così remoto che anche in Italia e in Europa non possa figurarsi uno scenario di scarsità di risorsa idrica tale da innescare la richiesta di prodotti finanziari quali i futures, considerando in particolare la scarsa considerazione che i decisori politici hanno dei cambiamenti climatici.
E a livello globale? Dove sono già in atto politiche di water grabbing, ossia di accaparramento della risorsa idrica, i future sull’acqua potranno essere parte del problema?
Per provare a rispondere a queste domande ne abbiamo parlato con Marirosa Iannelli, presidente del Water Grabbing Observatory, specializzata in cooperazione internazionale e water management e co-autrice del libro “Water Grabbing, Le guerre nascoste per l’acqua nel XXI secolo“.
Ecoló: Ciao Marirosa, grazie per la disponibilità a rispondere alle nostre domande. Per prima cosa vorremmo chiederti di cosa ti occupi esattamente.
Marirosa Iannelli: Grazie a voi per questa intervista! Da circa 10 anni lavoro nel settore della cooperazione internazionale, collaborando con organizzazioni non governative come project manager di progetti ambientali. Attualmente lavoro con Amref Health Africa, storica ong africana e con Italian Climate Network, coordinando progetti di educazione, comunicazione e advocacy climatica. Circa 3 anni fa ho fondato insieme al giornalista e geografo Emanuele Bompan il Water Grabbing Observatory, per documentare casi di accaparramento idrico, di violazione dei diritti umani e ambientali in tutto il mondo…e molto, molto, altro.
Ecoló: Il termine “grabbing” tendiamo ad associarlo agli acquisti di terre ma nel tuo libro ci racconti di quanto si stia estendendo all’acqua. In che misura questo è un fenomeno che dovrebbe preoccupare anche noi?
MI: Terra e acqua sono due risorse strettamente interconnesse: land e water grabbing infatti spesso e volentieri vanno di pari passo, ma nel libro abbiamo posto l’accento in particolare sulla gestione delle risorse idriche. “L’acqua” è un tema molto ampio: dalla privatizzazione, alla scarsità idrica dovuta ai cambiamenti climatici, dalla costruzione di mega impianti idroelettrici molto impattanti sugli ecosistemi all’inquinamento o sovra sfruttamento causato dall’estrazione mineraria. Ogni qual volta che non si fanno i conti con i diritti della natura e delle persone, depauperando territori e gravando sulla vita di comunità e popolazioni più a rischio, possiamo parlare di grabbing. Ovviamente con criticità e conseguenze molto diverse a seconda dell’area del mondo, ma la dinamica di fondo è la stessa.
Ecoló: Quali strumenti ci sono per contrastare il water grabbing? Esistono esempi virtuosi di interventi che hanno migliorato la situazione?
MI: In termini molto concreti, a mio avviso l’accaparramento idrico può essere contrastato in primis riconoscendo l’acqua come bene comune e come diritto umano. Questa consapevolezza passa attraverso un riconoscimento giuridico e politico che tuteli realmente questa risorsa in quanto tale e non come merce da quotare in borsa. Una volta assunto tutto ciò, si può davvero lavorare per una gestione sostenibile e partecipata dei sistemi idrici: mi piace citare tra gli esempi virtuosi molti dei comuni francesi, che in un paese che ha le più grandi multinazionali dell’acqua in bottiglia e gestori privati (Veolia, Suez,etc), hanno deciso di “ri-municipalizzarsi” cioè tornare ad una gestione totalmente pubblica dell’acqua, con grossi benefici sia per l’ambiente che per i cittadini. Questi modelli di piccoli, medi e grandi comuni, possono essere presi ad esempio anche in Italia, se solo riuscissimo a fare una vera transizione ecologica della gestione dell’acqua.
Ecoló: Si è parlato di pericolo di speculazione e mercificazione di un bene vitale, dal tuo punto di vista, a livello globale la notizia sui primi future sull’acqua quanto ti preoccupa? a cosa può portare?
MI: Sono molto preoccupata. A oltre 10 anni dalla risoluzione delle Nazioni Unite sul diritto umano all’acqua e ai servizi igienico-sanitari, nonostante l’enorme lavoro di associazioni, movimenti, cittadini in tutto il mondo, non c’è ancora sufficiente consapevolezza sull’urgenza di tutelare la risorsa idrica in quanto bene comune. Questa consapevolezza necessita ormai di un vero lavoro congiunto tra giurisprudenza, scienza, politica ed economia. In uno scenario (presente e) futuro in cui i cambiamenti climatici avranno un impatto sempre maggiore sulle nostre vite, non possiamo più permetterci di ignorare il tema dell’acqua. Temo soprattutto un aumento dei conflitti in aree del mondo già sensibili e colpite sia da siccità che da una cattiva gestione delle risorse, e temo un forte aumento delle disparità sociali.
Ecoló: A livello nazionale invece come siamo messi sulla gestione della risorsa acqua? ci sono fenomeni di accaparramento anche da noi?
MI: Sicuramente in Italia non abbiamo la stessa situazione di comunità che ogni giorno fanno i conti con la necessità di camminare 30 km per raggiungere la prima fonte d’acqua. Ma questo scenario, che ci appare così lontano dalla nostra quotidianità, dovrebbe farci riflettere su quanto poter aprire ogni mattina il rubinetto di casa sia quasi “un lusso” che potremo non permetterci più. Per esempio già nell’estate del 2017 si è “sfiorata” la crisi idrica a Roma dovuta all’abbassamento del Lago di Bracciano (punto di prelievo idrico per la capitale). Ecco che a 10 anni dal referendum per l’acqua pubblica, concretizzare la volontà popolare con una gestione realmente pubblica e democratica delle risorse idriche vorrebbe dire contrastare il water grabbing. Anni di privatizzazione o di gestione partecipata pubblico-privata non hanno portato maggiore efficienza nel servizio, anzi: basti pensare che ad oggi le nostre infrastrutture sul territorio nazionale sono obsolete e letteralmente bucherellate per oltre il 47% (dati Istat del 2019).
Ecoló: Cosa fa in concreto il Water Grabbing Observatory e cosa pensi che possiamo fare noi, come cittadini e come Ecoló?
MI: L’osservatorio è nato con l’obiettivo primario di documentare e dare voce a chi spesso non ce l’ha: abbiamo iniziato proprio andando nei paesi più colpiti dal water grabbing, realizzando interviste, fotografie, approfondimenti con dati scientifici e politici. Il giornalismo d’inchiesta, la ricerca, l’arte sono alla base di molti dei nostri lavori. Dai primi reportage tra Africa, Medioriente, Canada e Sudamerica, alle interviste ai difensori dell’acqua. Ma non solo: oltre alla documentazione sul campo è importante anche informare puntualmente e per questo abbiamo avviato proprio nel 2020, anno in cui non è stato possibile viaggiare a causa della pandemia, la prima newsletter dal mondo dell’acqua. #Accadueo è una nostra selezione di notizie dall’Italia e dal mondo per approfondire il tema dell’acqua, del clima e dei diritti. Spesso ci troviamo letteralmente bombardati da tante informazioni diverse e in contraddizione tra loro, in questo senso il nostro ruolo è verificare news e fonti per renderle fruibili a tutti in modo semplice e accurato. WGO si occupa anche di sensibilizzare cittadini e influenzare i decisori politici: ne è un esempio la campagna #StopAcquaInBottiglia che promuove l’acqua pubblica, l’uso dell’acqua del rubinetto e fornisce numeri chiari e aggiornati sull’enorme business dell’acqua in bottiglia a discapito delle nostri fonti. In ultimo, portiamo avanti l’azione politica necessaria per far si che il diritto umano all’acqua sia riconosciuto come tale, a partire dall’Italia. Come? Lavorando per la legge sull’acqua pubblica che a ormai 10 anni dal referendum ancora non vede la luce. Come cittadini abbiamo un ruolo fondamentale e lo stile di vita che ognuno di noi sceglie è determinante anche per influenzare la politica. Informarsi quotidianamente e studiare sono alla base della comprensione di ciò che ci circonda (e qua mi rivolgo soprattutto alle giovani generazioni, ma non solo!). Agire e scegliere per esempio di non acquistare acqua in bottiglia, è un gesto concreto che ognuno di noi può fare.
Ecoló. Grazie per il tuo tempo, buon lavoro!
[1] Secondo i dati di Utilitalia (2019), oltre la metà degli abitanti residenti (il 54%) riceve un servizio erogato da società interamente pubbliche. Un italiano su 3 lo riceve da società miste a maggioranza o controllo pubblico, mentre un 11% direttamente dall’ente locale (“gestione in house”, possibile solo a determinate condizioni, tra cui il capitale interamente pubblico della società affidataria). Infine, un 2% della popolazione italiana è servita da società private e l’ultimo 1% da società miste a maggioranza o controllo privato.
Complice la crisi climatica che stiamo vivendo e la necessità di ridurre drasticamente l’uso dei combustibili fossili si parla sempre più di transizione energetica. Per fare ciò ci sono studi e articoli che teorizzano la possibilità di arrivare a una produzione energetica che sia al 100% derivante da fonti rinnovabili entro il 2050 (note 1 e 2).
L’obiettivo di andare verso le rinnovabili trova spesso convergenza. Diventa spesso tema di discussione e confronto invece quale debba essere il ruolo del gas naturale in questo percorso, con divisioni tra chi sostiene che per una transizione radicale debba essere abbandonato fin da oggi e chi invece ritiene necessario continuare a investirci, essendo il “meno” inquinante tra i combustibili fossili, con tecnologie consolidate e necessario proprio per portare avanti la transizione verso fonti più pulite.
Da questo dibattito emerge anche una riflessione sul ruolo dello Stato in tale percorso, considerando, tra le altre cose, la presenza di azioni pubbliche per circa il 30% in ENI, attiva nella ricerca e sfruttamento di idrocarburi, come è stato messo in evidenza da Greenpeace e Re:Common in merito a un progetto di estrazione e liquefazione di gas naturale nell’Artico (nota 3).
Per provare ad entrare nel merito della questione ne parliamo con Ivan Manzo, giornalista ambientale facente parte del Segretariato di ASviS.
Ecoló: Ciao Ivan, intanto ti ringraziamo per la tua disponibilità a discutere insieme di un tema cruciale e dibattuto come questo. Vuoi raccontarci più in generale di cosa ti occupi?
Ivan Manzo: Dopo essermi laureato in economia dell’ambiente e dello sviluppo all’Università di Siena, spinto dalle mie passioni sui temi legati allo sviluppo sostenibile sono approdato nel mondo dell’informazione scientifica e ambientale. Attualmente faccio parte del Segretariato ASviS, lavoro sia in redazione e sia con i Gruppi di Lavoro sull’Agenda 2030 (sono referente del GdL sugli Obiettivi di sviluppo sostenibile 6-14-15, rispettivamente “Acqua pulita e servizi igienico-sanitari”, “Vita sott’acqua” e “Vita sulla Terra”), e collaboro con una serie di testate tra cui Giornalisti nell’Erba, Ecofuturo e Tekneco.
Ecoló: A livello generale, considerando la necessità di una transizione energetica verso le rinnovabili, quale può essere secondo te un motivo per cui il gas naturale può essere utile e come.
IM: In una fase di transizione, come quella che stiamo vivendo, abbiamo bisogno di cambiare nel modo più veloce possibile il mix energetico a disposizione. Nonostante le tante pubblicità green che ci ‘bombardano’ quotidianamente attraverso i media, bisogna ricordare che ancora oggi circa l’80% dell’energia prodotta nel mondo proviene da fonti fossili. Un dato che parla da solo, e che ci fa capire la grandezza della sfida a cui siamo chiamati. Pur essendo anche il gas un combustibile fossile, in fase di combustione questo ha un impatto minore sul clima rispetto a carbone, che resta la forma più ‘sporca’ per produrre energia, e petrolio. Motivo per cui il gas deve essere utilizzato come elemento in grado di accompagnare la crescita esponenziale delle rinnovabili. Se invece pensiamo di farne la fonte energetica del futuro, stiamo di nuovo sbagliando tutto e, in un momento così delicato dove la comunità scientifica ribadisce che la finestra dell’azione per la lotta al cambiamento climatico si sta chiudendo, non possiamo permettercelo.
Ecoló: E quale invece un motivo per cui il gas naturale deve essere abbandonato il prima possibile e come farlo.
IM: Proprio per il motivo citato in precedenza. Stiamo parlando comunque di una fonte fossile che, sebbene in fase di combustione produca meno CO2 di carbone e petrolio, ha grossi impatti sul sistema climatico. Mi spiego. Prendiamo il metano, in genere questo per arrivare nelle nostre case deve essere prima trivellato o recuperato attraverso l’attività di “fracking”, poi spostato lungo i gasdotti, trasformato in liquido, traportato magari su una nave, rimesso in un gasdotto, ecc… Parliamo di un lungo processo. Durante questo processo si generano diverse perdite che, di fatto, liberano il gas in atmosfera. Ecco, attualmente il metano è meno presente della CO2 in atmosfera, ma dobbiamo ricordare che una molecola di metano (CH4) ha un “potere climalterante”, nel breve termine, di 72 volte maggiore della molecola di CO2.
Ecoló: Date le implicazioni del tema a livello globale, come vedi la posizione dell’Unione Europea in merito? Nel Green New Deal come è considerato il ruolo del gas?
IM: L’Unione Europea prima dell’esplosione della pandemia, grazie anche alla nuova Commissione guidata da Ursula Von der Leyen, ha puntato forte sul Green New Deal. Una decisione confermata anche attraverso la creazione del piano di ripresa post Covid-19. Basti pensare che il fondo Next Generation EU intende destinare il 37% delle risorse su transizione energetica ed ecologica. Obiettivo dichiarato dell’Unione è quello di essere neutrale da un punto di vista climatico al 2050, dove per neutralità si intende che il totale delle emissioni gas serra prodotte dal Continente saranno completamente assorbite dagli ecosistemi. Per questo si fa riferimento a “emissioni nette zero”. Sulla base dei piani attuali l’Europa, però, non è sulla buona strada. Secondo infatti uno scenario costruito dall’IRENA (International Renewable Energy Agency), per centrare l’obiettivo al 2050 l’energia rinnovabile deve raggiungere il 71% dell’offerta totale di energia, mentre il sistema elettrico deve essere alimentato per l’86% da fonti rinnovabili. Nel dibattito europeo il gas è diventato centrale ma non dobbiamo commettere l’errore di creare infrastrutture energetiche che per essere alimentate necessitano di un combustibile fossile, infrastrutture che poi dobbiamo tenerci per diversi anni e che rischiano di minare alla base l’ambizioso obiettivo europeo. Per esempio, negli ultimi tempi cresce il dibattito sul ruolo dell’idrogeno, tanto che molti analisti dicono che l’utilizzo di questa fonte esploderà nei prossimi dieci anni, anche perché incentivata dalle politiche europee. Ma di che tipo di idrogeno stiamo parlando? Perché tutt’ora nel mondo la quasi totalità dell’idrogeno, circa il 90%, viene estratta da fonti fossili. Per essere coerente l’Europa dovrà quindi puntare sulla crescita dell’idrogeno “verde”, lo è per esempio quello estratto da rifiuti, tenendo ben presente però che la forte espansione delle rinnovabili è la vera soluzione da mettere in campo.
Ecoló: In Italia invece, qual è al momento il ruolo dello Stato nella gestione della transizione energetica, alla luce anche del Piano Nazionale Energia e Clima?
IM: Il ruolo dello Stato è determinante per incentivare e accelerare la transizione energetica. Non possiamo, per esempio, pretendere di utilizzare i fondi europei per la transizione e continuare ogni anno a spendere 19 miliardi di euro l’anno in sussidi dannosi per l’ambiente. È un controsenso che va eliminato dal bilancio dello Stato. Il Piano Nazionale Energia e Clima (PNIEC) è uno strumento fondamentale per guidare il processo di decarbonizzazione ed è una delle urgenze di cui questo governo dovrebbe occuparsi. Il nostro PNIEC non è infatti in linea con quanto deciso dall’Europa, e cioè il taglio del 55% delle emissioni climalteranti entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990. Inoltre negli ultimi tempi il Parlamento europeo si è espresso per un taglio al 60%, l’obiettivo Ue potrebbe quindi diventare ancor più ambizioso. Inoltre, Governo e Parlamento italiano devono approvare il prima possibile anche il Piano Nazionale di Adattamento al Cambiamento Climatico per mettere in sicurezza i territori martoriati dagli effetti della crisi climatica, che ha un sempre maggiore impatto sugli ecosistemi e sul nostro benessere. Abbiamo bisogno di coerenza tra politiche, e di una governance che si ispiri al concetto di resilienza.
Ecoló: A livello statale, negli ultimi anni, ci sono molte critiche anche in progetti infrastrutturali legati al gas naturale, come è stato per il TAP o più di recente per la metanizzazione in Sardegna. Cosa ne pensi?
IM: Un po’ sulla falsariga di quanto detto fino a ora: il TAP è strategico per la sicurezza energetica nazionale ed europea e per un futuro rinnovabile? È questa la domanda a cui bisogna dare risposta, senza perdere l’obiettivo reale che è il contrasto al cambiamento climatico e il mantenimento dell’aumento medio della temperatura terrestre entro i 2°C, limite consigliato dalla comunità scientifica per evitare i più gravi disastri imposti dalla crisi climatica. Quello che vedo io è che ci sono un po’ troppi “TAP” in giro per il mondo da costruire.
Ecoló: Ci rendiamo conto che il tema è complesso e riunisce aspetti tecnici, finanziari, ambientali e non solo. Forse l’aspetto cardine da cui partire però dovrebbe essere quello strategico, partendo dal fatto che come paese siamo fortemente dipendenti dall’estero per il nostro approvvigionamento energetico e, in qualche modo, il ruolo statale in ENI è oggi un fattore di competitività. Questo rischia di determinare un comportamento di ENI a due facce: immagine green e sviluppo di rinnovabili in Italia e continua crescita negli idrocarburi all’estero per mantenere redditività ma, se proviamo a guardare più avanti, con una visione di lungo termine, una transizione energetica che abbandoni completamente i combustibili fossili potrebbe diventare essa stessa un fattore di competitività per il futuro?
IM: La mia personale opinione è che se ENI vuole essere una risorsa per questo Paese deve operare una rapida e totale riconversione di tutti i suoi asset produttivi. Il tempo stringe, non si può continuare a basare la stragrande maggioranza della propria produzione sui combustibili fossili. Ricordo che l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), l’ente scientifico di supporto alla Conferenza ONU sul cambiamento climatico, in tal senso è stato chiaro: per vincere la sfida climatica bisogna lasciare l’80% dei combustibili fossili conosciuti sottoterra. E lo diceva in un suo rapporto nel 2012, quindi oggi la percentuale andrebbe rivista al rialzo. Il tempo è scaduto, l’azione non è più rimandabile.
Ecoló: In un’ottica di sviluppo sostenibile, le grandi aziende sono sempre più soggette a rendicontare le loro attività e i risultati raggiunti attraverso indicatori non finanziari, quali i parametri ESG (Environmental, Social and Governance). Come possono coniugarsi gli investimenti in progetti legati al gas naturale rispetto a percorsi di miglioramento secondo le nuove metriche di sostenibilità e in quali altri ambiti energetici si potrebbe invece investire?
IM: Se i progetti legati al gas sono quelli che contribuiscono alla decentralizzazione del sistema energetico e sono a impatto zero, allora si sposano perfettamente con questi criteri. Facciamo un altro esempio. Se l’idrogeno utilizzato, che quando viene bruciato emette solo vapore acqueo, è prodotto da elettrolisi dell’acqua o da rifiuti l’intero processo è privo di emissioni, e dunque di sicuro rappresenta un aiuto in termini ambientali. In generale, l’obbligo di rendicontazione non finanziaria per le imprese rappresenta un importante passo avanti per la sostenibilità aziendale, ma l’Italia ha sbagliato in passato a non estendere questo obbligo anche alle PMI. Un errore che si potrebbe correggere già nella prossima Legge di Bilancio. Perché parliamo di uno strumento che guida e aiuta le imprese a essere più virtuose, e perché nel corso degli ultimi anni si è capito che la sostenibilità non è un costo ma rappresenta un forte elemento di competitività. A conferma di ciò basta guardare i dati ISTAT. Secondo un’indagine del 2019 emerge che, a parità di condizioni, l’investimento in sostenibilità si traduce in un aumento di produttività del 15% per le aziende di grandissime dimensioni, del 10% per quelle grandi e del 5% per quelle medie. Inoltre, sempre l’Istat, ha certificato recentemente che le imprese che avevano investito in sostenibilità sono anche ripartite meglio dopo il lockdown.
Ecoló: Grazie del tuo tempo a presto!
Siamo con Yamuna Giambastiani, giovane fiorentino, co-fondatore di Forest Sharing, un’innovativa piattaforma che si occupa di gestione condivisa di terreni agricoli e boschivi.
Nelle strategie di lotta ai cambiamenti climatici e all’impatto antropico sul pianeta, il contributo di boschi e foreste è e sarà fondamentale. Se Next Generation EU destina il 37% dei fondi alla transizione ecologica, in che modo queste risorse possono essere convogliate, coinvolgendo settore pubblico e privato, in una rinascita verde dell’Europa che parta proprio dal tessuto forestale e boschivo?
La transizione ecologica ha bisogno di una solida base culturale, che oggi manca in seguito all’allontanamento dalle zone rurali e montane. In città si vive molto lontano dai processi naturali e quindi anche la loro comprensione è più difficoltosa. Il primo passo è culturale. Come è importare sapere da dove arriva l’uovo o la zucchina che mangiamo, è importante sapere come viene prodotta la corrente elettrica che ci ricarica lo smartphone, o l’energia che riscalda le nostre case d’inverno. Questa cultura deve essere a disposizione di tutti e non solo degli esperti, in quanto il comportamento di tutti incide moltissimo sull’uso delle risorse, il riciclo, gli sprechi.
Questo riguarda anche i boschi, anzi soprattutto i boschi! Oggi chi è proprietario di un bosco, crede di avere poco in mano, qualcosa che gli crea preoccupazione per i rischi frane, incendio, caduta rami, etc…invece è proprietario di qualcosa che protegge le valli e le città dalle alluvioni, purifica l’acqua, genera ossigeno, regola la CO2 atmosferica, e tanti altri benefici chiamati servizi ecosistemici.
Nel passato questi aspetti erano più conosciuti, o meglio erano vissuti dalle persone. Oggi i processi naturali sono (un po’) più chiari a livello scientifico, ma ben poco vissuti. Per me, la transizione ecologica dovrà passare dall’unione di questi due aspetti: conoscere e vivere i benefici delle nostre foreste (quindi delle risorse naturali) anche grazie all’uso di processi innovativi e tecnologici. Questo non vuole dire che dobbiamo fare le valigie dalle città e tornare a vivere in montagna, ma riportare un’economia sostenibile nelle nostre montagne, a beneficio delle nostre città. Le risorse che l’Europa si prepara a investire nella rinascita verde dovranno passare dalla crescita culturale dei cittadini, al fine di innescare un vero e proprio interesse verso la cura del territorio. Se tutto funzionerà, troveremo la sostenibilità dei processi, quindi senza bisogno di investimenti a fondo perduto per il mantenimento del territorio, ma un sistema in equilibrio.
Esattamente come possiamo spiegare l’idea del Forest Sharing ai “non addetti ai lavori”?
Forest Sharing è un nuovo metodo di gestire i boschi: non guardare il singolo bosco, ma assumere una posizione più alta e guardare l’intera foresta che questi boschi compongono. La foresta essendo un sistema naturale complesso non può essere scomposta in piccole unità omogenee, semplicemente perché omogenee non sarebbero. Ogni porzione di territorio ha le sue caratteristiche, pertanto dovrò tenere di conto di molti fattori, nel momento in cui vado a pianificare degli interventi e delle attività antropiche. In questo modo potrò bilanciare al meglio l’impatto e tutelare le porzioni o gli aspetti più suscettibili. Oggi vediamo le proprietà molto frammentate e piccole, e gli interventi sono scollegati tra di loro, spesso progettati su un orizzonte temporale di brevissimo tempo. Il tutto porta ad un impoverimento della risorsa, un aumento di costi, l’assenza di programmazione e prospettiva della filiera.
Mi potresti dire: “non sarebbe meglio non avere affatto un impatto, quindi ridurre a zero le attività e gli interventi?”
Non c’è alcun dubbio che l’impatto minore è “il non intervento”, allontanarsi. Ma sarebbe possibile? Possiamo fare a meno della risorsa legno (e prodotti secondari)?
Inoltre, dobbiamo considerare che il nostro territorio è altamente antropizzato, non c’è rimasto niente di “naturale”. L’attuale brusco cambio di tendenza, lasciando molti luoghi abbandonati, quindi alla libera evoluzione, porta ad eventi molto distruttivi, in quanto la natura non sostiene ciò che è fatto dall’uomo, ma distrugge e ricomincia. Quindi lasciare tutto alla libera evoluzione non è sostenibile e potrebbe avere un impatto sull’uomo molto più significativo.
Forest Sharing cerca di risolvere questi problemi. Creare una comunità di proprietari boschivi, gestire in modo unificato le proprietà e condividere i benefici. Chi possiede un bosco protettivo, condivide la capacità del suo bosco nel proteggere la città dalle alluvioni; chi possiede un bosco produttivo, condivide la legna che ne trae, etc. I benefici sono posti sul solito piano, e insieme portano ad un equilibrio “circolare” economico ed ambientale.
La piattaforma facilita l’incontro tra proprietari, eliminando i processi di aggregazione, riunioni, assemblee, etc. Mantiene le volontà dei singoli proprietari (che definiscono come prima atto dell’iscrizione), permette lo scambio di informazioni tra proprietari e aziende e professionisti che lavorano con i boschi.
Inoltre, grazie alle innovazioni sviluppate, è possibile accedere facilmente a sistemi tecnologici per il monitoraggio delle risorse naturali, sistemi di supporto decisionale per la pianificazione, controllo qualità e certificazione forestale.
Come è nata l’idea? Esistono esperienze simili nel mondo?
L’idea è nata da un gruppo di ricercatori del Dipartimento di scienze forestali dell’Università di Firenze: gli studi e le attività sul campo individuano nella frammentazione e nell’abbandono uno dei principali problemi nel settore forestale italiano. Forest Sharing nasce come uno strumento per provare a risolvere questo problema, per dare alla filiera del settore (proprietari, aziende) la possibilità di mettere in campo quello che la ricerca scientifica (penso alla selvicoltura di precisione) ed il progresso tecnologico (le piattaforme di condivisione ed ingaggio digitale proprie della sharing economy) sono in grado di offrire. Se guardiamo ad altri paesi a noi vicini (Spagna, Francia, Slovenia, Belgio) posso dire che esistono piattaforme con peculiarità simili alla nostra, che puntano a risolvere più o meno le stesse problematiche: quello che rende Forest Sharing un po’ diversa è il suo essere potenzialmente replicabile ovunque le condizioni di mercato ed ambientali lo permettano, tanto è vero che sono allo studio dei progetti di “personalizzazione” di questo strumento in Spagna e Croazia.
Il vostro progetto ha già ricevuto alcuni riconoscimenti a livello europeo, ed in Italia siete stati premiati da Legambiente e Programme for Endorsement of Forest Certification schemes come il progetto Comunità Forestali Sostenibili 2020. Potresti aiutarci a capire in che modo il Forest Sharing si possa inserire in un’economia circolare, aiuti ed incentivi l’ecosostenibilità e se sia quantificabile il suo impatto nella lotta ai cambiamenti climatici?
Forest Sharing è uno strumento che lavora secondo le logiche dell’economia circolare, guardando al processo, e non al prodotto; provo a spiegarmi meglio. Uno strumento che metta diversi attori in connessione tra loro intorno ad un progetto comune (la gestione di un bosco, nel nostro caso), rende la filiera circolare: al centro del processo non c’è il possesso del bene che si intende gestire (che è e rimarrà sempre di proprietà dell’utente che decide di aderire a Forest Sharing), bensì il suo utilizzo: questo rende la filiera circolare. Aggiungo che produrre e condividere i dati acquisiti sul campo (fine ultimo della selvicoltura di precisione) è un modo per rendere circolare la conoscenza. Ci tengo ad aggiungere che questo nostro strumento è (lo speriamo) un modo per creare anche in ambito forestale quella filiera corta della quale in ambito agricolo si sente parlare ormai da un bel po’, per fortuna. Avere il bosco sotto casa in stato di abbandono e nello stesso tempo importare legname dall’altro capo d’Europa non è sostenibile né sensato: Forest Sharing vuole contribuire a spezzare questa catena.
Gli standard gestionali di PEFC (ai quali abbiamo fin da subito deciso di aderire) sono il nostro modo per parlare di sostenibilità nella gestione del patrimonio forestale. Esistono degli strumenti che sono stati sviluppati nell’ambito della ricerca universitaria, utili alla misurazione dei servizi ecosistemici di cui parlavo prima, cioè di quanto i nostri boschi siano in grado di portare un beneficio all’ambiente ed alla collettività.
Se volessimo fare qualche esempio circa l’utilizzo che potreste fare di un bosco, privato o pubblico, che vi venisse affidato?
Un proprietario forestale può (ad esempio) rivolgersi a Forest Sharing per effettuare un piano di gestione e manutenzione della viabilità forestale, utile alla creazione di percorsi fruitivi per i turisti o la cittadinanza, o funzionale alla gestione anti incendio (un fuoristrada impiega molto meno tempo ad arrivare sul luogo di incendio, è possibile intervenire più tempestivamente, inoltre inquina un po’ meno di un Canadair….). Quando l’aggregazione di boschi di più proprietari raggiungono un’estensione sufficiente e l’attività in campo sia tecnicamente ed economicamente sostenibile, Forest Sharing stipula un mandato di gestione tramite il quale il proprietario lo autorizza ad agire in suo nome nei confronti dei fornitori coinvolti, in una logica chiavi in mano. Finché, l’estensione non è sufficiente (cosa che molto spesso accade, vista la frammentazione delle proprietà), Forest Sharing “ingaggia” il proprietario nella ricerca e coinvolgimento dei proprietari confinanti, in una logica (anche qui) circolare e condivisa, o comunque si adopera per stimolare la partecipazione.
Altro tema riguarda poi quello delle risorse: se da parte dei proprietari non c’è la possibilità di sostenere finanziariamente le attività in campo, si possono percorrere le strade della progettazione ai fini dell’erogazione dei contributi regionali previsti per il settore (e su questo il team di Forest Sharing può fornire supporto e consulenza, come farebbe uno studio di professionisti “classico”), o in alternativa si può proporre quella che noi chiamiamo la gestione integrata: portare a vocazione produttiva la parte (dei boschi interessati) sufficiente e sostenibile al fine di creare le risorse necessarie alla gestione complessiva prescelta dall’utente; creare risorse da reinvestire nel territorio stesso, a vantaggio della filiera coinvolta. Anche questo crediamo sia un modo per fare economia circolare.
Abbiamo letto di un progetto in particolare che ci ha incuriosito che avete seguito in provincia di Pistoia sulla sistemazione idraulica attraverso l’utilizzo di una specie arborea divenuta infestante in quelle zona. Puoi raccontarci di cosa si è trattato?
Questo è un semplice esempio di una tipologia di progetti che stiamo provando a promuovere, in particolare in provincia di Pistoia e Lucca, abbiamo sottoposto un progetto che riguarda la valorizzazione dei soprassuoli di Robinia, o comunemente conosciuta come Acacia. Questa specie ha caratteristiche ecologiche molto invasive, avvantaggiandosi di aree degradate, in pochi anni riesce a colonizzare vaste aree di territorio, anche con boschi in evoluzione.
La Robinia è una specie esotica, proviene dal Nord America, e come spesso succede, quando si trova in un luogo nuovo prende il sopravvento e domina le altre specie, con una riduzione della biodiversità e l’alterazione degli habitat. La robinia non ha però solo aspetti negativi, in quanto ha un legname molto durevole (pari al castagno), è azotofissatrice, consente la produzione di miele di elevate qualità organolettiche, ha un apparato radicale che contribuisce alla stabilità dei pendii. Questa specie è presente e ci dobbiamo convivere, e da qui l’idea di valorizzarla e gestirla, in modo da contenerla nell’invasione e allo stesso tempo dare la possibilità a questi soprassuoli di esprimere al meglio le proprie funzionalità.
Il progetto di valorizzazione si basa sulla gestione dei soprassuoli al fine di ottenere assortimenti legnosi di maggiore qualità e valore, principalmente pali da lavoro, per realizzare staccionate, recinzioni, ma soprattutto per impieghi in opere di ingegneria naturalistica (strutture per il ripristino e prevenzione dei dissesti idrogeologici), sfruttando al meglio l’elevata durabilità del legname naturale.
Ci sono prospettive anche in ambito piu prettamente urbano per il Forest Sharing? Possiamo pensare che il progetto possa in qualche modo aiutare le amministrazioni comunali ad affrontare problematiche come ad esempio la riduzione dell’inquinamento?
Forest Sharing nasce per combattere la frammentazione e l’abbandono delle proprietà forestali, prima di tutto private ma anche pubbliche: stanno nascendo dei contatti con alcune amministrazioni comunali dell’hinterland fiorentino e non solo, interessate a fare sinergia con noi per coinvolgere la propria cittadinanza in attività di gestione integrata delle proprietà forestali, pubbliche e private.
Abbiamo creato uno strumento che nelle esperienze degli altri paesi europei che ho citato prima è gestito spesso e volentieri in prima persona dal regolatore pubblico: nel nostro piccolo, pensiamo di poter dare un servizio che sia di utilità ed interesse pubblico, oltre che privato. Per quanto riguarda l’ambito urbano, Forest Sharing ha un forte impatto, dovuto alla stretta connessione tra quello che facciamo sui monti e quello che succede a valle (dove troviamo le città). Le alluvioni, oltre ad essere calamità naturali, sono il risultato di pratiche sbagliate di cura del territorio. Posso aggiungere che l’approccio “di precisione” alla selvicoltura che utilizziamo nei servizi che Forest Sharing offre, lo si può utilizzare anche in ambito urbano (e noi lo facciamo): produrre conoscenza sulle condizioni delle alberature urbane è utile ad esempio per realizzare piani di manutenzione preventiva delle stesse.
Nel dibattito sulla forestazione spesso si sente dire che l’Italia è un paese virtuoso in cui il patrimonio boschivo è in costante aumento. Un argomento usato spesso per minimizzare la necessità di ridurre il consumo di suolo. Cosa c’è di vero in questa affermazione? In che modo un progetto come Forest Sharing può essere utile ad avvicinare il nostro paese agli obiettivi (urgenti) di neutralità carbonica?
Il problema del consumo di suolo nel nostro paese non deve e non può essere minimizzato e non crediamo che l’aumento della superficie forestale possa essere un alibi per minimizzare il problema, visti anche i dati preoccupanti riportati nell’ultimo rapporto ISPRA 2020 sul consumo del suolo dove viene indicato che nel nostro paese c’è una perdita di circa 14 ettari al giorno, soprattutto di superfici agricole e/o con vegetazione erbacea non impermeabilizzate.
Però, se da un lato c’è una costante perdita di superfici non impermeabilizzate, è altrettanto vero che il patrimonio boschivo in Italia ed in Europa in generale è in costante aumento. I dati riportati nel Rapporto dello Stato delle Foreste Italiane indicano che 2019 la superficie coperta da foreste nel nostro paese ha superato la superficie agricola, e questo non accadeva dal medioevo. L’aumento della superficie forestale è quindi una buona notizia, poiché le foreste e il loro impatto a larga scala è cruciale per contrastare le emissioni antropiche di CO2, così come la strategia di emissioni zero.
Le foreste sono un asse chiave della strategia europea di riduzione del carbonio (“decarbonizzazione”) ed agire per proteggerle e possibilmente aumentare la loro capacità come serbatoio di carbonio è di primaria importanza. Infatti, l’Europa indica che azioni come i rimboschimenti, il ripristino delle foreste degradate e le pratiche di gestione forestale sostenibili, inclusa la protezione delle foreste, sono misure chiave per mantenere e migliorare il delle foreste come serbatoi di carbonio.
È altrettanto vero però che l’Europa e le istituzioni scientifiche indicano che questi risultati possono esser raggiunti solo se si passa da una stretta interazione di governance locale, nazionale e ed europea. Quindi per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione non basta lasciare crescere una foresta in autonomia. È proprio in questo contesto che Forest Sharing opera proponendo tra l’altro, grazie ai risultati della ricerca scientifica, un approccio di “Climate Smart Forestry”, dove la gestione forestale sostenibile mira ad integrare le misure di mitigazione e adattamento legate alle foreste e migliorare la resilienza delle foreste e dei servizi ecosistemici forestali.
Forest Sharing consente agli utenti di diventare attori attivi nell’azione per il clima e nella decarbonizzazione. Infatti, tornare a gestire un bosco abbandonato significa tornare a conoscerlo e questo può consentire di migliorare la sua resilienza, mitigare i rischi dovuti ad eventi estremi come siccità, incendi e tempeste di vento ed avere benefici economici e ambientali più ampi associati ai servizi ecosistemici forestali. Infatti, crediamo che anche se un bosco viene lasciato crescere o in rewilding debba sempre essere previsto un piano di monitoraggio che consenta la valutazione di fattori complessi utili a capire e a misurare anche come si possono raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione che ci siamo posti come Italia, Europa ma in generale nel mondo.
Grazie per la tua disponibilità Yamuna!
La politica agricola comune europea, la PAC, è stata per molto tempo la politica cardine del bilancio europeo. Alla fine degli anni ’70 la PAC assorbiva oltre il 75% della spesa complessiva dell’allora Comunità Economica Europea. Anche se la gran parte dei cittadini dell’Unione non lo sa, ancora oggi i sussidi al settore agricolo rappresentano oltre un terzo del budget europeo.
La PAC è spesso usata ad esempio di come l’intervento pubblico possa essere distruttivo. Partendo da obiettivi sacrosanti: garantire cibo a sufficienza per tutti gli europei, un reddito dignitoso agli agricoltori e prevenire eccessive fluttuazioni di prezzi sui mercati dei beni agricoli, la PAC si è distinta per meccanismi di funzionamento estremamente dannosi per l’ecosistema.
Alle origini, negli anni ’60 e ’70, i trasferimenti erano erogati attraverso un meccanismo che teneva i prezzi dei prodotti agricoli artificialmente elevati. Un’agenzia acquistava a un prezzo minimo quantità illimitata di beni garantendo ai produttori prezzi superiori a quelli di mercato. L’effetto di questo meccanismo fu una corsa al sovra-sfruttamento delle risorse ed enormi quantità di prodotti agricoli invenduti finiti in discarica. Fra i danni procurati dalla PAC si annoverano l’epidemia da “mucca pazza” e la distruzione di interi ecosistemi per lasciar posto a coltivazioni intensive. Inoltre i profitti aumentarono, ma l’incremento fu proporzionale alle quantità prodotte. Ai piccoli produttori andarono le briciole, il grosso dei profitti venne spartito fra multinazionali e mega imprese del settore.
I meccanismi di finanziamento della PAC sono stati profondamente criticati e in seguito modificati. A partire dai primi anni 2000 il grosso passo avanti è consistito nello svincolare i sussidi dalle quantità prodotte. Riducendo l’incentivo alla sovrapproduzione e ripartendo in modo più equo i trasferimenti fra gli operatori del settore.
Nel 2018, a 15 anni di distanza da quelle riforme, la Commissione Junker ha sentito il dovere di aggiornare il quadro normativo della PAC proponendo alcune modifiche che tengono tiepidamente conto dei cambiamenti nei mercati agricoli e dell’emergente crisi climatica.
Come spiega Elisa Meloni di Volt Italia, oggi, anche se sono passati solo due anni, quella proposta non può che essere considerata datata. “[Dalla proposta Junker] molte cose sono cambiate: si è insediata una nuova Commissione presieduta da Ursula Von Der Leyen, che ha adottato il Green Deal Europeo e, al suo interno, le strategie per la Biodiversità e Dalla fattoria alla tavola (“from farm to fork”), che ad esempio prevedono entro il 2030 una drastica riduzione degli agenti chimici in agricoltura […], almeno il 25% della superficie agricola destinata all’agricoltura biologica e almeno il 10 % ad elementi caratteristici del paesaggio con elevata diversità. In questo contesto, la proposta di riforma della PAC si è rivelata ancora più obsoleta e inadeguata rispetto al livello di ambizione ambientale e climatica professato per il continente, tant’è che lo scorso maggio la Commissione si è affrettata a pubblicare un documento in cui spiegava come rendere la PAC compatibile col Green Deal.”
In questi giorni la proposta della Commissione ha affrontato i passaggi nel Consiglio e nel Parlamento europeo. Ci si attendeva che il testo fosse emendato trasformando i sussidi a pioggia in sussidi condizionati a standard di sostenibilità, escludendo dai trasferimenti le attività dal forte impatto ambientale. Invece il Consiglio europeo e il Parlamento hanno approvato una proposta legislativa addirittura peggiorativa rispetto a quella della Commissione Junker.
Questo atteggiamento fortemente conservatore ha sollevato reazioni da più parti: “Senza cambiare agricoltura non si combatte il collasso climatico” ha dichiarato Annalisa Corrado co-portavoce di Green Italia. “Non si può annunciare un fantasmagorico e strabiliante Green New Deal senza cambiare profondamente lo strumento principe che indirizza i comportamenti e gli investimenti nel settore. Perché il cibo buono e sano per la salute e per i territori arrivi sulle tavole di tutti, è necessario chiudere le porte ad agricoltura ed allevamenti intensivi e cibi ultraprocessati.”
La transizione verso una PAC sostenibile non è d’altra parte urgente solo per garantirci cibo di migliore qualità e minor impatto. Come ha fatto notare Mauro Romanelli di Ecolobby: “La PAC approvata recentemente al Parlamento europeo, ha perduto l’occasione per incrementare il sostegno a quelle forme di agricoltura e allevamento, meno competitivi nell’immediato, ma preziosissimi per la preservazione di varietà più rare, e quindi della biodiversità.
Il tracollo della ricchezza genetica è uno degli effetti meno evidenti e meno immediati per il grande pubblico dell’agricoltura e dell’allevamento intensivi, ma è anche uno dei più drammatici.
Anche su questo il lavoro per mettere una pezza alle brutte scelte che sono state prese dovrà essere duro e intransigente.”
Per questi motivi la senatrice Rossella Muroni si è rivolta con una lettera aperta alla ministra Bellanova, che con i suoi omologhi ha approvato nel Consiglio europeo dei ministri dell’agricoltura un testo peggiorativo della proposta iniziale di riforma: “lo dico sinceramente: grazie di niente! La nuova politica agricola comunitaria delude e preoccupa perché somiglia sempre meno a quella che aveva disegnato la Commissione europea e sposta il baricentro a vantaggio di un modello agricolo intensivo e ad alto impatto ambientale.”
Secondo Alberto Bencistà, presidente di FirenzeBio, la partita non è persa irrimediabilmente “abbiamo un’ultima occasione perché l’approvazione definitiva dipenderà dall’intesa che sarà raggiunta in sede di “trilogo “ ( Commissione, Parlamento, Consiglio ) che si riunirà nelle prossime settimane e che dovrà sentire la pressione delle cittadine e dei cittadini europei affinché sia ritirato il testo approvato dal Parlamento in quanto in aperto conflitto con il New Green Deal : una contraddizione che L’Europa non può permettersi.“
Ecoló si unisce al fronte di chi chiede una PAC diversa. Cosa possiamo fare per far sentire la nostra voce?
In questi giorni è stata pubblicata una lettera, di cui sono primi firmatari Bas Eickhout, vicepresidente della commissione ambiente del Parlamento europeo, e Ska Keller co-portavoce dei Verdi Europei, indirizzata alla presidente della Commissione Von der Leyen che la invita a ritirare la proposta di riforma. “È venuto il momento di ritirare la proposta di riforma della PAC della commissione, debole e datata, e di presentarne una nuova, in linea con il Green Deal europeo”.
Attraverso il portale www.greens-efa.eu/dossier/ritiri-questa-cap/ è possibile scrivere alla Von der Leyen aderendo all’appello lanciato dai Verdi Europei.
Ecoló sostiene l’iniziativa europea “salviamo le api e gli agricoltori” è possibile firmare la petizione all’indirizzo: www.savebeesandfarmers.eu
Il diritto di iniziativa dei cittadini europei è uno strumento di partecipazione diretta alla politica dell’Unione europea, previsto dal Trattato sull’Unione Europea, che all’articolo 11 comma 4, prevede che se una iniziativa raccoglie almeno un milione di firme, la Commissione europea e il Parlamento europeo sono tenuti a valutarne le proposte e rispondere alle richieste che vi sono contenute.
L’iniziativa dei cittadini europei ‘Salviamo le api e gli agricoltori’ chiede al Parlamento Europeo:
1) L’eliminazione graduale dei pesticidi sintetici
Eliminare gradualmente i pesticidi sintetici nell’agricoltura dell’UE entro il 2030, iniziando da quelli più pericolosi, per diventare privi al 100% di pesticidi entro il 2035.
2) Il ripristino della biodiversità
Ripristinare gli ecosistemi naturali nelle aree agricole e trasformare i mezzi di produzione in modo che l’agricoltura contribuisca nuovamente alla promozione della biodiversità.
3) Il sostegno agli agricoltori nella transizione
Riformare l’agricoltura dando priorità ad un’agricoltura su piccola scala, diversificata e sostenibile, sostenendo un rapido aumento delle pratiche agroecologiche e biologiche e consentendo la formazione e la ricerca indipendente degli agricoltori in materia di agricoltura senza pesticidi e OGM.
Aiutaci a raggiungere questo obiettivo: ogni firma è importante.
L’utilizzo diffuso di agrofarmaci tossici sta distruggendo la biodiversità delle nostre campagne e mettendo a rischio la nostra salute. Il fenomeno del declino degli insetti impollinatori rischia di annullare un meccanismo fondamentale che è alla base della sopravvivenza di tutto l’ecosistema terrestre e costituisce una terribile minaccia per la sopravvivenza di tutti noi. Nello stesso tempo la diffusione dell’agricoltura industriale sta costringendo alla chiusura un numero sempre crescente di piccole aziende con una industrializzazione sempre più spinta delle pratiche agricole. Quello che deve essere cambiato è il sistema stesso che oggi guida la nostra agricoltura, in modo da poter giungere ad un’agricoltura priva di pesticidi, rispettosa della biodiversità e del clima, vicina alle esigenze del consumatore ma anche dell’agricoltore, capace, nel fornire cibo di qualità e sufficiente a rispondere alle richieste alimentari, di creare lavoro e sostenere le comunità locali.
Per ottenere questo, per innescare e portare a compimento una vera transizione ecologica dell’agricoltura europea, abbiamo bisogno della forza di milioni di firme di cittadini europei.
Hanno aderito alla raccolta moltissime associazioni e movimenti. L’elenco completo è visibile sul sito della iniziativa (www.savebeesandfarmers.eu ). Gli European Greens sono fra i sostenitori dell’iniziativa.
L’Unione Europea sta già facendo dei passi in questa direzione, come si evidenzia dalla nuova Strategia europea sull’agricoltura (Farm to Fork) che è stata approvata nel 2020 e che già indica come obiettivi da raggiungere entro il 2030 la riduzione del 50% dell’uso di pesticidi e del 20% dei fertilizzanti entro il 2030, almeno il 25% del territorio agricolo coltivato secondo i canoni dell’agricoltura biologica, il raggiungimento di una agricoltura neutra dal punto di vista della produzione/assorbimento di carbonio, più resiliente, più equa e più sostenibile. Ma ancora non basta e la necessità del compimento di una vera e completa transizione ecologica dell’agricoltura deve essere sostenuta dalla richiesta e dalla consapevolezza (che comprende anche un comportamento da consumatori consapevoli) dei cittadini europei.