Elemento chiave dei progetti finanziati dai fondi europei per la ‘ripresa’ dovrebbe essere la sostenibilità, sia ambientale che sociale. Questo, lo sappiamo bene, è quello che ci chiede l’Unione Europea.
Ma a questo come risponde la Regione Toscana?
Se sarà approvata la proposta di legge attualmente in discussione in Consiglio regionale (PdL 92/2022), per la modifica delle norme regionali sul governo del territorio e sulle valutazioni ambientali (LR 65/2014 e LR 10/2010), promossa da un gruppo di consiglieri del Partito Democratico, l’incredibile risposta sarà quella della cancellazione della necessità di procedere a valutazione ambientale strategica e valutazione di impatto ambientale per le varianti dei piani urbanistici che risultino connesse ai fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Si eliminano inoltre tutte le procedure di partecipazione pubblica.
Si tratta evidentemente di una deregolamentazione delle varianti urbanistiche che si muove nella direzione opposta rispetto alle indicazioni europee e che può arrecare gravi danni al nostro territorio, al nostro ambiente, al nostro paesaggio.
Per Ecoló si tratta di una proposta sconcertante e inaccettabile, in aperto contrasto con le normative nazionali (D.lgs 152/2006 e succ. mod e integr. – Codice dell’Ambiente) ed europee, oltre che regionali vigenti fino ad oggi, in tema di valutazione di impatto.
A livello nazionale già sono state introdotte norme che abbreviano e facilitano il percorso delle opere connesse al PNRR, che possono consentire la realizzazione delle opere entro i tempi necessari. Eliminare la valutazione degli impatti ambientali non vuol dire voler favorire l’applicazione del PNRR, ma vuol dire voler aprire le porte ad una realizzazione di un PNRR privo di strategia e sostenibilità, finalizzato non ad un corretto e virtuoso utilizzo dei fondi per migliorare la nostra società, ma ad un semplice reperimento e distribuzione di fondi scollegati da una visione lungimirante e tali quindi da poter andare a sostenere anche opere potenzialmente dannose per il territorio, l’ambiente tutti noi.
E’ questa la Toscana che vuole il Partito Democratico?
Ecolo’: per prima cosa grazie per la disponibilità a raccontarci cos’è Marea Ecologista! Ti conosciamo bene per la tua attività come verde prima e poi come una delle figure più influenti in Italia sui temi dell’economia circolare. Vuoi raccontarci qualcosa in più di te? Qual è il percorso di vita che ti ha portato a lanciare il progetto Marea Ecologista?
Rossano Ercolini: Non c’è dubbio che il movimento rifiuti zero nella sua articolazione che coinvolge comitati, associazioni, ma anche 330 comuni italiani e numerose imprese innovative rappresenti uno dei pochi esempi vincenti di scenari ambientalisti materializzati in “buone pratiche”. Ma questo risultato per estendersi e divenire irreversibile deve confrontarsi con le problematiche più complessive legate alla “crisi ecologica globale” sempre più drammatica. Per questo qualsiasi movimento che si occupa di tematiche ambientali non può non porsi il problema della “governance” e cioè di come rispondere in termini operativi e progettuali alla sfida della transizione- rivoluzione ecologica. In altri termini è ineludibile da parte della politica porre al centro quale “madre di tutte le questioni” la “questione ambientale”. E poiché le forze politiche tradizionali (ma anche i 5 stelle al di là di meritevoli eccezioni di singoli deputati/senatori) nei fatti dimostrano di “rimuovere” tale centralità occorre porre all’ordine del giorno l’obiettivo di una “costituente ecologista” che rappresenti una sorta di “sbocco al mare” per tutti quei percorsi, piccoli e grandi che dai territori invocano una svolta ecologica;
Siamo ad un BIVIO. Non esiste un PIANO B: o sapremo imboccare la via di una pacificazione con il Pianeta o il nostro modello di “civilizzazione” collasserà innescando una sorta di lunga “agonia” di un sistema che continua a trattare il Pianeta come una specie di supermercato da cui prelevare senza sosta. Non a caso le nuovissime generazioni hanno ben percepito la sfida radicale in atto attraverso il movimento di Greta e dei Fridays for Future. Ovviamente ci sono ancora margini importanti per fornire risposte positive, ma non abbiamo troppo tempo per farlo.
Ecolo’: In questi anni come si è mossa Zero Waste Italia? Quali sono i risultati di cui sei più orgoglioso realizzati a livello locale e nazionale? C’è qualcosa che, invece, tornando indietro faresti diversamente?
RE: Zero Waste è un movimento di successo. Basti pensare che alla sua nascita nel 2003 la raccolta differenziata arrivava al 17% su scala nazionale mentre oggi supera il 63%. Questi risultati che non sono certo tutti ascrivibili al nostro movimento non sarebbero stati nemmeno immaginabili senza il lavoro immane di disseminazione di trasferimento delle conoscenze dal basso svolto da Zero Waste che rappresenta davvero un esempio concreto di “scienza dei cittadini” e di “apprendimento dal basso”. La sconfitta dell’inceneritore di Case Passerini di Sesto Fiorentino rappresenta davvero una pietra miliare di questo percorso. Certo si può fare sempre meglio, ma se mi guardo indietro dico che non solo non abbiamo fatto errori significativi, ma addirittura in certi momenti abbiamo saputo “camminare sull’acqua” connettendo il NO ad inceneritori e discariche con i SI’ a concrete soluzioni di riduzione, riuso riciclo degli scarti;
Ecolo’: L’IPCC, il gruppo di scienziati che lavora per l’ONU sui cambiamenti climatici, ha dato più volte l’allarme lanciando di recente l’ultima chiamata per salvare l’ecosistema globale. Quali pensi che siano le azioni prioritarie che l’Europa e l’Italia dovrebbero compiere?
RE: Certamente la sfida più importante della transizione ecologica è quella di passare da un modello lineare dissipativo ed insostenibile (estrazione, produzione, distribuzione, consumo e smaltimento) ad un modello circolare basato sul rispetto dei cicli e dei tempi di rigenerazione naturali. Anche dal punto di vista geopolitico la sfida è passare da un modello basato sullo sfruttamento degli idrocarburi ad un modello tecnologico avanzatissimo basato sui “nuovi materiali rappresentati dalle terre rare” attualmente concentrate nelle mani della Cina (al 90% della commercializzazione) proprio nell’era che gli analisti chiamano della “raw material scarcity” e cioè della scarsità delle materie prime indotte dalla competizione globale dei colossi dell’economia mondiale (non solo USA ed Europa ma soprattutto Cina, India, Indonesia, Brasile ecc). La sfida anche in termini sociali può essere vinta considerando i “vecchi rifiuti” (pensiamo ai Rifiuti elettrici ed Elettronici) quali “miniere urbane” da cui estrarre preziose materie prime sempre più introvabili in natura;
Ecolo’: Il Governo Draghi ha per la prima volta un ministro per la Transizione Ecologica. Una svolta nella definizione di un ministero che, per essere efficace, non può chiaramente occuparsi solo di ambiente. Pensi che il Governo stia mantenendo le aspettative? C’è qualcosa che si poteva fare o fare meglio?
RE: Il Governo Draghi non si muove in questa direzione. In particolare il Ministro della Transizione Ecologica Cingolani non solo appare inadeguato ed anche estremisticamente aggressivo nei confronti dell’ecologismo ma risulta deliberatamente ostaggio delle lobby del petrolio e della parte più arretrata di Confindustria assumendone spesso le fraseologie e i simboli. Aver rispolverato la “necessità” del nucleare non solo è un’offesa a tutto il popolo italiano che con il referendum ha seppellito quello scenario ma appare “fuori tempo” visto che per esempio la Germania sta smantellando le proprie centrali. Quali priorità? Mettere a sistema l’economia circolare finanziandola non con gli spiccioli del PNRR, ma in modo massiccio con la prospettiva strategica di una riconversione della nostra industria manifatturiera che ha bisogno come il pane di materie prime da estrarre dagli scarti e da sottrarre alle speculazioni in atto sul mercato energetico e delle materie prime;
Ecolo’: Parliamo di Marea Ecologista. Per noi ecologismo non significa solo de-carbonizzare il sistema produttivo o ridurre i rifiuti, crediamo che ecologia voglia dire anche valorizzazione delle diversità e quindi protezione dei più deboli. Sei d’accordo?
RE: Dal punto di vista strategico (vedi il mio ultimo libro IL BIVIO edito da Baldini e Castoldi) la contraddizione principale in atto è rappresentata dai modelli di civilizzazione umani basati su prelievi senza limiti e i cicli naturali dai quali è dato prelevare rispettandone però i tempi di rigenerazione. Quindi si potrebbe dire che la contraddizione principale di questo passaggio storico è tra UOMO E NATURA. Questo non significa che all’interno di questa contraddizione principale non ne risiedano altre a partire da quella “sociale”. Temi come il riscaldamento globale o della desertificazione dei suoli non solo muovono dalla contraddizione principale di cui prima, ma innescano anche migrazioni bibliche legate all’impoverimento di masse crescenti di popolazione. Con la pandemia (che l’ONU dichiara essere l’effetto dei livelli di coartazione della biodiversità) questo processo si è addirittura accelerato. Difesa dell’ambiente e lotta per la giustizia sociale sono inscindibili;
Ecolo’: Il 27 novembre vi siete trovati a Firenze, presto vi incontrerete a Milano, cosa ci dobbiamo aspettare da Marea Ecologista?
RE: Dopo il riuscito incontro del 27 novembre appare sempre più urgente costruire uno spazio aperto in cui far convergere tutte le energie ecologiste senza settarismo ma con instancabile spirito inclusivo. Non si tratta di affermare in modo surrettizio “paternità” e merito, ma semmai fornire “dispositivi” dove questo processo possa avvenire soprattutto dal basso. Ecco il senso della proposta avanzata da Zero waste di una Costituente Ecologista dove ogni soggetto piccolo o grande possa avere piena “cittadinanza” e valorizzazione. Sono sicuro che anche la imminente assemblea di Facciamo Eco (www.assembleaecologista.org n.d.r.) andrà in questa direzione. Ne attendiamo i risultati per sviluppare insieme a tutti i partecipanti gli sviluppi.
Ecolo’: Anche noi siamo convinti che in Italia manchi una rappresentanza adeguata della visione ecologista nel panorama politico. Il grande tema che vediamo per i prossimi mesi è come sia possibile mettere attorno a un tavolo tutto l’ecologismo politico per costruire una lista in grado di rappresentare gli ecologisti in parlamento. Avete in mente una road map? Chi sono i soggetti con cui immaginate di avviare un confronto?
RE: In questo senso la Road Map immaginata attraverso la proposta di Costituente Ecologista come già detto si intreccia con quanto avverrà anche dal lavoro di tanti altri soggetti locali e nazionali. Guai a chiudere! Il “gioco comunicativo” deve prevedere orizzonti apertissimi ed inclusivi. Ovviamente basati su progetti e proposte programmatiche condivise. Zero Waste chiede a tutti i soggetti in gioco di assumere in modo ufficiale la strategia rifiuti zero. Rifiuti Zero, dal canto suo si impegna a portare i propri contributi anche su altri aspetti della “questione ambientale” che come sappiamo non può essere ridotta a somma seriale di “questioni settoriali” (approccio sistemico);
Ecolo’: Conosci, come noi, aspetti non edificanti della storia dell’ecologismo politico in Italia. Noi abbiamo spesso avuto l’impressione che all’interno della Federazione dei Verdi mancasse una massa critica di persone tale da rendere possibile una dialettica interna e un ricambio di dirigenza. Vedi anche tu questo problema? Pensi che sia una caratteristica inevitabile dei piccoli partiti? Hai in mente dei meccanismi in grado di disinnescare questi circoli viziosi?
RE: I Verdi italiani, soprattutto nella seconda parte degli anni ’90 si sono trasformati da realtà in “movimento” con buone capacità di rigenerazione in “ceto cristallizzato” e giocato in funzione delle mire di visibilità e di carriera di singole personalità. Ciò ha portato per esempio gli assessori regionali verdi (vedi la Toscana) a sostenere la fallimentare politica della “termovalorizzazione” poi sconfitta dal movimento Rifiuti Zero. Per evitare questa degenerazione occorre curare i sistemi di trasparenza e di selezione soprattutto dei gruppi dirigenti e delle candidature. Occorre innanzitutto legare questi alle capacità dimostrate, agli obiettivi e alle vittorie raggiunte, ai livelli di effettiva promozione di cittadinanza attiva innescati. Non è tollerabile che l’ecologismo da necessità politica divenga una sorta di autobus su cui far salire improvvisazione, carrierismo, sete di potere. Anche la formazione diviene parte prioritaria di questo approccio teso ad “estrarre” il meglio dai soggetti sociali disponibili ed interessati alla Rivoluzione Ecologica;
Ecolo’: Noi consideriamo che un partito ecologista italiano debba nascere necessariamente all’interno della cornice del Partito Verde Europeo. Tu sei in contatto con i Verdi Europei? Come vedono la vostra iniziativa?
RE: In realtà i miei contatti con il partito Verde europeo si riducono a momenti sporadici di confronto e sono mediati per esempio dalla collaborazione con la parlamentare Eleonora Evi con la quale Zero Waste si è spesso positivamente rapportata sui temi del PNRR e del principio “Non arrecare pericoli significativi all’Economia Circolare”. Sono stato poi invitato due volte a far parte di forum dai livelli europei del Partito Verde che mi sembra stia seguendo con attenzione ciò che sta avvenendo in Italia probabilmente per evitare gli errori del passato che vedono in Italia percentuali molto basse per il soggetto politico ecologista a differenza di ciò che mediamente avviene nell’Europa continentale.
Per quanto mi riguarda ritengo che anche proprio dal punto di vista di Zero Waste il confronto positivo con una forza che è al governo per esempio in Germania sia un fatto stimolante che debba spingere tutti a muoversi nel solco di una collaborazione che connetta i livelli locali con quelli globali europei e comunque fuori da schemi autoreferenziali e localistici.
Ecolo’: Nel ringraziarti per la tua attenzione cogliamo l’occasione per invitarti il 5 Febbraio a Firenze per la nostra Assemblea Ecologista, un tentativo molto simile al vostro che parla al mondo delle associazioni e delle liste civiche ma con cui forse vi farà piacere confrontarvi alla ricerca di una sintesi.
Di Guido Scoccianti
Fanalino di coda da sempre di tutte le politiche, ultimo dei settori nella destinazione dei fondi e delle risorse, da molti sostanzialmente ignorata o quantomeno considerata tema da ‘sentimentali’, la tutela della biodiversità ancora oggi stenta ad essere riconosciuta per quello che in realtà è, cioè uno degli elementi chiave per la nostra sopravvivenza.
Qualcosa però potrebbe cominciare a cambiare.
Se a poco o nulla sono serviti i gridi di allarme negli ultimi decenni di biologi e naturalisti, nonostante la mole di dati raccolti che mostrano in modo inequivocabile la gravità della situazione, finalmente adesso cominciano a parlare dell’importanza della biodiversità anche gli economisti. Una voce tipicamente tenuta in maggior considerazione dai nostri politici.
Quali sono infatti i costi economici per la nostra società della distruzione di specie e habitat?
Come segnala la Commissione Europea nella presentazione della Strategia Europea sulla Biodiversità per il 2030:
“la perdita di biodiversità e il collasso degli ecosistemi sono una minaccia anche per le fondamenta della nostra economia e si prevede che i costi dell’inazione, già alti, aumenteranno. Si stima che dal 1997 al 2011 i cambiamenti nella copertura del suolo abbiano causato perdite pari a 3500-18500 miliardi di euro l’anno in servizi ecosistemici a livello mondiale e che il degrado del suolo sia costato 5500-10500 miliardi di euro l’anno“.
“l rapporto benefici/costi complessivi di un programma mondiale efficace per la conservazione della natura ancora allo stato selvatico è stimato ad almeno 100 a 1. Gli investimenti nel capitale naturale, ad esempio nel ripristino di habitat ricchi di carbonio e nell’agricoltura rispettosa del clima, sono considerati tra le cinque politiche più importanti di risanamento del bilancio in quanto offrono moltiplicatori economici elevati e un impatto positivo sul clima“.
Basta inoltre pensare, per esempio, a come il declino degli insetti impollinatori, se non controvertito, può mettere in ginocchio la nostra agricoltura e di conseguenza tutta la catena della produzione alimentare, per comprendere bene come la tutela della biodiversità è una sicurezza anche per noi stessi.
Per questo la tutela della biodiversità, insieme al contrasto ai cambiamenti climatici, dovrebbe essere oggi elemento fondamentale ed anzi guida di tutte le politiche, in particolare di quelle che determinano le azioni per la ripresa economica dopo la pandemia.
E’ con questa consapevolezza che proprio nella primavera del 2020, in piena esplosione della crisi pandemica, la Commissione Europea ha avuto la volontà e la forza di approvare una nuova Strategia dell’UE sulla Biodiversità per il 2030, Strategia che dovrebbe guidare i Paesi europei in un cammino rivoluzionario per quanto riguarda i rapporti fra uomo e natura, con l’obiettivo conclusivo di giungere nel 2050 ad una situazione in cui tutti gli ecosistemi del pianeta siano ripristinati, resilienti e adeguatamente protetti e dove sia applicato il principio del “guadagno netto”, cioè restituire alla natura più di quanto le sottraiamo. Un obiettivo molto ambizioso, forse irraggiungibile nella sua interezza, ma che deve essere l’elemento su cui costruire fin da oggi tutte le nostre politiche, con una serie di passaggi intermedi di azione e di verifica. La strategia europea al 2030 vuole essere il primo di questi passaggi intermedi, prefiggendosi il traguardo di riportare la biodiversità in Europa sulla via della ripresa entro il 2030, in linea con l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, ed in connessione e sintonia con gli obiettivi di lotta ai cambiamenti climatici.
D’altronde tutela della biodiversità e tutela del clima sono strettamente interconnessi. La biodiversità ha un ruolo fondamentale nel sequestro e nell’immagazzinamento del carbonio. E’ facile pensare in questo senso alle foreste, ma anche altri ecosistemi hanno importanti ruoli. Per esempio le torbiere, che a livello globale contengono più di 550 giga tonnellate di carbonio e sono capaci di sequestrare 0.37 giga tonnellate di CO2 all’anno, e, come le torbiere, i suoli fertili in genere. Inoltre fondamentale è il ruolo del fitoplancton marino nell’accumulare CO2 rimuovendola dall’atmosfera.
Nello stesso tempo, la conservazione della biodiversità naturale rende gli ecosistemi maggiormente resilienti agli impatti da cambiamento climatico e inoltre ci offre soluzioni ‘nature-based’ che possono, e dovrebbero, svolgere un ruolo fondamentale nel contrasto al cambiamento climatico ed ai suoi effetti.
Non è un caso che, nel giugno 2021, è stato pubblicato un primo rapporto congiunto fra i due maggiori organismi internazionali che si occupano rispettivamente di clima e di biodiversità, cioè l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) e l’IPBES (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services), rapporto in cui si sottolinea l’importanza e la necessità di affrontare insieme la crisi climatica e la crisi della biodiversità congiuntamente ai loro combinati impatti sociali.
Allo stesso modo, tornando ai rapporti fra economia e biodiversità, un istituto come il World Economic Forum, ad oggi non proprio avvezzo a posizioni ecologiste e difficilmente tacciabile di posizioni ecologiste preconcette, ha pubblicato nel 2020 un dossier dall’eloquente titolo di ‘Nature risk rising: Why the crisis engulfing Nature matters for business and the economy’, in cui si sottolinea come più di metà del Prodotto Interno Lordo mondiale (44 miliardi di dollari) dipende in modo determinante dalla natura e dai suoi servizi ed è quindi esposto a rischio dalla perdita di capitale naturale.
E’ anche per questo che gli obiettivi della Strategia Europea sulla Biodiversità per il 2030 sono obiettivi che non ci possiamo permettere di perdere ed è importante notare che non sono solo obiettivi di ‘conservazione’ degli ecosistemi che ancora sopravvivono, ma anche di ripristino e ricreazione di ambienti che sono stati deteriorati. Uno degli obiettivi principali della strategia è infatti il ripristino di vaste superfici di ecosistemi degradati e ricchi di carbonio, obiettivo che coincide perfettamente con l’impegno che l’ONU ha voluto lanciare con la dichiarazione del decennio 2020-2030 come ‘Decade on Ecosystem restoration’.
E’ evidente che per raggiungere questi obiettivi ci vogliono volontà, scelte precise e anche destinazioni adeguate di fondi e risorse, nella consapevolezza però che questi fondi e risorse, se ben utilizzati, ci eviteranno disastrose e ben più alte perdite economiche, dovute alla depauperazione dei servizi ecosistemici.
Per iniziare a tutelare davvero la biodiversità, attraverso una svolta nelle politiche internazionali e locali, dovrebbe essere sufficiente la motivazione che anche tutte le altre forme di vita animale e vegetale di questo pianeta hanno diritto a continuare ad esistere, o almeno la considerazione che lasciare ai nostri figli un mondo senza biodiversità significa lasciare un mondo privo di gran parte della sua bellezza. Ma se ancora questo non fosse sufficiente, forse ci potrà far cambiare idea il fatto che senza biodiversità a crollare saranno la stessa nostra economia e con essa i già traballanti equilibri sociali. Lo sapremo nei prossimi anni.
La politica, a tutti i suoi livelli ed in modo coordinato, deve oggi fare una scelta, e deve farlo tenendo ben chiaro che, se così non sarà, non avremo un altro decennio a disposizione per recuperare ciò che non avremo fatto da qui al 2030, perché molto di tutto questo non sarà più recuperabile e saremo destinati a vivere sempre più poveri in un mondo sempre più povero, più insalubre, più inospitale, orfano di quella bellezza che rende la vita degna di essere vissuta.
di Sebastiano Nerozzi* e Giorgio Ricchiuti**
Pur pensando alla pandemia come una crisi sanitaria, non possiamo dimenticare che l’aumento delle zoonosi vede nell’uomo e nelle attività produttive il principale imputato. La crisi ecologica però ha portato alla ribalta, ancora di più di quella finanziaria di un decennio fa, la diseguaglianza diffusa che vediamo nell’accesso alle cure, così come nei problemi nell’accesso alla DAD o nelle sperequazioni fra lavori fra chi ha potuto lavorare in smartworking e chi ha continuato come prima o, peggio ha perso il lavoro. Per non dimenticare la forte diseguaglianza fra paesi nell’accesso ai vaccini. Questi elementi sottintendono una forte diseguaglianza di reddito e ricchezza.
Facciamo un piccolo passo indietro. Dopo la seconda guerra mondiale, la crescita economica dei paesi del blocco occidentale ha portato all’aumento di beni a disposizione di una crescente classe media. Una seconda ondata è arrivata con il processo di globalizzazione finanziaria e della produzione che, sul finire del secolo scorso, ha portato anche all’emersione di un gruppo di paesi (Cina, India, Brasile, fra gli altri) che si sono inseriti di diritto fra i protagonisti delle catene globali del valore. La loro crescita economica sostenuta ha portato alla riduzione della distanza (la diseguaglianza) fra paesi e alla riduzione della povertà assoluta (secondo l’ONU, 800 milioni di persone hanno superato la soglia di povertà assoluta), un miglioramento degli standard di vita, un miglior accesso all’istruzione (Global Multidimensional Poverty Index 2020).
Tuttavia non tutti hanno beneficiato della crescita sostenuta a cavallo del secolo. Sono state le élite di super-ricchi e le classi medie dei paesi emergenti ad ampliare redditi e ricchezza. La distribuzione dei benefici della crescita economica avvenuta nel trentennio glorioso della globalizzazione sono stati descritti in un celebre grafico dell’“elefante di Milanovic”, dal nome dell’economista Branko Milanovic che lo ha realizzato. Milanovic ha stimato infatti i tassi di crescita per ogni percentile di reddito dai più poveri ai più ricchi: dal 1988 al 2008 i nuovi ceti medi nei paesi emergenti hanno visto aumentare di oltre 60-70% il loro reddito (le spalle e la testa dell’elefante), in linea con il 2% più ricco della popolazione mondiale (la proboscide). Al contrario i lavoratori e i ceti medi dei paesi sviluppati (la bocca dell’elefante) hanno visto ristagnare i loro redditi, insieme con i più poveri dei paesi del Sud del mondo (la coda).
E la forte diseguaglianza di reddito e ricchezza è confermata dall’ultimo rapporto mondiale sulla diseguaglianza (WIR, 2022) appena pubblicato. Il rapporto sottolinea come le medie nascondono pericolosamente una forte disparità di reddito sia all’interno dei paesi che fra paesi. Il 10% più ricco della popolazione mondiale assorbe attualmente il 52% del reddito globale, mentre la metà più povera della popolazione ne guadagna l’8%. In media, chi sta fra il 10% più alto della distribuzione del reddito globale guadagna € 87.200 all’anno, mentre chi è nella metà più povera della distribuzione globale del reddito guadagna appena € 2.800 all’anno. E questa disparità è ancora più chiara e pronunciata guardando alla ricchezza. La metà più povera della popolazione mondiale possiede solo il 2% del totale. Al contrario, chi fa parte del decile più alto possiede il 76% di tutta la ricchezza.
D’altra parte la crescita economica non si è solo accompagnata alla diseguaglianza, ma ha anche portato alla “grande accelerazione”, per usare il termine coniato dagli storici dell’ambiente John H. Mc-Neill e Peter Engelke per indicare l’aumento delle emissioni di CO2 dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi e ripreso dalla figura qui sotto.
Se fino alla seconda rivoluzione industriale la biosfera era in grado di assorbire e rigenerare la quantità di CO2 prodotta dall’uomo, l’aumento della produzione si è accompagnato ad un forte aumento di gas climalteranti, causando l’aumento delle temperature globali. E l’aumento è ascrivibile ai paesi occidentali così come a quelli emergenti.
La crescita del PIL si è quindi accompagnata da una parte ad uno squilibrio distributivo e dall’altra ad uno ecologico. Per la teoria economica tradizionale sia l’effetto sulla diseguaglianza che l’impatto ambientale dovrebbero essere transitori. Diseguaglianza e impatto ambientale crescono in una prima fase di sviluppo per poi ridursi una volta che vengono introdotte politiche di protezione ambientale o redistributive. Questo è quello che suggerisce la suggestiva curva di Kuznetz a forma di “u rovesciata”, che associata alla diseguaglianza nella sua formulazione originaria, ha trovato una riproposizione anche in riferimento ai danni ambientali.
Viene delineato quindi un automatismo che però scarica di responsabilità gli attori in gioco: si tratta solo di accettare questi processi (c’è un livello buono di diseguaglianza e inquinamento) e aspettare la loro soluzione quasi naturale. Tuttavia, nel tempo, diversi studi hanno mostrato la fallacia di queste assunzioni e la loro insostenibilità sia sociale che ambientale. Allo stesso tempo, i tempi del cambiamento climatico non possono fermarsi ai se e alla lentezza di un processo così complicato.
Considerando i tempi stretti per ridurre le emissioni e evitare il disastro ecologico crediamo sia fondamentale ribaltare le idee dietro le curve a “u rovesciate” e comprendere come, le politiche di riduzione della diseguaglianza (e della povertà), non sono una conseguenza logica e inevitabile dello sviluppo ma un presupposto necessario per ogni strategia di sviluppo ecologico.
Facciamo un piccolo esperimento mentale, un mero esercizio contabile che può però aiutarci a comprendere meglio la relazione fra produzione (PIL), consumo di risorse e diseguaglianza. Diamo per buone la distribuzione trovata dal WIR: il 50% della popolazione mondiale (circa 4 miliardi di persone) guadagnaa solo l’8% del reddito, mentre il 10% più ricco (ottocento milioni di persone) ricevono il 52% del reddito prodotto, il restante 40% è nelle mani del resto della popolazione mondiale. Immaginiamo, per ipotesi, che questa distribuzione rimanga costante nel tempo e chiediamoci di quanto debba aumentare in reddito (la produzione) mondiale per aumentare di un solo euro il reddito del 50% più povero. Per dare a questa parte della popolazione 4 miliardi di euro, il reddito mondiale deve aumentare di 50 miliardi. Questi non vengono equamente distribuiti, infatti bene 26 (il 52%) arriva al 10% più ricco. Quindi per ogni euro dato a un povero, ne vengono dati 32,5 a chi è nel decile più alto. Facciamo notare che un super ricco (che è nell’1% più ricco) ne riceverà ancora di più.
Chiediamoci adesso cosa succederebbe se, attraverso politiche attive di redistribuzione, limitassimo la quota dei ricchi al 30%, innalzando la quota della metà più povera dall’8 al 20%. Per dare un euro in più dovremmo aumentare il reddito mondiale solo di 20 miliardi (meno della metà di prima). Potremmo quindi produrre di meno, inquinando meno, ma producendo uno stesso aumento di reddito per la parte bassa della distribuzione del reddito. Certo il decile più alto dovrebbe solo accontentarsi di 7,5 euro ma sarebbe sempre il 650% in più di quello ricevuto da un povero. L’effetto positivo sull’ambiente potrebbe essere ancora più elevato se consideriamo che alti livello di reddito sono correlati ad elevate emissioni (i ricchi viaggiano di più, usano meno i mezzi pubblici, etc..), così come mostrato da un OXFAM TECHNICAL BRIEFING del dicembre 2015.
C’è, infine, un ulteriore effetto che va considerato. L’aumento di reddito per le fasce più basse della distribuzione, portando fuori dalla condizione di povertà una buona parte della popolazione del sud del mondo, accellererebbe la transizione demografica in corso, favorendo un contenimento dell’aumento della popolazione mondiale, con un’ulteriore riduzione del consumo di risorse naturali.
Ribadiamo che il nostro è solo un esperimento mentale, un effettivo cambiamento di rotta richiede interventi fiscali su larga scala, il coordinamento di tutti i paesi e il riaggiustamento dei meccanismi e produttivi e redistribuivi (fra profitti e salari). Speriamo però che risulti chiaro come la riduzione della diseguaglianza, favorendo le fasce più disagiate della popolazione, permetterebbe una riduzione della pressione antropica sulla natura. Sviluppo ecologico e riduzione delle diseguaglianze non possono che coevolvere.
___________________
* Sebastiano Nerozzi è professore associato di Storia del Pensiero Economico all’Università Cattolica di Milano ** Giorgio Ricchiuti è professore associato di Politica Economica all’Università di Firenze
Il 20 Novemre a Roma si è svolta la prima assemblea nazionale dell’Alleanza per la Transizione Ecologica. Un altro pezzo del mondo ecologista che si mette in moto in vista delle elezioni parlamentari del 2023. Abbiamo intervistato Danilo Bonato del Comitato di Coordinamento dell’Alleanza.
Ecoló: Per prima cosa grazie per la disponibilità a raccontarci cos’è l’Alleanza per la Transizione Ecologica!
Danilo Bonato: Grazie a Voi per l’ospitalità!
Ecoló:Volete raccontarci qualcosa in più di voi? Qual è il percorso di vita che ti ha portato a essere coinvolto nell’Alleanza per la Transizione Ecologica?
Danilo Bonato: Opero nel settore ambientale da circa 15 anni e dal 2010 mi occupo professionalmente di economia circolare, sia a livello europeo che nazionale. Il mio lavoro mi porta spesso a confrontarmi con il mondo della politica dove, a prescindere dalla indubbia qualità di alcune persone, esiste una evidente difficoltà a procedere con il passo giusto nel fare le riforme in senso ecologico di cui l’Italia avrebbe bisogno. Purtroppo, la scena politica italiana è dominata da soggetti nati e cresciuti con finalità e visioni che non colgono i profondi cambiamenti della nostra epoca, che non sono in grado di recepire e di sostenere un cambiamento di tale portata storica con la determinazione e le competenze necessarie. Tendono a trascurare i contenuti strategici della transizione ecologica, a porli in lunghe liste con un po’ di tutto, dove rimangono in secondo piano, perdendo di efficacia. Per questo, insieme ad un gruppo di amici, giovani appassionati, esperti di sostenibilità, manager della green economy, esponenti della università e della ricerca, abbiamo deciso di creare l’Alleanza per la Transizione Ecologica.
Ecoló: L’IPCC, il gruppo di scienziati che lavora per l’ONU sui cambiamenti climatici, ha dato più volte l’allarme lanciando di recente l’ultima chiamata per salvare l’ecosistema globale. Quali pensi che siano le azioni prioritarie che l’Europa e l’Italia dovrebbero compiere?
Danilo Bonato: L’Unione Europea, pur rappresentando una quota limitata delle emissioni mondiali di gas serra, è il primo mercato mondiale, ha un peso economico rilevante a livello internazionale e le capacità per vincere la sfida della neutralità climatica, trasformandola in rilancio anche economico di un modello decarbonizzato, competitivo e capace di generare miglior benessere e maggiore occupazione: un vero e proprio Green Deal. In questo modo, con opportune iniziative anche a livello internazionale per limitare i danni della concorrenza dei paesi ritardatari, l’Unione Europea può guidare il cambiamento conquistando una posizione di vantaggio e costringendo i ritardatari ad inseguire. La Commissione europea ha adottato un pacchetto (Fit for 55) di 13 misure, fra regolamenti e direttive per raggiungere la riduzione netta dei gas serra del 55% al 2030 rispetto al 1990 e la neutralità climatica al 2050. L’Italia, contrariamente a quanto hanno dichiarato numerosi esponenti politici italiani, deve essere in prima fila non per indebolire questo pacchetto di misure nel suo iter di approvazione col Parlamento europeo e con il Consiglio europeo dei governi, ma per migliorarlo e rafforzarlo nella revisione delle Direttive sull’aumento delle rinnovabili e dell’efficienza energetica.
Ecoló: Che ruolo dovrà giocare l’Italia nel contesto internazionale? Le grandi sfide del nostro tempo sono globali: crisi climatica, pandemie, povertà, migrazioni, solo per citarne alcune. Occorrerebbe una politica estera attiva, con un’Italia forza propulsiva dei valori dell’Unione Europea, dell’Agenda 2030 dell’ONU e dall’Accordo di Parigi sul cambiamento climatico.
Danilo Bonato: L’Italia dovrebbe spingere per un’Unione Europea più forte, più unita e capace di agire con efficacia sul fronte non solo del commercio internazionale, della concorrenza, ma anche su quello politico dei diritti umani, della democrazia e dello stato di diritto.
Ecoló: Il Governo Draghi ha per la prima volta un ministro per la Transizione Ecologica. Una svolta nella definizione di un ministero che, per essere efficace, non può chiaramente occuparsi solo di ambiente. Pensi che il Governo stia mantenendo le aspettative? C’è qualcosa che si poteva fare o fare meglio?
Danilo Bonato: Non basta cambiare nome ad un Ministero per fare la transizione ecologica. L’idea di unire in un unico dicastero competenze sul clima e sull’energia è buona ed è stata adottata in molti altri paesi prima di noi, ad esempio in Gran Bretagna. Ma l’attuale organizzazione del MITE non pare sia tesa a cogliere questa opportunità. Di fatto pare che nella fusione a freddo di personale e strutture del MISE e del MATTM quelle relative al primo dicastero abbiano prevalso. Il timore è che il riferimento istituzionale del terzo settore ambientalista venga meno. E questo rischia di essere una cosa seriamente non positiva.
La transizione ecologica riguarda una trasformazione radicale della nostra economia, della nostra società e del nostro modello di sviluppo. Andrebbe indicata quale effettiva priorità del governo, come un’opportunità per il Paese, desiderabile e in grado di generare benessere e migliore qualità della vita. Invece, col passo delle misure vigenti, comprese quelle – insufficienti – previste dal PNRR, l’Italia non coglie l’opportunità di essere un front runner. Nelle politiche largamente prevalenti la crisi climatica è ampiamente sottovalutata, riceve attenzioni sporadiche e riferimenti formali ai quali non corrispondono scelte adeguate. In Italia si stenta a cogliere la portata della grande crisi climatica, come grave minaccia per il nostro presente e per l’immediato futuro, dalla quale dipende in larga parte la nostra prosperità. È necessario alimentare una efficace comunicazione per aumentare la consapevolezza e la partecipazione dei cittadini alla sfida climatica globale evidenziando come essa richieda il protagonismo e la responsabilità di tutti: solo se noi facciamo la nostra parte, se l’Italia fa la sua parte, se sostiene e rafforza l’impegno dell’Europa, possiamo coinvolgere anche altri Paesi e spingere i ritardatari a muoversi. Accelerare l’impegno per il clima consente di guidare un cambiamento globale, di aumentare innovazione, investimenti e nuova occupazione. Per attuare la transizione alla neutralità climatica sono necessarie alcune scelte strategiche che in Italia stentano ad essere definite e attuate con convinzione per un quadro di forze politiche complessivamente inadeguate. Per cambiare passo verso la transizione ecologica in Italia sono indispensabili maggiore consapevolezza della portata epocale di questo cambiamento e una cultura politica all’altezza di questa sfida, in grado di definire, sostenere e realizzare riforme in tutti i settori decisivi per la qualità sociale ed ecologica, per lo sviluppo, le politiche pubbliche e i diritti delle persone. Queste riforme devono avere un solido riferimento nella sostenibilità ecologica e sociale.
Ecoló: Nel vostro gruppo ci sono molti imprenditori. Questo secondo noi è molto interessante, perché fino ad adesso – ci è sembrato – che il mondo ambientalista si sia rivolto solo ai consumatori, chiedendo loro di cambiare le preferenze per spingere le imprese a fare altrettanto. Quali sono le azioni che le imprese possono adottare per accelerare la Transizione Ecologica? Cosa potrebbe fare per favorire una vera transizione?
Danilo Bonato: La green economy italiana è una realtà consistente e in continuo sviluppo. Conosciamo esperienze di imprese di successo che sono cresciute, espandendo fatturati e aumentando profitti, con attività di valore ambientale e puntando sulla qualità ecologica. Disponiamo di conoscenza, di capacità e di tecnologie per fare grandi passi avanti nella decarbonizzazione mantenendo e aumentando la competitività economica. La green economy – l’economia circolare, attenta alla tutela del clima e del capitale naturale – non è solo un’idea più convincente della decrescita ma è un’economia reale, in grado di produrre risultati importanti e documentati. La transizione ecologica deve e può avvenire nel contesto di un’economia di mercato che punta alla crescita, non potrebbe essere altrimenti nello spazio Europeo dell’unione. Abbiamo verificato che molti cambiamenti ecologici e sociali si possono realizzare nelle economie di mercato anche se sappiamo che lasciar fare solo al mercato non può essere sufficiente a risolvere i problemi complessi che abbiamo davanti a noi. Pensiamo quindi che, per essere realizzata con successo, la transizione ecologica giusta debba appoggiarsi su un’economia di mercato sociale ed ecologica, con forti indirizzi politici, grandi investimenti, privati e pubblici, in particolare nella ricerca e nell’innovazione, adeguati strumenti economici e fiscali e una buona ed efficace regolazione normativa.
In questo processo di transizione le imprese hanno un ruolo importante. Molti di noi hanno con il mondo produttivo rapporti consolidati. E cerchiamo con le imprese un dialogo e un rapporto di collaborazione per realizzare gli obiettivi della transizione ecologica. Riteniamo prioritario approfondire tale rapporto in questo progetto politico in particolare con le imprese core-green e go-green. Le prime producono beni e servizi ambientali o di prevalente interesse ambientale che sono già consistenti e in crescita e che possono essere in prima fila nel promuovere la transizione ecologica. Le imprese go-green pur non producendo beni o servizi ambientali, hanno fatto una scelta ecologica di fondo, non solo di immagine e di comunicazione, ma che si traduce in decisioni operative concrete e con effetti rilevanti di riduzione delle emissioni di gas serra e della propria impronta ecologica.
Ecoló: Allo stesso tempo, cosa ha da rimproverarsi il mondo delle imprese?
Danilo Bonato: A mio avviso l’idea che il mondo delle imprese sia compattamente contrapposto alla svolta climatica ed ecologica è ormai superata (si veda ad esempio il crescente fenomeno delle imprese Benefit e le certificazioni BCorp). Potremmo stare a recriminare all’infinito sui ritardi con cui alcuni settori hanno intrapreso la strada della sostenibilità, sulle resistenze di alcuni comparti industriali al cambiamento, sull’atteggiamento passivo di alcune realtà imprenditoriali. Ma non pare particolarmente costruttivo. Allora, guardiamo avanti e ragioniamo su quello che occorre fare. Esistono enormi opportunità di mercato per beni e servizi che costituiranno la parte cruciale dell’economia della transizione. E se la direzione tracciata dal Fit for 55% della commissione EU (ad esempio con la proposta di Carbon Border Adjustment Mechanism) sarà decisamente intrapresa, le imprese Europee potranno prosperare in un’area economica in cui il valore ambientale sarà riconosciuto.
Ecoló: Le istituzioni potrebbero facilitare la svolta green delle imprese in qualche modo? Quali sono i rischi di deregolamentazione e semplificazione?
Danilo Bonato: Il difficile funzionamento delle istituzioni, unitamente alla lentezza della macchina amministrativa della pubblica amministrazione e agli adempimenti burocratici che sono molto cresciuti negli ultimi decenni, rappresentano un ostacolo per lo sviluppo del paese e quindi per la svolta green delle imprese. Gli operatori economici e i cittadini vivono immersi in un mondo di regolamentazioni complicate e contraddittorie e sopportano costi spesso esorbitanti. Deregolamentare e semplificare in Italia è un imperativo morale. Nell’attuazione del PNRR, insieme agli investimenti, sono previste un numero molto consistente di riforme. Se coglieremo questa occasione nel 2026 avremo un paese più facile da vivere, ma non per questo meno sostenibile.
Ecoló: Sempre nel mondo delle imprese si assiste a un massiccio sforzo per costruire una reputazione green. Bottiglie di plastica usa-e-getta sono definite green perché magari sono fatte con una misera percentuale di plastica riciclata. Compagnie aeree che ti offrono di compensare la CO2 emessa di un volo Milano-Londra con 2,50€. Sembra che si possa vendere qualsiasi cosa come sostenibile. In che misura questo danneggia le imprese seriamente impegnate nella sostenibilità?
Danilo Bonato: Tantissimo. Il “greenwashing” è il peggior nemico delle imprese che credono e che investono nella sostenibilità. Fortunatamente, la sensibilità ecologica dei consumatori sta crescendo e aumentano gli strumenti di trasparenza radicale per “stanare” chi si limita a dare una pennellata di verde al proprio business. Attenzione però, la finta sostenibilità non la si trova solo nel mondo delle imprese. Mi spiego meglio con un esempio: contrastare la realizzazione di un impianto per la produzione di energia eolica perché modifica il paesaggio può sembrare un modo di essere verdi ma in realtà è un’azione che frena la transizione ecologica e dunque, in ultima analisi, è una scelta di greenwashing simile a quella che fa l’azienda delle bottiglie usa e getta.
Ecoló: Esistono esperienze all’estero virtuose nel frenare il greenwashing?
Danilo Bonato: Moltissime. Il governo inglese ha recentemente introdotto norme stringenti per contrastare il greenwashing operato dalle compagnie dei servizi elettrici. Sul fronte finanziario, la Consob francese obbliga i fondi retail commercializzati in Francia che dichiarano di avere prodotti sostenibili di riportare nella documentazione legale obiettivi misurabili, con rendicontazioni periodiche. Nei paesi scandinavi ci sono programmi per l’introduzione di sistemi di etichettatura dei prodotti più trasparenti e completi, con informazioni relative ai materiali utilizzati.
Ecoló: Parliamo della visione dell’Alleanza per la Transizione Ecologica, per noi ecologismo non significa solo de-carbonizzare il sistema produttivo. Crediamo che ecologia voglia dire anche valorizzazione delle diversità e quindi protezione dei più deboli. Siete d’accordo?
Danilo Bonato: Una dimensione della transizione ecologica che ci sta molto a cuore è quella sociale. L’idea che la transizione ecologica possa essere realizzata ai danni della parte più debole della società è un pregiudizio che va contrastato con fermezza. È un’argomentazione tipica utilizzata strumentalmente dagli oppositori politici della transizione ecologica. È intanto di tutta evidenza che gli impatti maggiori della grande crisi climatica colpiscono proprio la parte più debole della popolazione, quella più esposta agli eventi atmosferici estremi, quella che corre i maggiori rischi di insufficiente approvvigionamento alimentare. Se non riusciremo a fermare la grande crisi climatica e l’enorme crisi delle risorse naturali, non sarà possibile aumentare l’occupazione e combattere in modo più efficace la povertà.
Per realizzare con successo la transizione ecologica è necessario costruire con determinazione una maggiore inclusione sociale. In una società moderna che guarda al futuro, per poter stare bene occorre stare bene in tanti e non solo in pochi. Un cambiamento di vasta portata come la transizione ecologica richiede un ampio consenso sociale. Se la parte meno benestante del Paese non fosse convinta della necessità della transizione ecologica si rischierebbe di non raggiungere gli obiettivi. Nella nostra visione della transizione ecologica poniamo dunque grande attenzione e cura alla dimensione sociale e occupazionale. La transizione ecologica promuove una prosperità di migliore qualità. La prosperità basata sul consumismo, sul continuo aumento dell’acquisto di beni, spesso superflui e di breve durata, non solo non è sostenibile per il clima e le risorse naturali limitate del Pianeta ma genera essa stessa crescenti disuguaglianze perché è sempre meno estendibile a tutti. Temiamo che l’alternativa alla transizione ecologica nell’era della grande crisi climatica sarebbe, con elevata probabilità, una regressione verso una società chiusa, dove una parte tira i remi in barca e pensa di potersi arroccare per difendere le sue condizioni di lavoro e di vita, mentre la gran parte della società, e del mondo, va in rovina. La transizione ecologica è quindi una sfida di civiltà che richiede fiducia nel futuro e nelle risorse dell’umanità. Puntiamo sull’idea di poter vivere meglio in tanti, in società libere, aperte, civili, entro i limiti della natura.
Ecoló: Il 20 novembre vi siete trovati a Roma. Di cosa è parlato?
Danilo Bonato: È stata la nostra prima Assemblea Nazionale, la prima occasione di presentare la nostra associazione. Riteniamo che sia stato un successo, perché erano con noi 120 persone e oltre 300 ci hanno seguito in streaming. Nel corso dell’incontro abbiamo presentato il nostro documento politico programmatico, abbiamo raccolto i contributi di personalità del mondo delle imprese, della società civile e della politica e abbiamo lanciato la proposta di processo fondativo di una nuova forza politica verde, elettoralmente consistente, dotata di solide competenze e di una cultura riformatrice di governo e capace di costruire una risposta adeguata alla crescita della speranza ecologica dei cittadini italiani.
Ecoló: Sul vostro sito si parla chiaramente di un impegno politico-elettorale. Noi siamo convinti come voi che in Italia manchi una rappresentanza adeguata della visione ecologista nel panorama politico. Il grande tema che vediamo per i prossimi mesi è come sia possibile mettere attorno a un tavolo tutto l’ecologismo politico per costruire una lista in grado di rappresentare gli ecologisti in parlamento. Voi avete in mente una road map? Chi sono i soggetti con cui immaginate di avviare un confronto?
Danilo Bonato: Ci fa piacere sapere che anche voi condividete questo bisogno. Gli ecologisti sono stati e sono tuttora una grande forza culturale del nostro Paese e ci hanno raccontato una visione di futuro verde e in equilibrio con la natura. Purtroppo, però non sono mai riusciti a tradurre questa leadership culturale in una azione politica pragmatica e di successo. Noi siamo convinti che esista in Italia lo spazio politico per un soggetto politico che aspiri ad essere maggioritario. La nostra roadmap è molto semplice: nei prossimi mesi lavoreremo alacremente ad un processo fondativo che porti intorno al tavolo persone e organizzazioni ecologiste, anche con esperienze e culture diverse, proponendo loro di mettere da parte questioni identitarie e protagonismi per lavorare ad un obiettivo comune, realizzare anche in Italia una transizione ecologica giusta. Come ha detto Edo Ronchi nelle sue conclusioni alla nostra prima assemblea, dobbiamo avere chiaro che gli avversari politici sono altrove. E siamo convinti che questo tentativo sia destinato al successo perché in moltissimi crediamo che la crisi stia diventando irreversibile e non c’è più tempo, perché crediamo nel buon senso delle persone e perché solo gli stolti potrebbero pensare che è “Meglio essere primi in Gallia che secondi a Roma”.
Ecoló: Siete in contatto con i Verdi Europei? Come vedono la vostra iniziativa?
Danilo Bonato: Stiamo aprendo un dialogo franco e costruttivo con diversi soggetti della società civile e del mondo politico, incluso il partito dei Verdi Europei. Per quanto riguarda i Greens Europei, sappiamo che il loro auspicio è che, anche in Italia, si crei una forza politica verde elettoralmente consistente, in grado di trasformarsi in un punto di forza nel sostegno alle politiche comuni a livello europeo per la tutela dell’ambiente, il contrasto al cambiamento climatico e l’affermazione di un modello di società e di economia virtuoso e in equilibrio con la natura. L’alleanza per la transizione ecologica aspira a creare l’interlocutore che i Verdi Europei si auspicano di avere.
Ecoló: Nel ringraziarvi per la tua attenzione cogliamo l’occasione per invitarvi il 5 Febbraio a Firenze per la nostra AssembelaEcologista, un tentativo molto simile al vostro che parla al mondo delle associazioni e delle liste civiche ma con cui forse vi farà piacere confrontarvi alla ricerca di una sintesi.
Danilo Bonato: Grazie a voi per lo spazio che ci avete dedicato e per l’invio alla Vostra Assemblea, a cui non mancheremo.
Abbiamo intervistato Gianluca Ruggieri, ingegnere ambientale, ricercatore universitario e socio fondatore di ènostra.
Ecoló: Che cosa è ènostra?
Gianluca Ruggieri: ènostra è una cooperativa – probabilmente al momento la più importante cooperativa in Italia che si occupa di fonti rinnovabili – che produce e vende elettricità da fonti rinnovabili.
E: Ci dai tre buoni motivi per i quali un utente che non ha mai cambiato fornitore di energia dovrebbe scegliervi?
GR: Il primo è che cerchiamo di essere protagonisti della transizione energetica con un progetto che tiene insieme, da una parte l’efficienza energetica dall’altra la produzione di elettricità da fonti rinnovabili. Il secondo è che essendo una cooperativa non siamo a scopo di lucro e quindi tutti i benefici generati vengono poi ripartiti tra i soci. Il terzo è che è un vero progetto di comunità anche se di grandi dimensioni.
E: Quanti sono i soci?
GR: Siamo più di 9.000 oramai, in crescita da quando siamo nati. La cosa importante è che siamo arrivati alla soglia, per noi considerata critica, intorno alle 5.000 persone, che ci consente di essere sostenibili nel tempo e operare con maggiore tranquillità.
E: Come si fa in pratica a cambiare operatore?
GR: Essendo una cooperativa, ènostra, richiede di diventare soci con un versamento iniziale di 50€ per poter attivare il contratto. Detto questo, diventare socio, attivare il contratto di fornitura e interrompere il contratto precedente è un’unica operazione che si fa compilando una procedura online (pensiamo noi a contattare il precedente fornitore del passaggio). E’ tutto molto semplice e guidato, di solito per uno che ha una minima alfabetizzazione informatica non costituisce un problema. Una volta diventati soci, attraverso il pagamento di una sorta di prima bolletta “0” del valore di 50€, il trasferimento dell’utenza avviene in un’unica operazione. Se uno è titolare di più contratti l’iscrizione a socio è sufficiente effettuarla solo alla prima attivazione.
E: Mi posso aspettare che, almeno nel breve periodo, potrebbe aumentare il costo di quanto andrò a spendere?
GR: Al momento, per la tariffa standard dei soci cooperatori (che versano come si diceva 50€ una tantum), abbiamo un extra costo equivalente a un cappuccino al mese rispetto al servizio di maggior tutela (tra i 10 e 15 € all’anno per una bolletta media). Poi c’è la possibilità di diventare socio sovventore, con la possibilità di attivare una tariffa particolare chiamata “prosumer” che due caratteristiche particolari. La prima è di avere un prezzo fisso che dipende soltanto dalla prestazione dei nostri impianti, quindi completamente sganciato dal mercato dei fossili e, in un momento come questo in cui il gas ha un prezzo alto diventa molto conveniente. L’anno scorso invece, quando il costo di generazione era molto più basso ovviamente non eravamo competitivi. L’altra caratteristica è che ha un bonus e quindi vengono in qualche modo scalati dei kWh proporzionali con il tipo di investimento che si è fatto (stiamo parlando di investimenti di cifre relativamente piccole, dai 500 ai 1.000-2.000 €, poi ognuno trova la sua taglia, anche in funzione dei suoi consumi). In un momento in cui il kWh del mercato costa tanto – come questo – il beneficio economico è molto rilevante in termini proprio di rendimento percentuale sul capitale investito, con pochi concorrenti al momenti. (ndr … e che magari sono investimenti in mine antiuomo!).
E: Un freno al passaggio di fornitore potrebbero essere dubbi sulla vostra solidità societaria (pensiamo ai casi di Eviva e Gala). Si tratta di un dubbio infondato? O ènostra potrebbe andare a gambe all’aria nel giro di qualche mese mettendo in difficoltà chi vi sceglie?
GR: Ovviamente tutte le imprese, compresa ènostra, hanno un rischio che fa parte della vita delle imprese. Nel nostro caso il tentativo che è sempre stato fatto è quello di crescere in maniera equilibrata tra la nostra produzione e la nostra vendita e di avere contratti che ci garantiscano, difatti in questo momento tariffe fortemente convenienti riusciamo a farle soltanto per l’energia che produciamo noi. E’ chiaro che, per esempio, avendo appena inaugurato una pala eolica, se questa dovesse crollare costituirebbe un problema, però, per le dimensioni che abbiamo adesso, sarebbe un problema che saremmo in grado di gestire.
Eravamo molto più a rischio quando all’inizio eravamo una piccola società con 1000-2000 soci e per i primi anni abbiamo accumulato delle perdite, comunque previste dai nostri piani. L’idea era che essendo pochi non potevamo tenere i prezzi molto alti per non fare buchi in bilancio ma rischiando poi di non convincere nessuno a diventare socio. Abbiamo invece optato per tenere i prezzi relativamente bassi sapendo di correre qualche rischio iniziale, ma adesso che siamo alle dimensioni che dicevamo prima i conti tornano e con il 2020-2021 andremo a coprire una parte significativa delle perdite accumulate nei primi 5-6 anni di attività. Quindi il rischio c’è sempre, però per come si è costruito il modello, lontano da qualsiasi tipo di speculazione, questo è per sua natura anche un pochino più stabile e tranquillo.
E: In un mercato in cui tutto viene venduto come “green” come faccio ad essere sicuro che ènostra non sia l’ennesima operazione di greenwashing?
GR: Tre cose: la prima è che sulla totalità della nostra energia abbiamo le garanzie d’origine, certificazioni che garantiscono sulla provenienza da fonti rinnovabili. La seconda è che abbiamo degli impianti di proprietà che sono fatti secondo dei criteri, non solo di rinnovabilità, ma anche di basso impatto ambientale. Il terzo tema, che per noi è sempre fondamentale, è che il nostro è un progetto a 360°. Il supporto che diamo ai nostri soci che vogliano produrre energia elettrica a casa loro con un impianto fotovoltaico, o ridurre i loro consumi energetici, per esempio con operazioni come quelli presenti adesso favorite dal Superbonus 110% o altro tipo di detrazioni, fa sì che emerga chiaramente come il progetto della cooperativa sia quello di abbattere l’impronta ecologica dei nostri consumi energetici. Per assurdo, se un giorno tutti i nostri soci fossero totalmente autosufficienti in termini di consumo energetico, ènostra a quel punto potrebbe chiudere e lo farebbe avendo raggiunto il suo obiettivo, che è quello della transizione. Il nostro obiettivo non è quello di massimizzare il fatturato o il rendimento sul capitale investito, il nostro obiettivo è fare l’interesse dei soci. E’ un approccio molto diverso di quello che ha un grosso investitore che, in questo momento trova la tematica green molto interessante e ci si butta dentro e magari si fa pochi scrupoli su cosa c’è veramente dietro.
E: Esistono realtà simili a ènostra in Europa e nel mondo?
GR: ènostra fa parte di un movimento più ampio, in particolare facciamo parte di RESCOOP, associazione europea delle cooperative e iniziative di comunità che si occupano di rinnovabili in Europa. Lavoriamo soprattutto con altre realtà europee ma esistono altre realtà nel mondo, che hanno un approccio simile ma con modelli diversi, a seconda del contesto locale. Per chi fosse interessato ad approfondire recentemente è uscito “We the power” documentario prodotto da Patagonia ne racconta alcune.
GR: C’è un rapporto tra ènostra e comunità energetiche? Cosa pensi della modifica alla legge che le regolamenta e che futuro industriale vedi per questo tipo di progetti?
E: La nuova legge è ancora in bozza per cui ci sono ancora molti punti di domanda. Rispetto alla legge attualmente in vigore ci sono sicuramente aspetti positivi che allargano le dimensioni della comunità energetica. Le comunità energetiche sono per loro natura indipendenti a controllo locale ed i membri possono scegliere il fornitore, ma nell’ottica della transizione abbiamo lavorato, stiamo lavorando e lavoreremo alla promozione di realizzazioni di comunità energetiche: al momento stiamo portando avanti una dozzina di progetti, con differenti stati di avanzamento. Il nostro ruolo è di facilitatore iniziale del progetto con la redazione di studi di fattibilità, oppure con un ruolo più tecnico di assistenza nel dimensionamento e realizzazione del progetto collettivo, altrimenti è di dare supporto alla definizione dello statuto della comunità energetica che si va a formare. In sintesi abbiamo un ruolo di consulenza su tutto il percorso che porta alla creazione dell’ente giuridico. Anche se si potrebbero vedere questi progetti come concorrenti siamo contenti di aiutare allo sviluppo di questo approccio.
E: Se fossi un condominio che vuole creare una comunità energetica posso rivolgermi a ènostra per avere un supporto al loro percorso fornendo una consulenza? E quanto potrebbe costare?
GR: Il costo dipende da cosa ci viene chiesto di fare e non è detto che sia conveniente. Mentre in passato il “conto energia” era molto generoso adesso è necessario prestare molta attenzione, altrimenti la consulenza rischia di costare più del beneficio economico, per cui stiamo attenti a dosare il tipo di intervento che proponiamo a chi ci contatta. Nel caso di condominio, il consiglio è che sia il condominio stesso a fare la parte di discussione e partecipazione inziale, curando noi dimensionamento e valutazione tecnico-economica del progetto, con un costo di consulenza molto limitato.
E: Se oltre a cambiare operatore volessi investire in ènostra, quali prospettive e rendimenti mi aspetterei?
GR: Oltre a quanto detto prima, il motivo per cui immagino che qualcuno possa voler investire in ènostra è favorire l’uscita dalla dipendenza dei fossili. Dopodiché in un momento come questo, con il costo dei fossili molto alto, questa scelta può voler dire guadagnarci molto. In altri momenti potrebbe voler dire guadagnarci meno. La scelta quindi dipende molto dalle motivazioni personali. La tariffa è stata disegnata perché possa essere conveniente quasi sempre nelle condizioni di mercato che ci possiamo aspettare, però potrebbe ricapitare come l’anno scorso durante il lockdown che il prezzo dell’energia crolli a causa dell’eccesso di offerta in quel caso la nostra tariffa non sarebbe più conveniente. Certo se qualche calamità compromettesse il nostro impianto di Gubbio questo cambierebbe il beneficio per l’investitore.
E: L’investimento però è in ènostra, non in un unico impianto, corretto?
GR: Sì, ma un l’impianto appena realizzato è piuttosto grande rispetto al totale della nostra produzione.
E: Quanta energia producete attualmente?
GR: Con l’entrata in funzione di questo nuovo impianto arriveremo a 3 GWh/annui a regime e con il vento atteso, al momento la produzione è di 1,1 GWh/annui
E: Noi vediamo nel prosperare di esperienze come la vostra piccoli segni di transizione ancora in gran parte sulla carta nel nostro paese. Cosa pensi che manchi nel nostro paese perché possa prendere davvero il via il cambiamento necessario?
GR: Stiamo piano piano arrivando al momento in cui c’è una consapevolezza diffusa che la transizione e la decarbonizzazione siano una strada segnata. Ci abbiamo messo parecchio tempo: il protocollo di Kyoto è del 1997 e quindi sono passati quasi 25 anni, però alla fine ci siamo più o meno arrivati. Il punto è che ci possono essere modelli diversi di transizione, quelli in cui vengono ribaditi i poteri delle grandi aziende oligopoliste o modelli in cui c’è maggiore potere alle comunità e ai cittadini; modelli in cui c’è una maggiore attenzione al tema della povertà energetica, di una giusta transizione, e modelli in cui questi sono considerati perdite collaterali, come si diceva alle volte. Di sicuro è una buona notizia che nell’ultima settimana si è sentito il presidente Draghi dire delle cose che non ha mai detto nessun Presidente del Consiglio italiano. Probabilmente quello che manca è una visione di insieme che faccia sì che questa transizione, che più o meno adesso sappiamo che dobbiamo fare, venga disegnata in modo tale che se qualcuno deve pagare di più, sia qualcuno che se lo può permettere, e chi non se lo può permettere possa partecipare a questo processo senza essere escluso. Faccio esempi molto banali. E’ chiaro che nel momento in cui mettiamo forti incentivi sulle auto elettriche, che vanno a premiare auto di grande cilindrata, che magari costano 50 – 70 mila euro, disegniamo dei destinatari di questi benefici che non sono esattamente i ceti meno abbienti. Un altro esempio banale, nella Regione dove abito, la Lombardia, come operazione post-covid per rilanciare l’economia si è pensato di concludere la costruzione dell’autostrada pedemontana; io non credo che costruire nuove autostrade sia un modo per facilitare la transizione, almeno al momento. Magari fra 20 anni avremo tutti mezzi di trasporto super-efficienti e a zero emissioni, e allora ne riparliamo, ma al momento se ho delle risorse non le metto certo nella costruzione di nuove autostrade, perché vado esattamente nel senso opposto.
E: La politica potrebbe fare di più per aiutare progetti cooperativi come il vostro? Avete interlocutori utili nelle istituzioni? Sentite la mancanza di referenti credibili sulla transizione ecologica?
GR: Abbiamo avuto degli interlocutori e tuttora abbiamo interlocutori che ci ascoltano. In generale, mi sembra di poter dire che per fortuna siamo nati qualche anno fa e arriviamo a questo momento, che è un momento di grandi cambiamenti sia sul piano delle comunità energetiche sia sul piano della transizione in generale, avendo messo dietro le spalle un po’ di anni di attività, un po’ di credibilità , un po’ di numeri, che fanno sì che siamo un interlocutore credibile anche per le istituzioni, che non sono solo la politica, perché nel settore energetico ci sono enti e l’Autorità che hanno un ruolo importante.
Quando ormai tre anni fa si discuteva di come mettere nelle Direttive europee il tema delle comunità energetiche, abbiamo lavorato benissimo con esponenti italiani al Parlamento europeo e oggi lavoriamo bene con la Commissione Industria del Senato italiano. Quindi ci sono persone con cui abbiamo avuto relazioni, ma mi sembra che la cosa più interessante sia il fatto che siamo arrivati ad avere una dimensione ed una credibilità tale per cui siamo abbastanza riconosciuti al di là dell’avere un contatto nelle istituzioni che ti ascolta perché ti conosce personalmente e apprezza il tuo progetto.
Sul fatto che la politica possa fare di più per aiutare progetti imprenditoriali come il nostro, capisco che è complicato. Mi verrebbe da dire ‘semplificare’, ma è chiaro che c’è anche un tema di garanzia degli utenti finali.
E allora se semplificare poi rischia di introdurre situazioni come quella che citavi prima (ndr Gala), se tu favorisci la creazione di cooperative energetiche e lo fai in un modo che poi apre le porte a progetti speculativi, forse non stai facendo la cosa migliore.
Quindi io non saprei darti una risposta precisa su come poter favorire. Di sicuro c’è tutto un tema di semplificazione burocratica nel campo delle rinnovabili che però è più generale, cioè non riguarda solo noi ma più meno tutti gli operatori, che complica tanto, allunga i tempi e di conseguenza aumenta poi anche i costi. Cioè tecnologie che tecnicamente potrebbero essere anche competitive e convenienti, poi non lo sono perché tu inizi a fare un progetto e non sai quando finisce e non sai se finisce bene o se non finisce bene, cioè hai molto poche certezze.
E: Grazie del tuo tempo e della tua disponibilità Gianluca!
Non è un caso se gli alberi ci piacciono così tanto. Gli alberi sono sempre stati fonte di vita, protezione e progresso per la nostra specie. E anche nella transizione ecologica che dobbiamo affrontare gli alberi saranno nostri alleati. Assorbendo CO2 ci aiutano a frenare il riscaldamento globale, ma soprattutto sono nostri alleati nel renderci meno fragili di fronte alla crisi climatica in atto, mitigano le isole di calore, diminuiscono il rischio di smottamenti durante i fenomeni di precipitazioni estreme. E poi gli alberi sono l’habitat naturale di tanti animali, tutelano la biodiversità nelle nostre città e sono incredibilmente belli!
Per questo motivo il primo dei nostri cinque punti è dedicato agli alberi. Abbiamo deciso di lanciare uno slogan semplice e orecchiabile “10 alberi al giorno” ma questa formula merita di essere spiegata e approfondita. Di quali alberi parliamo? È importante non fermarsi a un mero conto degli alberi che riusciremo a far piantare nei prossimi cinque anni. Questo potrebbe indurci a piantare molti alberi giovani, magari sostituendone di più vecchi, malgrado godano di buona salute. Il nostro progetto di forestazione urbana dovrà invece partire da un monitoraggio attento del patrimonio arboreo presente sul territorio comunale, in particolare per quanto riguarda le zone urbane e periurbane. Questo monitoraggio dovrà essere pubblico: vogliamo che il Comune realizzi un open database dell’alto fusto consultabile da tutti i sestesi on-line. Questo metterà in grado il cittadino di verificare, per tutti gli alberi in zona urbana, l’età, la storia della manutenzione, gli interventi programmati e la classe di rischio.
È importante che la classe di rischio degli alberi sia conosciuta e che i cittadini possano segnalare situazione dubbie per evitare, in presenza di fenomeni estremi sempre più frequenti, situazioni come quella avvenuta a metà frebbraio in vicinanza dell’asilo Il Gatto e la Volpe.
Crediamo che le piante non pericolose, anche se vecchie, non vadano sostituite ma salvaguardate. Se è vero che le piante giovani sono molto attive nella cattura di CO2 è infatti anche vero che le dimensioni di una pianta adulta consentono maggiori servizi ecosistemici, che non si limitano, ma comprendono anche l’assorbimento e lo stoccaggio dell’anidride carbonica.
Il progetto che immaginiamo ha due obiettivi: la messa a dimora di alberi in tutta la città, ad iniziare dalle zone più spoglie in periferia che si trasformano in estate in terribili isole di calore (e sempre più lo faranno!). Ma anche la piantumazione di una vera e propria zona di bosco, fuori dalla città, come ad esempio attorno all’area Perfetti-Ricasoli.
La forestazione urbana di Sesto potrà comprendere anche progetti affascinanti come quelli della piantumazione sugli edifici in via di realizzazione a Prato all’interno del progetto Prato Urban Jungle. È affascinante vedere come si possa aumentare il verde anche senza necessariamente creare foreste urbane. Orti sui tetti, giardini verticali e tetti erbosi sono progetti interessanti che il Comune dovrebbe sperimentare nei prossimi cinque anni, anche sfruttando finanziamenti legati al PNRR.
Ma è importante sperimentare in modo oculato, tenendosi alla larga da progetti spettacolari che non hanno capacità di essere sostenibili nel lungo periodo o che necessitano di ingenti quantità di acqua ed energia per rimanere in vita. Qualcuno ha notato che fine ha fatto il giardino verticale de Le Murate a Firenze?
Lo sforzo per piantare oltre 15mila alberi in cinque anni dovrà essere grandioso. In termini di risorse e di capacità amministrativa. Stiamo parlando sicuramente del progetto più complesso che Sesto abbia realizzato negli ultimi decenni.
Ma ci sono alcuni accorgimenti necessari e non secondari alla realizzazione del nostro progetto di forestazione urbana:
Sempre più spesso si sente parlare di “comunità energetiche”, ma probabilmente pochi sanno effettivamente cosa siano e come funzionino.
Abbiamo incontrato Giulio Signorini, geometra ecologista che ha fatto del risparmio energetico e delle rinnovabili una delle sue ragioni di vita.
Ecoló: iniziamo dalle basi: cos’è una comunità energetica?
Giulio Signorini: Essenzialmente la comunità energetica è la costituzione di un gruppo di persone che condividono l’autoproduzione di energia. In inglese si definiscono “prosumers” e sono al tempo stesso produttori ed utilizzatori di un bene, in questo caso dell’energia elettrica.
Esistono poi diversi tipi di comunità energetica: quella che fa riferimento ad una singola unità immobiliare (il grosso condomino, ad es.) e quella che collega più realtà sul territorio purché facciano capo alla stessa centralina.
Ecoló: Quindi anche un condominio potrebbe diventare comunità energetica? E quali sarebbero i pro e i contro?
GS: Certamente. Attualmente proprio un progetto di comunità energetica è stato proposto alle Piagge ad un condominio di 24 appartamenti. In questo modo si costituirebbe un’unica comunità dell’energia di 24 alloggi ed altrettanti garage. Si parla, in questi casi, di “autoconsumo collettivo” più che di comunità dell’energia, perché l’energia viene prodotta e consumata nello stesso luogo.
Certamente, quando la comunità è costituita da un blocco abitativo la produzione e il consumo sono leggermente squilibrati, perché proprio nelle ore di maggior produzione c’è, generalmente, un minor uso di energia. Si calcola che l’autoconsumo si aggiri, in questi casi, intorno al 30%-35%. È certamente possibile ovviare parzialmente a questo problema con gli accumulatori, così da poter fare l’autoconsumo anche la sera arrivando così ad un consumo del 50% dell’energia prodotta.
Ecoló: Questa idea di un condomino capace di auto-produrre l’energia di cui necessita ci sembra genaile! Ma ci sono soluzioni che consentono di consumarla interamente?
GS: La soluzione migliore sarebbe quella di coinvolgere nella comunità energetica anche altre attività con necessità ed orari diversi. La soluzione ideale sarebbe avere soggetti che si alternano nell’uso dell’energia, come ad esempio una scuola, delle abitazione e alcuni negozi e dei ristoranti.
Ecoló: Quali sono le difficoltà attuali nella creazione di comunità energetiche?
GS: Una comunità dell’energia deve oggi obbligatoriamente rientrare sotto una stessa cabina di trasformazione, rendendo più complicata la collaborazione tra strutture diverse all’interno dello stesso territorio.
Ecoló: Come si costituisce una comunità dell’energia?
GS: A livello formale serve un capofila, se c’è, oppure basta istituire un’associazione con codice fiscale. Gli associati possono decidere come dividere il consumo e se acquistare dai soci stessi l’energia non usata. I comuni potrebbero fare da promotori, come accade a Biccari, ed essere parte della comunità stessa.
Ecoló: Come influisce sui consumi essere produttori?
GS: L’essere responsabili dell’energia che si produce può certamente influire sui consumi. A Firenze l’ENEA (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, n.d.r.) ha installato in 150 abitazione un monitor che segnalava il consumo istantaneo, quotidiano e mensile di gas ed energia. In questo modo si è avuto una riduzione media dei consumi del 15%.
Quando si costituiste la comunità diventa necessario sapere quanto e quando si consuma!
Ecoló: Grazie per la tua disponibilità Giulio!
Le comunità energetiche sono una soluzione interessante per la riduzione del consumi e per acquisire una sempre maggiore consapevolezza sul valore economico, sociale ed ecologico dell’energia.
Per questo Ecoló Sesto ha tra i suoi obiettivi principali la realizzazione di comunità su territorio sestese per rendere il nostro comune sostenibile, consapevole ed ecologico.
Laura Santi e Zoe Tartaro sono due attiviste di Fridays For Future Firenze e stanno preparando, con tanti altri volontari, la manifestazione globale per la crisi climatica del 24 Settembre. Le abbiamo incontrate e ci siamo fatti raccontare come procedono i preparativi e tanto altro sulla loro militanza in FFF.
Ecoló: Iniziamo subito dalle cose importanti: cosa succede il 24 settembre?
Laura Santi e Zoe Tartaro: Ci sarà lo Sciopero Globale per il Clima in tutto il mondo e a Firenze ci sarà il corteo che partirà da Santa Maria Novella alle 9.30 e finirà in SS. Annunziata qualche ora dopo. Oltre al corteo e ad alcuni interventi ci sarà musica con i Pulsar, una band dal vivo che animerà la manifestazione.
Ecoló: Oltre a venire in piazza con voi venerdì che cosa possiamo fare in concreto per darvi una mano?
LS e ZT: Diffondere la voce il più possibile, fare informazione, mobilitare tutte le persone che conoscete, gli iscritti alla vostra associazione, qualsiasi persona. Bisogna soprattutto ricordare che non è lo sciopero dei Fridays, è lo sciopero di tutti, interessa tutti, è l’emergenza di tutti, perciò bisogna impegnarsi per trasmettere questo senso di urgenza. Per dare concretamente una mano all’organizzazione può essere molto utile dare un contributo economico attraverso il crownfunding (https://www.indiegogo.com/projects/sostieni-fff-firenze-e-pistoia–2#/ ), con la possibilità di acquistare un adesivo o un termoadesivo. Ancora più importante sarà partecipare alla manifestazione.
Ecoló: Ora, se non vi dispiace, vorremmo fare un passo indietro. Cosa vuol dire per voi essere attiviste di FFF? Come vi siete convinte a essere parte attiva del movimento?
LS: Essere attivista significa prendere parte al cambiamento del pianeta e cercare di far capire alla gente che cosa sta succedendo, quindi lottare per avere un futuro. Inoltre, per me è bello far parte di un gruppo, stare con persone che hanno a cuore le tue stesse cose. Io sono in Fridays da Dicembre scorso e sono entrata forse nel peggiore momento per il movimento, ma nonostante questo è molto bello fare qualcosa di concreto e condividere pensieri e preoccupazioni riguardo alla questione climatica.
Ecoló: Tre anni fa è sembrato che il mondo occidentale si svegliasse tutto insieme, migliaia di manifestazioni in tutto il mondo, fiumi di ragazzi che si riversavano in strada. I politici sembravano rendersi conto che FFF era il grande movimento progressista e di cambiamento emergente… poi cos’è successo?
ZT: Io mi sono unita al movimento dei FFF al secondo presidio, nel 2019, quando ero ancora all’ultimo anno di liceo. Dopo non molto è arrivata la pandemia. A mio avviso è stata la comunicazione online che ha limitato e frenato il coinvolgimento delle persone, che hanno patito a fare tutto attraverso uno schermo. Il COVID ha messo in crisi un po’ tutto il movimento non potendosi vedere in presenza, linfa vitale dell’attivismo. Però il movimento, pur affievolendosi un poco, ha sempre resistito.
Ecoló: Qual’ è lo stato oggi del movimento in Toscana e in Italia?
LS e ZT: Ci sono città che sono rimaste più attive di altre (Milano, Torino, Brescia ad esempio, mentre ad esempio Roma si è un po’ affievolita rispetto al suo periodo glorioso, come anche Firenze). Qualche gruppo locale è andato un po’ in letargo ma con questa manifestazione siamo ritornati tantissimi, come si può vedere anche dai social della pagina la quale ha pubblicato la mappa di tutti i gruppi locali che manifestano.
Ecoló: Pensate che ci sia anche qualcosa di più profondo che si è modificato con la pandemia? C’è stato anche un rimescolamento delle priorità nell’immaginario delle persone? C’è una tendenza maggiore a salvaguardare il proprio spazio sicuro, messo cosi in crisi dalla pandemia?
LS e ZT: Sì certo, la pandemia ha messo in crisi tutto, ha creato molta ansia, ha aumentato il disagio sociale ma ha ridotto le energie, ci siamo abituati a restare in casa, a salvaguardarsi, a pensare che la pandemia non è conclusa, e in effetti non lo è. E poi la pandemia ha fatto mettere da parte per mesi l’argomento della crisi clima, che si è perso nell’opinione pubblica.
Ecoló: Torniamo allo sciopero del 24. Per la prima volta questo settembre ci saranno in piazza con voi anche simboli di associazioni. Inizialmente era richiesto che nessuno esponesse simboli di appartenenza, cosa è successo?
Inizialmente volevamo rendere la piazza più omogenea e unita possibile. Evitare scontri ed evitare di dire a qualcuno sì e a qualcuno no. Anche se vedere la molteplicità delle realtà in piazza sembra bello, avevamo timore che potessero nascere tensioni. Ora abbiamo deciso di permettere qualche simbolo in piazza alle associazioni che si occupano di tutela del territorio e a quelle che si occupano di tutela dei diritti delle persone discriminate e marginalizzate dalla società. Questo perché in questa fase secondo noi è necessario fare rete con queste realtà nel territorio: per noi giustizia climatica significa anche giustizia sociale. La crisi climatica non colpisce e non colpirà tutti nello stesso modo. Vorremmo anche intervenire in piazza su questi argomenti, perché sia chiaro che giustizia climatica e sociale vanno necessariamente di pari passo e che anzi, giustizia sociale sia sottointesa in giustizia climatica, o meglio, quasi sinonimo.
Ecoló: E i partiti? Pensate che possano avere un ruolo?
LS e ZT:I partiti ce l’hanno già un ruolo: affrontare questa situazione nel miglior modo possibile nelle istituzioni in cui sono già presenti. Sarebbe meglio che lavorino insieme, FFF è apartitico, si rivolge a tutti. Quello che ci aspetteremmo è che i partiti si unissero per lavorare sulla transizione ecologica. La crisi climatica non ha colore di partito, secondo noi dovrebbe appartenere a qualsiasi partito.
Ecoló: Dopo le prossime elezioni quindi il vostro scenario ideale è un governo di unità nazionale che faccia la transizione ecologica?
LS: Il nostro scenario ideale è che non ci siano ostacoli alla transizione. Occorre procedere spediti, abbiamo sei anni di tempo. Quindi sì, un governo in cui ci siano dentro tutti quelli che sono disposti a fare la transizione ecologica.
ZT: Io personalmente non sono un’esperta, sono una studentessa del secondo anno di università, e ancora non ho un’opinione salda e definita, ci sto ancora riflettendo, ma quello che abbiamo chiaro è che occorre evitare che ci siano ostacoli alla transizione ecologica quindi, per quanto mi riguarda, viene quasi naturale pensare all’unità nazionale.
Ecoló: Avete in mente quali scelte andrebbero fatte per favorire la transizione, o vi limitate a denunciare l’urgenza della crisi climatica, chiamando i politici a trovare delle soluzioni?
LS e ZT:Abbiamo alcune certezze, ad esempio su cosa non bisognerebbe fare: ora, a 6 anni dal punto di non ritorno, non si può fare la transizione ecologica con il metano.
Ecoló: Come si riesce a coordinare un gruppo come questo, nel quale non ci sono gerarchie, come fanno a decidere i FFF?
ZT:Non pensiamo che le gerarchie siano necessariamente inutili, ma sta di fatto che FFF, contrariamente alle aspettative di molti, da tre anni riesce a coordinarsi attraverso strumenti orizzontali. Ci sono più strutture orizzontali, assemblee territoriali che tendono a decidere per consenso e solo raramente a maggioranza. Non esiste una gerarchia malgrado esistano livelli differenti (comunale, regionale, nazionale europeo ed internazionale). I portavoce locali, che non hanno ruoli decisionali ma solo di trasmissione di informazioni, si comunicano fra loro le decisioni dei loro gruppi di appartenenza. Il livello nazionale ad esempio è una rete di portavoce locali, non si passa attraverso il livello regionale.
Ecoló: come si prende una decisione sulla quale ci sono divergenze forti, magari fra gruppi locali? Una decisione come quella di aprire ai simboli delle associazioni come viene presa?
LS e ZT: Su quel tipo di decisione ogni gruppo locale si è mosso in autonomia, altre città hanno da subito accettato ad esempio la partecipazione dei sindacati e delle associazioni, ma sono poche. Ci sono state situazioni complicate che sono state però sempre risolte con la volontà di tutti, anche a livello nazionale, di trovare una soluzione di consenso; solo raramente si è votato a maggioranza. Un esempio di decisione presa mediante la votazione per maggioranza è stata la posizione di FFF contraria alla TAV in Val di Susa.
Ecoló: non possiamo che ringraziarvi per questa bella chiacchierata e invitare tutti a donare qualche euro per sostenere la manifestazione e soprattutto esserci.
Abbiamo intervistato l’autore del romanzo entomologico “Memorie dal sottobosco”, da poco pubblicato da Exorma edizioni.
Ecologista e autore eccentrico, Tommaso Lisa ci racconta come è nato il suo libro e come stanno gli insetti da queste parti del pianeta. Chi volesse ascoltarne dei brani può partecipare il 9 Settembre al Festival Voci Lontane Voci Sorelle presso PIA, Palazzina Indiano Arte, in fondo al Parco delle Cascine alle 17:00.
Ecoló. Ciao Tommaso, grazie per la tua disponibilità a rispondere alle nostre domande.
Un insetto è il protagonista di “Memorie del sottobosco”. Spesso considerati disgustosi o fastidiosi, perché gli insetti sono interessanti per te?
Tommaso Lisa. Lo sono fin dalla mia infanzia. Specialmente le chitine dei Coleotteri e i tegumenti dei Lepidotteri. Ho iniziato collezionando le specie più appariscenti per forma e per colore e l’interesse si è poi evoluto col tempo, specializzandomi nella famiglia dei Cicindelidi, i feroci “insetti tigre”. Tutto è iniziato con la mostra “Tre quarti di terrore” tenutasi al Forte di Belvedere penso nel 1981, una di quelle esposizioni divulgative e anche sensazionalistiche, con ragni e scorpioni a far da contorno, oltre a farfalle tropicali, che ovviamente colpirono la fantasia di un bambino. Sono uscito da lì, era primavera, e col cappello provai a prendere la prima cavolaia, la comune Pieris napi. Vi riuscii e mio padre, che già aveva una certa propensione alla raccolta e all’interesse per le forme della natura, mi aiutò, regalandomi teche, stenditoi, libri. Però non ne ho fatto il mio oggetto di studio universitario e non è diventata una professione. Ciò ha contribuito a lasciare intatta ancora oggi la passione giovanile. Una volta esaurito il piacere tassonomico e collezionistico avrei voluto approfondire quello ecologico e sistemico, ma a fine anni Novanta non si era ancora sviluppato l’interesse per questi aspetti. Per molto tempo ho anche allevato insetti e farfalle. Ma pur di non finire in un laboratorio a fare analisi specifiche sulla lotta integrata a fini agronomici, ho preferito mantenere una visione d’insieme, da dilettante, senza piegarla all’utile. I miei studi sono stati quindi umanistici, filosofici, prevalentemente di estetica in relazione alla poesia contemporanea, al simbolismo degli oggetti. Così dopo anni di latenza, in cui l’interesse per la collezione si era affievolito, sono tornato a studiare gli insetti indagando gli scrittori che si sono occupati di loro. Da Fabre a Nabokov, da Ernst Junger al nostro Guido Gozzano, passando per le poesie sulle farfalle di Hermann Hesse. Si è aperto un nuovo mondo, una ricerca con un orizzonte molto vasto ma al contempo coordinate assai precise. Considerare gli insetti come fastidiosi e disgustosi è l’emblema del rimosso e del senso di colpa di certa cultura, spesso formata su moralismi cattolici, che colpevolizzano il diverso ed escludono la varietà in nome di un fine cui uniformarsi. Ogni forma di vita, anche la più fastidiosa e apparentemente inutile, si è evoluta in maniera complessa e relazionale in base a ciò che il sistema gli ha consentito ed ogni forma naturale è necessaria all’equilibrio tra le varie parti.
Ecoló. Che cosa ci vuole raccontare il coleottero protagonista del tuo romanzo?
TL. Ci racconta la molteplicità dei punti di vista, dei piani di percezione e delle dimensioni possibili. Il Diaperis boleti, il Coleottero della famiglia dei Tenebrionidi di cui parlo nel libro, è una alterità irriducibile, una sorta di monade leibniziana. Ma che si muove in un mondo spinoziano: Deus sive natura. Non è possibile “essere” quell’insetto, come non è possibile essere altro da noi, dal nodo di relazioni linguistiche e sensoriali che struttura ciò che chiamiamo io. Quindi il coleottero racconta, in maniera mediata, lo svolgimento di queste relazioni tra me e lui, la trama di ricordi, di percezioni, di segni e di legami che tra me e quella forma si è creato nel corso del tempo. Il coleottero mi racconta di quando lo ho visto per la prima volta nel legno di un tronco, tra i funghi polipori di cui si nutre, dell’odore e del colore suoi specifici, che mi hanno segnato nel ricordo.
Ecoló. Quanto c’è di te ragazzo nel co-protagonista del romanzo?
TL. Il libro più che un romanzo è un memoir, un racconto diaristico, in prima persona, di un “piccolo fatto vero”, qualcosa di realmente accaduto, al quale si sommano nel montaggio diversi tasselli saggistici, alcune divagazioni entomologiche. Il co-protagonista quindi sono io, con un bovarismo esagerato, in ogni dettaglio: ciò che racconto è, per quanto la finzione della scrittura lo consenta, accaduto realmente.
Ecoló. Di lavoro sei assicuratore, ti occupi di insetti, hai un dottorato in letteratura… Ci racconti come sei arrivato fin qui?
TL. Ho anche praticato la disciplina agonistica dei quattrocento e degli ottocento metri per oltre venti anni, ad un discreto livello, ma sono anche un grande appassionato di ingegneria ferroviaria, in particolare di storia del trasporto su rotaia nel secolo scorso. Sono anche un padre, a mia volta, e cerco di seguire ogni passione che anima mio figlio di dieci anni. Adesso per esempio lo sto aiutando a realizzare dei fumetti. Ma abbiamo costruito modelli di navi, di aerei. Potrei interessarmi a qualsiasi cosa, purché ne abbia il tempo e ci sia la facoltà di tessere un discorso tecnico, una ricerca che metta in relazione le parti. Tutto è collegato nella vita e la mia insofferenza è proprio verso una certa settorializzazione professionale. Il lavoro di assicuratore, quando perde di vista il principio mutualistico che sta alla base ed è finalizzato esclusivamente alla massimizzazione degli utili, alla difesa della proprietà privata, può essere un vero strazio. Non sono arrivato da nessuna parte perché, più passa il tempo, più vedo che l’idea che vi sia una fine, un obiettivo verso cui tendere, è una illusione fittizia, fallace.
Ecoló. Gli ecologisti e gli scienziati sono in qualche modo riusciti a far passare il messaggio che siamo all’inizio di una terribile crisi climatica, quello di cui si parla molto meno invece è la riduzione della biodiversità che in molti ritengono un problema altrettanto e forse più importante, sei d’accordo?
TL. Il mondo è in “crisi” ogni volta che ci fermiamo a meditare su cosa sta accadendo: è il pensiero stesso che genera la crisi. Vi sono dei processi in atto. Non si tratta di essere d’accordo o meno. Siamo all’inizio di un cambiamento climatico, è un dato di fatto, come non c’è dubbio che l’attività umana di predazione, sfruttamento e stravolgimento degli ambienti naturali stia portando alla distruzione di ecosistemi, all’estinzione molte specie, riducendo la biodiversità. In merito al clima, i cambiamenti sono indotti o accelerati dall’attività umana. In passato vi sono stati anche cambiamenti più grandi di quello in corso, stravolgimenti epocali comunque riequilibratisi nel corso dei secoli o millenni. Non del tutto correlato al clima è il tema del drenaggio capitalistico delle risorse naturali. L’economia capitalista, concentrando il problema sul clima e la riduzione di emissioni di anidride carbonica, trasforma alcuni processi senza mettere in discussione la struttura della macchina produttiva. Le energie rinnovabili sono l’unica soluzione possibile, in particolare l’energia solare, ma non rappresentano un vero cambio di paradigma, se mettere a rendita e creare plusvalenza con uno sviluppo illimitato resta l’obiettivo. Anche se ideassimo un modo per sfruttare senza alcun dispendio l’energia solare resterebbe comunque insostenibile l’accelerazione del processo produttivo. Finché la specie umana non esce dall’idea di uno sviluppo illimitato non ci sarà possibilità di salvaguardare specie e ecosistemi nella loro alterità ontologica, prelinguistica. Mal tollero l’idea che certi esseri viventi meritino di essere tutelati solo se messi a rendita in un discorso economico. Credo vi sia un valore che va oltre il mero calcolo del rapporto costi-benefici. Un valore, “altro”, letteralmente non addomesticabile. La riduzione della biodiversità non è di per sé un problema: forse potremmo come specie umana sopravvivere anche in un mondo progettato come un rendering, asettico, con solo un numero ristretto di specie utili alle esigenze pratiche. La domanda dovrebbe essere forse riformulata chiedendoci quanto perderemmo della nostra identità, della nostra complessità di pensiero e di cultura privandoci della possibilità di relazionarci con la varietà di forme viventi non soggiogate all’utile economico.
Ecoló. Non sei un topo da biblioteca. Percorri i nostri giardini e i nostri boschi a passo lento o di corsa. Qual è la situazione della nostra regione e della nostra Firenze? Come sta la nostra popolazione degli insetti?
TL. Bisogna domandarci come sta la popolazione di determinate specie di insetti. Da una parte le statistiche registrano una diminuzione globale della biomassa entomologica, ma personalmente non ho strumenti per contare il numero di moscerini o di mosche… Alcune specie molto resistenti e invasive, che riescono ad adattarsi facilmente, proprio grazie all’intervento antropico, hanno trovato terreno fertile per riprodursi: non c’è dubbio che blatte, mosche e zanzare prolifereranno in un futuro distopico. La situazione è tragica invece per tutte quelle specie più fragili e legate ad ecosistemi circoscritti che vengono quotidianamente distrutti in nome del progresso e della sicurezza. La bonifica programmata di zone umide, lo smaltimento di ceppaie marcescenti, l’eradicazione di boschi spontanei, dei terreni incolti, oltre alla fine della coltivazione manuale di piccoli orti, assieme alla frammentazione del suolo dovuta alla cementificazione, al diffondersi uniforme dello “sprawl”, rischia di eliminare definitivamente molte specie. Ciò che mi fa molto soffrire è la voluta, programmatica eliminazione operata con mezzi industriali e meccanizzati – da parte di chi adesso gestisce il territorio – di tutto ciò che è spontaneo, l’idea di “gestire” il verde come se fosse una piantagione, una aiuola. Soffro molto l’assenza di campagna, l’eradicazione di ciò che non è prettamente “urbano” dalla vita quotidiana. L’esistenza si fa asettica e anche vedere un macaone o un’ape diventa, in certi luoghi della città, letteralmente impossibile.
Ecoló. Cosa pensi che dovrebbero fare le istituzioni per riportare il nostro ecosistema locale in equilibrio? Quali sono le scelte che invece andrebbero assolutamente evitate?
TL. Credo che le istituzioni non dovrebbero fare niente per riportare il nostro ecosistema in equilibrio. Fare il meno possibile, dando agli ecosistemi la possibilità di riequilibrarsi omeostaticamente, coi tempi che la natura richiede, che non sono quelli dell’economia. Ogni volta che una istituzione umana vuole assurgere a giudice di ciò che è giusto o sbagliato compie una violenza, aggiungendo danno al danno. Che si lasci la natura fare il suo corso. Ogni interferenza, ogni correttivo apportato a livello industrializzato, meccanizzato, scientificamente mirato – ossia istituzionalizzato appunto – credo che sia da rigettare. Piantare alberi di vivaio come se fossero coltivazioni intensive non risolverà certo il problema climatico. In una società utopistica, tante aree edificate dovrebbero essere demolite e riportate a verde incolto – la friche di cui parla Gilles Clement – e a ciascun cittadino dovrebbe essere assegnato un lotto di terra da curare manualmente, in modo tradizionale, così da avere una autosufficienza energetica e alimentare. Ma purtroppo in passato anche tali “ritorni alla terra” non hanno dato buoni frutti. Il ritorno alla terra è un tema purtroppo appannaggio della cultura reazionaria, se non di destra; andrebbe aggiornato nel senso di jus soli e del fatto che la terra dovrebbe essere di chi se ne prende cura in senso ecologico, perché la natura è un bene comune. Mi augurerei almeno un impegno immediato a non consumare più un centimetro quadro di terreno incolto, a riportare a verde tutti i terreni urbani dismessi (demolendo vecchie fabbriche, caserme, edifici fatiscenti) e mettere subito al bando tutti i pesticidi, gli erbicidi e i fertilizzanti chimici sul territorio.
Ecoló. Cosa pensi della politica ecologista in Italia? Cosa manca? Cosa sarebbe utile ci fosse?
TL. Gli ecologisti in passato si sono chiusi su posizioni strettamente conservative, rescindendo – anche giustamente – i legami con la logica dell’utile, e perdendo quindi consenso. I nuovi ecologisti pensano invece di risolvere i problemi piantando parchi eolici, foreste industrializzate, tornando magari al nucleare. Per sua costituzione la politica deve mediare e cercare consenso e finché la mediazione e il consenso vengono indirizzati da logiche di sfruttamento illimitato delle risorse e del territorio ci sono poche prospettive. Manca una cultura scientifica. In questo paese gli insetti vengono appunto considerati dalla maggior parte delle persone come disgustosi o fastidiosi. Sarebbe utile ci fosse più consapevolezza di sé e degli altri esseri viventi, della complessità della natura. In definitiva credo sia utile ci sia più cultura, una scuola che insegni meglio la complessità della vita, che insegni la meditazione e lo sviluppo del pensiero, il confronto e l’approfondimento, l’apertura al diverso. Finché invece l’obiettivo resta quello di accelerare il consumo e velocizzare lo sfruttamento delle risorse non prevedo niente di buono.
Ecoló. Cosa ti aspetta ora? Progetti un altro romanzo? Continuerai a studiare gli insetti? O esplorerai altre direzioni di ricerca?
TL. Continuo a scrivere, rendicontando narrativamente i risultati delle mie ricerche entomologiche. Ciò potrebbe dare vita a diversi altri progetti editoriali, che prenderanno forma solo se vi sarà un pubblico di lettori interessato ai temi che tratto. La mia ricerca continua, infinitamente, anche come “contemplatore solitario”.
Ecoló. Grazie e a presto!