Alle forze politiche,
Al Goveno,
Con la presente siamo a ricordarvi che non abbiamo più tempo.
La svolta ecologica del sistema economico, della mobilità, della produzione e del consumo, deve essere attuata adesso.
L’Italia è gravemente in ritardo e le azioni di questa legislatura saranno decisive.
Per fare queste cose, non c’è niente di nuovo da inventare.
Serve mettere in atto le proposte e le soluzioni che arrivano dalla comunità scientifica.
Ascoltare figure autorevoli, quali Annalisa Corrado, Daniela Ducato, Sergio Ferraris, Luca Mercalli, Gianni Silvestrini e molti altri e molte altre.
Collaborare con realtà della società civile che da anni spingono verso il cambiamento, come ASviS, Legambiente, Greenpeace, WWF, Lipu, QualeEnergia, Coordinamento Free, Italia Solare, Anev, FIAB, Forum Disuguaglianze e Diversità, le ragazze e i ragazzi di Fridays For Future ed Exctinction Rebellion.
Ci aspettiamo che facciate sul serio, stavolta.
Confidando in una vostra seria presa in considerazione e risposta,
porgiamo cordiali saluti.
Vi invitiamo a copiare e incollare questo messaggio e inviarlo ai presidenti dei gruppi parlamentari che sostengono la maggioranza:
Camera
GELMINI_M@CAMERA.IT (Forza Italia)
BOSCHI_M@CAMERA.IT (Italia Viva)
MOLINARI_R@CAMERA.IT (Lega)
FORNARO_F@CAMERA.IT (LeU)
CRIPPA_D@CAMERA.IT (5S)
DELRIO_G@CAMERA.IT (PD)
SCHULLIAN_M@CAMERA.IT (Misto)
Senato
annamaria.bernini@senato.it (Forza Italia)
davide.faraone@senato.it (Italia Viva)
massimiliano.romeo@senato.it (Lega)
andrea.marcucci@senato.it (PD)
julia.unterberger@senato.it (Autonomie)
loredana.depetris@senato.it (Misto)
I cambiamenti climatici e il conseguente aumento delle temperature provocheranno più frequenti e intense stagioni secche in tutto il mondo, rendendo il problema della scarsità idrica pervasivo.
In appena due decenni la quantità d’acqua potabile disponibile pro-capite è diminuita di circa il 20%, secondo l’ultimo rapporto annuale della FAO “The State of Food and Agriculture”. Le Nazioni Unite stimano che oltre due miliardi di persone vivono in Paesi “sottoposti a un forte stress idrico”, mentre quasi due terzi della popolazione mondiale deve affrontare gravi carenze d’acqua per almeno un mese all’anno. Inoltre, l’UNICEF prevede che, “entro il 2040, un bambino su quattro – circa 600 milioni di minori in tutto – vivrà in aree sottoposte a stress idrico estremamente elevato”. Siccità e fenomeni meteorologici estremi colpiscono in modo sproporzionato i più vulnerabili e, per larga parte, sono conseguenza dei cambiamenti climatici in atto per i quali i paesi più ricchi hanno le maggiori responsabilità.
Questi segnali fanno vedere la scarsità della risorsa acqua sempre più frequentemente come un rischio economico, alimentando gli appetiti del mercato al punto che, il Cme Group, la più grande piazza finanziaria dei contratti a termine del mondo, in collaborazione con il Nasdaq, ha annunciato la creazione del primo future sul mondo sull’acqua.
Ma cosa sono i Futures? Un contratto future è uno strumento mediante il quale acquirente e venditore si impegnano a scambiarsi una determinata quantità di una attività (detta sottostante) a un prezzo prefissato e ad una data futura prestabilita. Questo contratto può essere poi scambiato sui mercati regolamentati.
In pratica, un future nasce nel momento in cui qualcuno è interessato a predefinire il prezzo di un bene a causa delle variabili che tendono a renderlo imprevedibile. In California l’acqua è un bene molto appetibile per prodotti finanziari in quanto è una risorsa essenziale e soggetta all’impatto incisivo dei cambiamenti climatici: siccità brutali, alto numero di incendi e precipitazioni estreme. Basti pensare che il 40% dell’acqua consumata in California è destinata all’irrigazione, con costi molto elevati specie per alcune colture, come quella delle mandorle.
Da qui la nascita dei primi futures sull’acqua, proposti in linea teorica come strumento di risk management, per aiutare le municipalità, le aziende agricole e le imprese industriali a proteggersi dai rischi economici legati alla carenza idrica ma che già mostra ambizioni diverse.
In California il future sull’acqua debutterà nel quarto trimestre, sulla piattaforma Globex con sottostante il Nasdaq Veles California-Water Index per un mercato da 1,1 miliardi di dollari.
Sebbene sia stato progettato per il mercato californiano, il gruppo statunitense vuole espanderne il modello. “Con quasi due terzi della popolazione mondiale che dovrebbe affrontare la scarsità d’acqua entro il 2025, questa rappresenta un rischio crescente per le imprese e le comunità di tutto il mondo”, ha infatti spiegato Tim McCourt, responsabile Cme Group degli indici azionari e dei prodotti di investimento.
La situazione in Italia. Nel nostro paese la gestione della risorsa idrica è disciplinata da ARERA, che ne regola anche le tariffe di vendita, con il nuovo Metodo Tariffario Idrico valido per il periodo 2020-2023. Questo nasce nel segno del Water Service Divide e prevede l’efficientamento dei costi operativi e delle gestioni, la valorizzazione della sostenibilità ambientale anche attraverso il Piano per le Opere Strategiche e gli incentivi agli strumenti di misura dei consumi, per aumentare la consapevolezza dei cittadini. Il Metodo premia l’efficienza energetica e prevede incentivi per il risparmio e il riuso delle acque, nell’ottica di un’economia circolare.
Tutto ciò comporta che, rispetto al caso californiano, non ci possa essere un soggetto con interesse di mercato o di manovre speculative, in quanto il prezzo è regolato e non è possibile stipulare prezzi differenti in base alla disponibilità della risorsa.
Inoltre, ad oggi il sistema italiano prevede una gestione dell’acqua in cui la matrice pubblica è prevalente, considerando società a completa gestione pubblica, miste o gestite direttamente dall’ente locale[1] e che, in seguito alla vittoria del sì referendum di giugno 2011:
Difatti, nella realtà, poco è cambiato a seguito del referendum, che avrebbe dovuto portare ad una gestione effettivamente pubblica, ma ad oggi non è così! (maggiori informazioni qui).
Nonostante tutto ciò, pensiamo sia giusto chiedersi se è davvero così remoto che anche in Italia e in Europa non possa figurarsi uno scenario di scarsità di risorsa idrica tale da innescare la richiesta di prodotti finanziari quali i futures, considerando in particolare la scarsa considerazione che i decisori politici hanno dei cambiamenti climatici.
E a livello globale? Dove sono già in atto politiche di water grabbing, ossia di accaparramento della risorsa idrica, i future sull’acqua potranno essere parte del problema?
Per provare a rispondere a queste domande ne abbiamo parlato con Marirosa Iannelli, presidente del Water Grabbing Observatory, specializzata in cooperazione internazionale e water management e co-autrice del libro “Water Grabbing, Le guerre nascoste per l’acqua nel XXI secolo“.
Ecoló: Ciao Marirosa, grazie per la disponibilità a rispondere alle nostre domande. Per prima cosa vorremmo chiederti di cosa ti occupi esattamente.
Marirosa Iannelli: Grazie a voi per questa intervista! Da circa 10 anni lavoro nel settore della cooperazione internazionale, collaborando con organizzazioni non governative come project manager di progetti ambientali. Attualmente lavoro con Amref Health Africa, storica ong africana e con Italian Climate Network, coordinando progetti di educazione, comunicazione e advocacy climatica. Circa 3 anni fa ho fondato insieme al giornalista e geografo Emanuele Bompan il Water Grabbing Observatory, per documentare casi di accaparramento idrico, di violazione dei diritti umani e ambientali in tutto il mondo…e molto, molto, altro.
Ecoló: Il termine “grabbing” tendiamo ad associarlo agli acquisti di terre ma nel tuo libro ci racconti di quanto si stia estendendo all’acqua. In che misura questo è un fenomeno che dovrebbe preoccupare anche noi?
MI: Terra e acqua sono due risorse strettamente interconnesse: land e water grabbing infatti spesso e volentieri vanno di pari passo, ma nel libro abbiamo posto l’accento in particolare sulla gestione delle risorse idriche. “L’acqua” è un tema molto ampio: dalla privatizzazione, alla scarsità idrica dovuta ai cambiamenti climatici, dalla costruzione di mega impianti idroelettrici molto impattanti sugli ecosistemi all’inquinamento o sovra sfruttamento causato dall’estrazione mineraria. Ogni qual volta che non si fanno i conti con i diritti della natura e delle persone, depauperando territori e gravando sulla vita di comunità e popolazioni più a rischio, possiamo parlare di grabbing. Ovviamente con criticità e conseguenze molto diverse a seconda dell’area del mondo, ma la dinamica di fondo è la stessa.
Ecoló: Quali strumenti ci sono per contrastare il water grabbing? Esistono esempi virtuosi di interventi che hanno migliorato la situazione?
MI: In termini molto concreti, a mio avviso l’accaparramento idrico può essere contrastato in primis riconoscendo l’acqua come bene comune e come diritto umano. Questa consapevolezza passa attraverso un riconoscimento giuridico e politico che tuteli realmente questa risorsa in quanto tale e non come merce da quotare in borsa. Una volta assunto tutto ciò, si può davvero lavorare per una gestione sostenibile e partecipata dei sistemi idrici: mi piace citare tra gli esempi virtuosi molti dei comuni francesi, che in un paese che ha le più grandi multinazionali dell’acqua in bottiglia e gestori privati (Veolia, Suez,etc), hanno deciso di “ri-municipalizzarsi” cioè tornare ad una gestione totalmente pubblica dell’acqua, con grossi benefici sia per l’ambiente che per i cittadini. Questi modelli di piccoli, medi e grandi comuni, possono essere presi ad esempio anche in Italia, se solo riuscissimo a fare una vera transizione ecologica della gestione dell’acqua.
Ecoló: Si è parlato di pericolo di speculazione e mercificazione di un bene vitale, dal tuo punto di vista, a livello globale la notizia sui primi future sull’acqua quanto ti preoccupa? a cosa può portare?
MI: Sono molto preoccupata. A oltre 10 anni dalla risoluzione delle Nazioni Unite sul diritto umano all’acqua e ai servizi igienico-sanitari, nonostante l’enorme lavoro di associazioni, movimenti, cittadini in tutto il mondo, non c’è ancora sufficiente consapevolezza sull’urgenza di tutelare la risorsa idrica in quanto bene comune. Questa consapevolezza necessita ormai di un vero lavoro congiunto tra giurisprudenza, scienza, politica ed economia. In uno scenario (presente e) futuro in cui i cambiamenti climatici avranno un impatto sempre maggiore sulle nostre vite, non possiamo più permetterci di ignorare il tema dell’acqua. Temo soprattutto un aumento dei conflitti in aree del mondo già sensibili e colpite sia da siccità che da una cattiva gestione delle risorse, e temo un forte aumento delle disparità sociali.
Ecoló: A livello nazionale invece come siamo messi sulla gestione della risorsa acqua? ci sono fenomeni di accaparramento anche da noi?
MI: Sicuramente in Italia non abbiamo la stessa situazione di comunità che ogni giorno fanno i conti con la necessità di camminare 30 km per raggiungere la prima fonte d’acqua. Ma questo scenario, che ci appare così lontano dalla nostra quotidianità, dovrebbe farci riflettere su quanto poter aprire ogni mattina il rubinetto di casa sia quasi “un lusso” che potremo non permetterci più. Per esempio già nell’estate del 2017 si è “sfiorata” la crisi idrica a Roma dovuta all’abbassamento del Lago di Bracciano (punto di prelievo idrico per la capitale). Ecco che a 10 anni dal referendum per l’acqua pubblica, concretizzare la volontà popolare con una gestione realmente pubblica e democratica delle risorse idriche vorrebbe dire contrastare il water grabbing. Anni di privatizzazione o di gestione partecipata pubblico-privata non hanno portato maggiore efficienza nel servizio, anzi: basti pensare che ad oggi le nostre infrastrutture sul territorio nazionale sono obsolete e letteralmente bucherellate per oltre il 47% (dati Istat del 2019).
Ecoló: Cosa fa in concreto il Water Grabbing Observatory e cosa pensi che possiamo fare noi, come cittadini e come Ecoló?
MI: L’osservatorio è nato con l’obiettivo primario di documentare e dare voce a chi spesso non ce l’ha: abbiamo iniziato proprio andando nei paesi più colpiti dal water grabbing, realizzando interviste, fotografie, approfondimenti con dati scientifici e politici. Il giornalismo d’inchiesta, la ricerca, l’arte sono alla base di molti dei nostri lavori. Dai primi reportage tra Africa, Medioriente, Canada e Sudamerica, alle interviste ai difensori dell’acqua. Ma non solo: oltre alla documentazione sul campo è importante anche informare puntualmente e per questo abbiamo avviato proprio nel 2020, anno in cui non è stato possibile viaggiare a causa della pandemia, la prima newsletter dal mondo dell’acqua. #Accadueo è una nostra selezione di notizie dall’Italia e dal mondo per approfondire il tema dell’acqua, del clima e dei diritti. Spesso ci troviamo letteralmente bombardati da tante informazioni diverse e in contraddizione tra loro, in questo senso il nostro ruolo è verificare news e fonti per renderle fruibili a tutti in modo semplice e accurato. WGO si occupa anche di sensibilizzare cittadini e influenzare i decisori politici: ne è un esempio la campagna #StopAcquaInBottiglia che promuove l’acqua pubblica, l’uso dell’acqua del rubinetto e fornisce numeri chiari e aggiornati sull’enorme business dell’acqua in bottiglia a discapito delle nostri fonti. In ultimo, portiamo avanti l’azione politica necessaria per far si che il diritto umano all’acqua sia riconosciuto come tale, a partire dall’Italia. Come? Lavorando per la legge sull’acqua pubblica che a ormai 10 anni dal referendum ancora non vede la luce. Come cittadini abbiamo un ruolo fondamentale e lo stile di vita che ognuno di noi sceglie è determinante anche per influenzare la politica. Informarsi quotidianamente e studiare sono alla base della comprensione di ciò che ci circonda (e qua mi rivolgo soprattutto alle giovani generazioni, ma non solo!). Agire e scegliere per esempio di non acquistare acqua in bottiglia, è un gesto concreto che ognuno di noi può fare.
Ecoló. Grazie per il tuo tempo, buon lavoro!
[1] Secondo i dati di Utilitalia (2019), oltre la metà degli abitanti residenti (il 54%) riceve un servizio erogato da società interamente pubbliche. Un italiano su 3 lo riceve da società miste a maggioranza o controllo pubblico, mentre un 11% direttamente dall’ente locale (“gestione in house”, possibile solo a determinate condizioni, tra cui il capitale interamente pubblico della società affidataria). Infine, un 2% della popolazione italiana è servita da società private e l’ultimo 1% da società miste a maggioranza o controllo privato.
Negli ultimi anni sono in aumento film e documentari che hanno come tema l’ambiente, la crisi climatica, il rispetto del Pianeta, dimostrando una crescita di interesse sul tema e dando prova di come la cultura possa (e debba) essere uno strumento per portare avanti sfide ambientali e sociali del nostro tempo.
Entrando nel merito, diciamo spesso che ci troviamo di fronte a una crisi che non è solo ambientale ma “sistemica” e crediamo che anche il modo in cui si fa cultura ne sia parte integrante.
Vogliamo quindi dare voce a un settore, quello della cinematografia, che sembra faticare a darsi una direzione, partendo proprio dal momento difficile e particolare che stiamo vivendo.
Lo facciamo con Samuele Rossi, regista toscano, vincitore del prestigioso PÖFF | Tallinn Black Nights Film Festival, con il suo nuovo film Glassboy, ultimamente in anteprima al Giffoni Film Festival, appena uscito il 1° febbraio in streaming on demand sulle principali piattaforme.
Ecoló: Ciao Samuele e grazie per la tua disponibilità per questa intervista. Di recente hai lanciato un appello sui social intitolato: “le sale cinematografiche chiuse ed il terribile e codardo silenzio di un intero settore”. Da dove nasce questo sfogo?
Samuele Rossi: L’appello nasceva principalmente da una sensazione di forte smarrimento e delusione rispetto all’assenza di un reale dibattito sulla chiusura delle sale cinematografiche che è una ferita aperta non solo nella vita culturale del nostro paese, ma anche sociale delle nostre comunità. Stonava (e stona) ancor di più il fatto che questo disinteresse, questa apatica accettazione dello status quo, appartenga in primis al settore di cui faccio parte. Addirittura è difficile trovare una dichiarazione di qualche regista italiano di particolare rilievo che si sia esposto. Quest’atteggiamento, ovviamente frutto del fatto che il settore cinematografico sia stato ampiamente supportato dalla politica in questi mesi attraverso “i ristori” e la “cig” (e altre misure più specifiche), denota “una pancia piena” che ha portato, soprattutto per la grande distribuzione, una situazione di assoluta passività e di totale noncuranza del significato, del valore e del ruolo delle sale cinematografiche nel tessuto sociale.
Ovviamente i piccoli esercenti non la pensano così, vorrebbero aprire, lavorare seguendo i protocolli. Ma è ovvio che in un gioco economico così complesso e rilevante le piccole imprese rimangono purtroppo ai margini del discorso politico. Il punto non è un’apertura priva di logica, ma confrontarsi, dibattere sul problema, trovare soluzioni intermedie. Perché se alle grandi imprese questa situazione è quasi conveniente, non è lo stesso né per i piccoli esercenti, né per la piccola distribuzione, né per la produzione indipendente. Il cinema che si espone, che sta in prima linea, finisce per essere definitivamente ucciso da questa politica miope e sterile.
Ecoló: Nella crisi sanitaria e sociale in corso, come giudichi i provvedimenti di chiusura di cinema e teatri? Potevano essere trovate soluzioni alternative? La situazione è complessa e delicata.
SR: Credo che nella prima ondata non ci fossero alternative. Credo lo stesso durante il picco della seconda ondata. Le regole devono valere per tutti. Dunque se molti settori aperti al pubblico vengono chiusi, deve valere lo stesso anche per le sale cinematografiche, per i teatri. Ma oggi la situazione si muove sulla linea di una certa stabilità. Dunque ritengo che attraverso un differente confronto, un settore, quello cinematografico intendo, maggiormente attento e volenteroso e un dibattito più incisivo oggi si potrebbero attivare, attraverso gli stessi protocolli di sicurezza che erano già stati trovati nella tarda primavera del 2020, delle modalità di fruizione rivolte al pubblico. Ma non c’è la volontà. Questo è il punto.
Ecoló: Abbiamo sentito spesso alzate di voci a difesa di ristoratori e categorie economiche di ogni tipo, mentre poco o niente da parte del mondo del cinema, come mai?
SR: Perché il nostro settore, soprattutto nella distribuzione e nell’esercenza, ha goduto di interventi massicci, spesso addirittura totalmente compensativi delle perdite. Inoltre c’è una CIG significativa. Questo permette alle grandi aziende della distribuzione, che purtroppo mantengono il controllo decisionale e sono attori decisivi nel dialogo con la politica, di rimanere chiusi senza problemi e scaricare i costi sullo Stato disinteressandosi del danno che l’assenza di attività culturale produca nella società. Non voglio dire che non deve essere il sostegno pubblico (non voglio creare equivoci), ma sono allo stesso modo convinto che gli aiuti statali debbano confluire anche nella direzione di una stimolazione dell’attività, di una ricostruzione o rimodellazione di essa. Altrimenti non c’è ripartenza, non c’è progettualità, non c’è futuro. Vogliamo veramente credere che seguendo determinati protocolli di sicurezza non sia possibile, con il supporto di politiche di sostegno, riaprire le sale con presenze scaglionate, programmazioni differenziate, orari elastici? Quando nello stesso momento i centri commerciali, giusto per fare un esempio, sono aperti senza nessun tipo di specifico controllo…
Ecoló: Chi è maggiormente impattato da questa situazione e in che modo? Produttori, distributori, gestori di cinema, attori e lavoratori del settore?
SR: I produttori da una parte e i lavoratori del settore dall’altro. Distribuzione ed esercenti hanno ristori significativi e cig, tutele importanti, spesso quasi compensative in toto, che finiscono però per schiacciare la piccola esercenza che ovviamente lavora su pubblici e modalità differenti. Paradossalmente senza i grandi titoli, che in questo momento sono stati tutti rimandati a dopo l’estate, il vero problema lo avrebbero i grandi distributori e i multplex (che farebbero fatica a lavorare su titoli indipendenti o d’autore). Ecco perché è tutto chiuso.
Ecoló: Come per tante altre situazioni del nostro Paese, questa pandemia ha fatto emergere spesso criticità già presenti, di tipo strutturale, che nel momento di crisi sono amplificate e gestite con provvedimenti “tampone”, senza sfruttare l’occasione per una riflessione più ampia. È così anche per il cinema? C’è una visione di prospettiva a medio-lungo termine che possa andare a questo momento drammatico?
SR: E’ proprio così. Il vero problema è questo, come già anticipavo. Sono tutte misure rivolte al presente, anche significative, anche rilevanti. Ma sono tutte iniziative che puntano a far sopravvivere (che è già qualcosa ovviamente), ma non sono sostenute da un pensiero a medio-lungo termine. Non c’è progettualità, né viene incentivata o richiesta, pensando erroneamente che tra 8 o 12 mesi tutto riprenderà come se fossimo ancora nel 2019. Sarebbe stato opportuno condizionare certe forme di sostegno a vincoli di rinnovamento delle proprie attività, di ammodernamento delle infrastrutture o di ricostruzione di nuove forme di condivisione e fruizione. Ma se manca il dibattito come puo’ avvenire? Se il nostro settore tace come la politica potrebbe sapere?
Ecoló: Come dicevamo all’inizio, l’attenzione alle sfide ecologiche del nostro tempo sta diventando sempre più presente nella produzione cinematografica, come vedi la relazione tra cinema e ambiente?
SR: Il cinema solitamente ha sempre avuto la capacità di parlare dei temi che coinvolgono l’attualità: ecco dunque che l’ambiente è diventato di rilievo sia nel cinema documentario che nel cinema di finzione. Non solo. L’emergenza ambientale sta cambiando anche molte abitudini produttive, se non addirittura aspetti integranti del modello economico che sostiene un’operazione cinematografica. Basti pensare che ormai quasi tutti i bandi a livello europeo e nazionale che caratterizzano l’attività di sostegno al cinema da parte delle Film Commission inseriscono delle premialità laddove le produzioni cinematografiche garantiscono livelli di sostenibilità ambientale sul set (raccolta differenziata, ecomobilità…). Ovviamente non è facile, un set è “un circo” in movimento. Ma se c’è la volontà e se il lavoro di controllo è svolto bene anche i set possono diventare luoghi capaci di rispettare l’ambiente e rinnovare le proprie abitudini.
Ecoló: Tornando all’appello lanciato qualche giorno fa sui social, che risposta stai ottenendo? Hai fiducia che si possano investire risorse, non solo economiche, per un rilancio innovativo del settore della cultura, cinematografica in primis?
SR: Tanti consensi vicini, nel passaparola di amici e colleghi, una discreta attenzione in termini regionali (la Toscana, regione in cui vivo e opero maggiormente). Ma 0 risposta in termini più strutturati. Ma è normale. Per quanto faccia questo lavoro da più di 10 anni, abbia diversi film alle spalle e il mio secondo film di finzione uscito il 1° febbraio, è sempre difficile portare attenzione su temi importanti e spesso spigolosi, rompere un certo “muro di gomma”. Dovrebbero essere ben altri nomi della regia italiana a farsi carico di questa battaglia, a stimolare il confronto ed il rilancio. Ma questo non accade. Come mai? Non me lo spiego.
Ecoló: Ti ringraziamo per il tuo tempo e ti chiediamo di chiudere con un suggerimento per chi ha a cuore il cinema in sala: quale potrebbe essere un modo per sostenerlo, anche indirettamente, in attesa di poterci tornare presto?
SR: Non perdere le abitudini cinematografiche. Guardare film, su qualsiasi piattaforma possibile. E’ un modo per sostenere il cinema e la sua fruizione in questo momento che non ci sono alternative. Ma al contempo non prenderla come un’abitudine (non troppo almeno). Perché è la sala l’unico luogo dove un film possa essere realmente goduto e vissuto. E perché alla fine di tutto questo i cinema torneranno a riaprire e sarà bello ritrovarsi in fila, in attesa di comprare il biglietto, per una nuova splendida visione da condividere assieme.
La bicicletta è il mezzo di trasporto su cui puntare per i prossimi cinque anni e sul quale gettare le basi per un futuro sostenibile.
La bici non è solo un mezzo di trasporto attivo, che fa bene all’ecosistema e alla salute di chi lo utilizza, è anche il sistema più rapido per raggiungere destinazioni entro il raggio di 5 km!
La distanza media degli spostamenti interni al comune, a differenza di quanto accade nelle città limitrofe di Firenze e Prato, è inferiore ai 5 km. I tragitti sono per la maggior parte pianeggianti e la rete di piste ciclabili protette è ormai piuttosto estesa.
Sesto Fiorentino ha perciò tutte le qualità per favorire una modalità di trasporto dolce come la bicicletta, destinata ad essere potenziata sul territorio della Piana con il progetto della SuperStrada Ciclabile FI-PO, infrastruttura che raggiungerà Sesto Fiorentino attraverso Via delle Due case fino alla pista su Via Pasolini, già collegata dalla attuale amministrazione al confine con il Comune di Firenze. La struttura della rete ciclabile prevede inoltre un ulteriore connessione con Firenze tramite il tratto che costeggia l’Aeroporto, attraversa il quartiere di Peretola e giunge infine al Ponte all’Indiano, cioè al Parco delle Cascine.
La principale rete ciclabile di Sesto, rappresentata in figura, è caratterizzata da un grande anello attorno al centro Storico che si interconnette alle direttrici su Viale dei Mille e Via Pasolini. La rete è così collegata a quella proveniente dal Comune di Firenze, unendo sul proprio percorso punti nevralgici del territorio come il Polo Scientifico, la futura sede del Liceo Scientifico Agnoletti ed i centri commerciali adiacenti.
La rete delle piste sul nostro territorio comunale
Si segnala che il Comune di Sesto Fiorentino ha partecipato al bando “Modalità per la progettazione degli interventi di riforestazione” con un progetto che prevede al suo interno la realizzazione di un nuovo tratto di pista ciclabile che, in caso di aggiudicazione, collegherebbe la stazione ferroviaria all’area industriale di Viale Togliatti, completando una nuova direttrice dell’anello.
Siamo di fronte ad una buona situazione di partenza, sia in merito alle azioni portate avanti dell’attuale amministrazione, sia da un punto di vista infrastrutturale. Nonostante ciò Ecoló per Sesto Fiorentino ha realizzato uno studio sulla potenziale mobilità ciclistica, analizzando il territorio e confrontandosi con altre associazioni, in particolare con SestoInBici, la sezione locale di FIAB Firenze Ciclabile. Sono stati individuati i seguenti punti di intervento e miglioramento della ciclabilità sestese:
Favorire l’uso della bici non passa solo attraverso la creazione di piste dedicate. Una città in cui ci si possa muovere in sicurezza in bici e a piedi è anche una città dove le automobili non circolano in alcune zone, pedonalizzate, e circolano lentamente in altre. La realizzazione di “zone 30” è sicuramente un obiettivo a cui mirare anche per Sesto Fiorentino, prevedendo delle sperimentazioni già ad iniziare dai primi mesi della prossima consiliatura.
Infine l’arrivo della tramvia, che sembra ormai concretizzarsi, ridurrà notevolmente le dimensioni della sede stradale, tale impatto non dovrà provocare l’eliminazione di collegamenti ciclabili (Viale dei Mille) già oggi strategici per servire il Polo Scientifico, la zona industriale dell’Osmannoro ed il collegamento con Firenze tramite Peretola e le Cascine, oltre alla futura Superstrada Ciclabile FI-PO. Quest’ultima sarà fondamentale per incentiuvare gli spostamenti intercomunali in bicicletta fra Sesto e Firenze.
Ci sono infine azioni immateriali ma importanti che l’amministrazione si dovrà impegnare ad assumere. È importante che vi sia, all’interno dell’organico del Comune, una figura di riferimento formata sulla mobilità ciclistica, che possa favorire e coordinare gli interventi che verranno progettati nei prossimi cinque anni. L’esperienza di alcune città in Italia e all’estero, come quella di Nantes, mostrano come possa essere previsto un ufficio dedicato.
Un piccolo sforzo ulteriore dovrà essere fatto anche sul lato della comunicazione. Occorre tenere a mente che ogni auto che viene sostituita con una bici si traduce in una riduzione di costo per la comunità (meno incidenti, meno malattie, meno ingorghi). Per questo motivo occorrerà usare tutti i mezzi disponibili sia per la promozione dell’uso della bicicletta in ambito urbano, sia per la valorizzazione della infrastruttura creata. Possono essere interventi proficui l’apposizione di cartellonistica di segnalazione aggiuntiva, la condivisione di materiale informativo sul sito del Comune e la messa a punto di progetti con scuole, università, associazioni e imprese.
Mattia Venturato, socio di Ecoló, ha intervistato Alessandro Cosci, di FIAB – Firenze ciclabile Onlus, per capire l’origine, la funzione e il destino delle nuove corsie ciclabili comparse in città.
Mattia Venturato, Ecoló: Ciao Alessandro, grazie per la tua disponibilità a risponderci, vorrei partire con una domanda piuttosto specifica: qualche mese fa sono apparse queste strane corsie tratteggiate, cui non eravamo abituati. Di cosa si tratta?
Alessandro Cosci, FIAB – Firenze Ciclabile Onlus: A maggio, appena terminato il primo lockdown, il decreto “rilancio” ha previsto la possibilità di introdurre piste ciclabili di nuova concezione: non più la classica pista in sede protetta, separata dalla careggiata destinata alle auto, ma una “corsia”, uno strumento di rapida ed economica realizzazione, da fare “da una notte all’altra”.
Era tutto un altro clima rispetto ad oggi…
Sì, il momento era molto favorevole. Sull’onda delle dichiarazioni del sindaco di Milano, Giuseppe Sala, anche il nostro sindaco sembrava orientato a favorire il più possibile la ciclabilità: la pandemia ci chiedeva di trovare soluzioni alternative al trasporto pubblico e la bicicletta ovviamente era la principale soluzione. Questa novità (la corsia ciclabile, ndr) appariva un po’ come la classica “bacchetta magica”…
Avete partecipato anche voi alla progettazione?
Sì, anche se buona parte delle strade destinatarie dell’intervento le aveva già individuate il Comune. Eravamo ovviamente favorevoli a sperimentare questo nuovo genere di pista ciclabile. Abbiamo visionato e dato il nostro parere su tutti i progetti prima che diventassero definitivi.
Quali sono gli obblighi delle auto quando si trovano a percorrere una strada con corsia ciclabile non protetta?
Inizialmente il testo del decreto prevedeva una sorta di promiscuità totale: la corsia doveva servire solo a segnalare la presenza di un percorso ciclabile all’interno della careggiata. Con la conversione in legge, però, le cose sono cambiate: adesso la corsia è effettivamente riservata; le auto, quando lo spazio della careggiata è sufficiente, devono lasciarla libera e possono impegnarla solo per brevi tratti, ad esempio per effettuare un parcheggio. Questo potrebbe spiegare il “raffreddamento” dell’amministrazione comunale dopo l’entusiasmo iniziale.
Da 1 a 10 quanto contribuiscono realmente le nuove piste ciclabili a un progetto di città sostenibile, sicura, adatta ai soggetti più deboli e non soffocata dal traffico privato?
La mia risposta è sette, un valore tra il quattro e il dieci. Dipenderà dalle future scelte dell’amministrazione comunale: si limiterà a decantare la presenza di chilometri di nuove piste ciclabili sulla carta o investirà su un progetto integrato di moderazione del traffico che riesca a valorizzarle? Per il momento non possiamo saperlo.
Il Comune ha effettuato un monitoraggio sugli effetti di questa sperimentazione?
No.
Si potrebbe pensare al classico provvedimento a basso costo che mette insieme capra e
cavoli, la mobilità sostenibile con il primato dell’auto privata, che nessuno sembra voler
mettere realmente in discussione.
E’ un buon provvedimento tampone che non può certo risolvere un problema culturale che dovrà essere affrontato per i prossimi 20/30 anni. Bisogna investire sulla moderazione del traffico e non sulla separazione dei flussi. Il punto non è iniziare una guerra per la distribuzione dello spazio urbano, ma renderlo adatto a tutti i tipi di mobilità.
Domanda diretta: secondo te queste strisce verranno mantenute o scoloriranno fino a essere dimenticate?
Queste nuove corsie ciclabili sono ormai “istituite” e dovranno essere sottoposte a normale manutenzione, come per qualsiasi segnaletica orizzontale presente sulle strade. La loro eventuale eliminazione dovrebbe essere giustificata con oggettive e valide motivazioni, tutte da dimostrare.
Chiediamo a banche e gestori di fondi di risparmio di disinvestire da combustibili fossili e armi
Ecoló aderisce all’iniziativa dell’Associazione Ecolobby e invita tutti a scrivere ai propri gestori di fondi e istituti bancari
Con i nostri soldi non sostenete chi sta distruggendo il nostro futuro
La transizione ecologica del sistema economico è diventata ormai una frase di comune e diffuso utilizzo. Perché dalle parole si passi ai fatti ci vogliono scelte concrete e forti. Non si può pensare che si possa davvero arrivare alla transizione ecologica se gli Stati, con i sussidi, e gli istituti di credito e i gestori dei fondi, con i soldi dei risparmiatori, continuano a sostenere le industrie del comparto dei combustibili fossili (‘Oil & Gas’), ostacolando e rallentando lo spostamento del mercato dell’energia verso le fonti rinnovabili e meno inquinanti.
È per questo che Ecoló, insieme ad altre Associazioni attive nel campo del sociale e dell’ambiente, ha aderito all’iniziativa lanciata dall’Associazione Ecolobby e invita tutti ad inviare una lettera alla propria banca o al proprio gestore del risparmio per chiedere di disinvestire qualsiasi eventuale capitale impegnato nel settore dei combustibili fossili e anche delle armi.
È ora di chiedere che i tuoi soldi non siano utilizzati per sostenere attività che distruggono il presente e tolgono il futuro a tutti noi e ai nostri figli.
Puoi scaricare dal link qui sotto il testo della lettera che proponiamo di mandare al proprio istituto di credito o gestore di fondi per chiedere chiarezza sull’utilizzo dei tuoi soldi e disinvestimento dai combustibili fossili e dalle armi. Puoi ovviamente utilizzare il testo così oppure modificarlo come riterrai opportuno. L’importante è chiedere che i tuoi soldi siano utilizzati non per sostenere attività lesive per il pianeta ma per costruire un mondo migliore.
In Toscana, zona arancione, non si può uscire dal proprio comune per andare a fare una passeggiata ma i cacciatori saranno liberi di muoversi.
Le scuole superiori possono stare chiuse, teatri e cinema serrati fino a data indefinita, ristoranti in ginocchio per le restrizioni, ma, virus o non virus, la caccia per la Regione Toscana s’ha da fare e la Giunta Giani si inventa la deroga speciale per far andare tutti a caccia fuori dal proprio Comune. Deroga che in una regione come la Lombardia, arancione e governate dalla destra, non è prevista!
Con impegno degno di ben altra causa la Regione, con Ordinanza della Giunta Giani, si è infatti affrettata ad inventarsi una norma, in aperto contrasto con quanto dispone il DPCM sulle zone arancioni, che permette ai cacciatori di cacciare non solo nel proprio Comune di residenza, ma in tutto l’Ambito Territoriale di Caccia a cui sono iscritti. Ciò vuol dire mandare liberamente in giro per mezza Provincia o anche tutta una Provincia (di ATC in Toscana ce ne sono da 1 a 3 per Provincia) decine di migliaia di cacciatori. E il virus? Non importa. Ma non c’era in corso una pandemia? Sì, ma la caccia è sempre la caccia …. (e i voti dei cacciatori sono sempre i voti dei cacciatori). Ed i criteri di uguaglianza fra i cittadini? Roba di poca importanza. Vuoi fare una passeggiata su un sentiero fuori dal tuo Comune? Non si può. Vuoi fare una corsa o una biciclettata fuori dal tuo Comune? Non si può. Ma andare a sparare alla fauna selvatica, questo, da oggi, assolutamente sì. Sembra incredibile, ma è proprio così.
Passa il tempo, passano le Giunte, ma le politiche sulla caccia, evidentemente sono sempre le stesse. E non importa se si violano norme superiori, se si discriminano gli altri cittadini o quant’altro: ai 70mila cacciatori toscani, per qualche motivo incomprensibile a tutti gli altri cittadini che da mesi accettano con responsabilità tutte le limitazioni anti Covid, spetta qualche diritto in più (o meglio, privilegio).
Diventare parte attiva di un cambiamento che è già cominciato.
I termini più frequentemente associati alla parola “plastica” nelle ricerche Google sono espressioni quali ‘economia circolare’, ‘riuso’, ‘inquinamento’, ‘rifiuti’. Tutti segnali di un’attenzione crescente al problema e alle strategie necessarie a contrastarne la diffusione. Possiamo smettere di occuparci di plastica quindi? Non proprio, uno studio della Commissione europea ha mostrato come l’80% dei rifiuti marini sia composto da plastica, e come soltanto nel Mar Mediterraneo vengano sversate più di 570 tonnellate di plastica l’anno, con l’Italia che detiene il non invidiabile terzo posto al mondo fra i paesi più colpevoli.
Un sondaggio commissionato dal Consorzio Nazionale Imballaggi (CONAI) nel marzo 2019 proprio in Italia, del resto, riportava che sul campione intervistato, il 47% si dichiarava ‘fortemente preoccupato’ e un 39% ‘preoccupato’ per l’ambiente: la consapevolezza, pur con diversi gradienti c’è.
Parlare di plastica nel 2020 significa pertanto abbracciare una visione globale del problema, che vada a cogliere i nessi che legano l’inquinamento che questo materiale ha portato nel Pianeta a quella forma globale di produzione e di consumo che va sotto il nome di economia di mercato. Bisogna cioè uscire dall’idea della plastica come problema inserito in un compartimento stagno e pensarlo invece come parte integrante di un sistema molto più complesso, la cui soluzione può essere cercata solo all’interno di una visione d’insieme.
Fin dall’apparizione dei primi polimeri, a cavallo tra le due guerre, la plastica è diventata una componente essenziale e permanente della civiltà dei consumi del ventesimo e ventunesimo secolo. Quando ci si pone il problema di come risolvere il danno ambientale che ne deriva, occorre perciò partire da questo presupposto: la plastica è parte integrante di un processo produttivo che ha portato il genere umano a minare profondamente gli equilibri dell’ambiente in cui ha sempre vissuto, ingenerando dei processi a catena di cui stiamo vedendo solo le prime fasi.
Ci sono vari livelli di intervento di cui prendere coscienza per cercare di sovvertire questo status quo prima di arrivare a un punto di non ritorno
Il primo, più immediato, è quello di lavorare sugli effetti che la produzione eccessiva di plastica e dei suoi derivati ha nella nostra vita comune e nell’ambiente in cui viviamo. La crescente consapevolezza nell’opinione pubblica ha di fatto portato a una offerta qualitativamente diversa in tanti campi del consumo: pensiamo ai nascenti negozi ‘alla spina’ che, bypassando l’uso massiccio di imballaggi della grande distribuzione, permettono ai clienti di fare delle scelte ecosostenibili sia in termini di contenitori non più usa e getta, sia soprattutto in merito alla qualità dei prodotti venduti, spesso ottenuti sintetizzando sostanze naturali o a basso impatto ambientale. Il consumo, appunto, risulta essere la leva attualmente vincente sulla quale generare un moto di opinione, una consapevolezza che si possa tradurre in impegno e conseguentemente in un potere che il singolo può esercitare sul mercato.
Ma far leva sulla sensibilità e le scelte di chi acquista non è sufficiente, dare incentivi a chi investe in una economia sempre più circolare, disincentivare l’acquisto di prodotti monouso, e al tempo stesso investire in filiere legate al territorio, cercando il più possibile di avvicinarsi al celebre “chilometro zero”, dovrebbe rappresentare un traguardo condiviso, ambizioso eppure raggiungibile.
Esperienze virtuose insegnano che per uscire da un consumo prettamente lineare e passare dunque a un concetto di economia circolare esistono strategie efficaci: l’attenzione all’acquisto di prodotti alimentari a filiera corta va di pari passo a una lotta contro l’obsolescenza programmatica degli apparecchi elettrici ed elettronici. Si deve pretendere una life extension da parte delle aziende produttrici insieme a una maggiore diffusione del cosiddetto design modulare, dove determinati componenti siano intercambiabili fra diversi brand rendendoli più facilmente riparabili. Dal 2021 in Europa una legge imporrà ai produttori di rendere disponibili per un periodo dai 7 ai 10 anni i pezzi di ricambio degli elettrodomestici, aumentandone il ciclo vitale e nel contempo creando lavoro per il settore delle riparazioni. Una buona pratica che coniuga attenzione per l’ambiente e crea valore.
Un altro tema fortemente impattante è quello della moda: un settore che da solo è responsabile di circa il 9% della produzione globale di CO2 e oramai indirizzato su prodotti sempre più fast, da utilizzare una stagione e poi buttare via, composti da fibre sintetiche (che finiscono a ogni lavaggio nella rete idrica e poi nei mari) altamente inquinanti. Qui il contesto culturale da combattere è più difficile: se infatti sta diventando di moda scegliere prodotti bio per la propria alimentazione o per i materiali di uso quotidiano in casa, scegliere invece capi rigenerati o addirittura di seconda mano trova delle fortissime resistenze nelle scelte di acquisto.
Diverso, forse perché di percezione più immediata, è l’atteggiamento verso gli imballaggi: in questo caso il consumatore finale si vede forse parte più attiva nel processo di riciclo e presta sicuramente molto più attenzione, ed è un bene perché, attualmente, il 64% della plastica prodotta è destinata proprio al packaging: una vita brevissima per la funzione per la quale viene prodotta e un fine vita letteralmente sine die, smaltita negli inceneritori o addirittura abbandonata nell’ambiente, pertanto perennemente in circolo.
Infatti una delle ulteriori problematiche che emerge esaminando i dati è che il 90% della plastica finora prodotta non è stata riciclata, sia perché all’interno del ‘contenitore’ plastica trovano posto materie estremamente diverse tra di loro, con differenti leggi chimiche e strutturali, sia perché la produzione di plastica è talmente ipertrofica che anche gli impianti di riciclo e riuso presenti non potrebbero mai gestirla. Il surplus di scarto finisce inevitabilmente in discarica, o peggio direttamente nell’ambiente.
Tecnicamente, la plastica è eterna: come una novella araba fenice più si polverizza e si disintegra più riesce a entrare nei cicli vitali della vita sul pianeta, fino a diventare parte integrante di quelli alimentari, dal plancton ai pesci fino ovviamente alla nostra specie. Un problema oramai così esteso e pervasivo da non avere risparmiato nessuna area del pianeta: frammenti di polimeri si sono trovati non solo ad entrambi i poli, ma perfino in aree che si credevano incontaminate come la Fossa delle Marianne.
Negli ultimi anni sono state sviluppate numerose soluzioni alternative, utilizzando quelle che spesso vengono definite ‘bioplastiche’, composti derivati da materiali naturali che si degradano poi nell’ambiente.
Purtroppo, questo tipo di soluzioni non sono immuni da criticità, come accade anche per i cosiddetti bio-diesel la diffusione di alternative di origina vegetale comporta sì una minore estrazione di idrocarburi ma contemporaneamente è responsabile di deforestazione, con tutti gli effetti nefasti sull’ecosistema che ne conseguono. Allo stesso modo destinare terreni alla produzione di composti ‘naturali’ finalizzati alla produzione industriale di bioplastiche comporta lo stesso tipo di problemi.
Secondo le Nazioni Unite l’umanità ogni anno produce 5 trilioni di sacchetti di plastica mono-uso (5 milioni di milioni!). La domanda fondamentale da porsi è perché l’umanità produce questa insostenibile quantità di plastica? La plastica ha assurto il ruolo di regina delle materie prodotte per una delle leggi più semplici e spietate di questo sistema produttivo: perché è più economica.
E’ economica la sua produzione mentre è assolutamente non conveniente l’impatto che essa produce nell’ambiente e di cui le amministrazioni locali e nazionali debbono poi farsi carico per mitigarne gli effetti sul territorio. Soltanto l’Europa ha speso nel periodo 2014-2020 5,5 miliardi di euro per il miglioramento della gestione dei rifiuti. Il problema è che mentre le scelte di produzione e distribuzione delle buste di plastica sono regolate dalla convenienza del mercato i costi sociali e ambientali vengono invece caricati interamente sulla spalla delle comunità. Una logica chiaramente insostenibile.
La buona notizia è la consapevolezza che sta maturando nell’opinione pubblica.
Il successo delle giornate di raccolta della plastica promosse da varie associazioni sul territorio – tra cui Plastic Free Italia o Thrashed Abetone raccontata su questo sito il mese scorso – dimostrano che il bisogno di un cambio di rotta è sentito e percepito come necessario: da piccoli comuni a grandi realtà metropolitane molte persone si mobilitano per provare a ripulire una determinata porzione del territorio in cui vivono, e lo fanno felici di diventare parte attiva di un cambiamento.
E’ un cambio di paradigma non da poco, se invece di percepirci come consumatori, utilizzatori finali, soggetti passivi in balia di dinamiche che non comprendiamo né maneggiamo, diventiamo invece soggetti attivi, responsabilmente coinvolti in azioni corali e condivise, i cui effetti possiamo letteralmente toccare con mano.
Ruolo essenziale in questo cambio di prospettiva deve essere riconosciuto al sistema scolastico: soltanto con una capillare, strutturata campagna di informazione e sensibilizzazione si può insegnare alle ragazze e ai ragazzi a diventare cittadini consapevoli e informati, parte necessaria di quel cambiamento tanto auspicato quanto non più rimandabile.
Tutto questo ovviamente deve andare di pari passo con un cambio di rotta profondo e radicale a livello di istituzioni locali e nazionali, le sole che possano e debbano avere l’autorità per vigilare affinché le imprese, le corporations, i grandi gruppi industriali introducano dei processi davvero ecosostenibili e non delle fittizie operazioni di green washing, volte solo a inquinare anche il piano informativo e comunicativo. Penso ad esempio alla campagna pubblicitaria di Eni, che si accredita come attore attento all’ambiente quando invece è responsabile di scelte completamente opposte.
Una corretta informazione – anche istituzionale – è alla base di questo processo ‘dall’alto’: pretendere che le aziende certifichino con un water o un carbon footprint i propri prodotti come oramai siamo abituati a vedere per le etichette dell’efficienza energetica è compito di chi deve regolare i processi tra produttore e consumatore.
Ed è muovendosi contemporaneamente su questi due binari – l’azione concreta dei singoli per mitigare gli effetti della diffusione e le scelte politiche a livello locale e globale per lavorare invece sulle cause della sua sovrapproduzione – che bisogna muoversi, singolarmente e collettivamente.
Attraverso la lotta alla plastica e alla filosofia che la sostiene (la società dell’usa e getta, deresponsabilizzata e quasi atomizzata in tanti singoli individui slegati e spesso in conflitto fra di loro) si deve mettere in discussione un intero sistema di produzione e di consumo.
E c’è davvero un crescente e percepito bisogno nelle persone di vedere rappresentata questa istanza di cambiamento anche a livello istituzionale. Il successo anche mediatico di movimenti quali Fridays For Future, soprattutto nei giovani, è il marcatore di questo bisogno. Quella contro la plastica è una delle grandi battaglie che noi tutti siamo chiamati a sostenere, per sentirci ed essere parte attiva di un cambiamento che è già cominciato.
Proprio di questi tempi, in cui tanto si discute dell’apertura degli impianti sciistici, vi proponiamo qualche spunto di riflessione sulla sostenibilità degli sport invernali in Italia. a partire dal rapporto Nevediversa di Legambiente, che parla anche del progetto di impianto sull’Appennino Tosco-Emiliano alla Doganaccia.
In un pianeta in balia dei cambiamenti climatici e dal conto alla rovescia per la propria sopravvivenza, anche l’abitudine alla montagna innevata deve fermarsi a riflettere per capire come adeguarsi e ripensarsi.
È necessario iniziare da adesso a progettare un futuro per le nostre montagne. In pochi sanno infatti che il cambiamento climatico risulta più rapido nelle zone montuose rispetto a quelle pianeggianti: ogni grado centigrado in più registrato nelle terre emerse corrisponde a un +2° sulle Alpi.
Secondo i ricercatori dell’Institute for Snow and Avalanche Research (SLF) e del CRYOS Laboratory dell’École Polytechnique Fédérale se i paesi non riusciranno a ridurre le emissioni, alla fine del secolo la neve sotto i 1000 metri sarà una rarità, inoltre la stagione per gli sport invernali si accorcerà di 15-30 giorni. Le stazioni sciistiche al di sotto dei 1.500 metri sono inesorabilmente condannate alla chiusura, e nei prossimi anni è difficile immaginare un futuro addirittura per quelle poste al di sotto dei 1.800 metri.
La prima risposta che verrebbe in mente è che basti pescare la soluzione tecnologica più appropriata per cercare di continuare a ignorare il rapido cambiamento climatico, ad esempio puntando tutto sui cannoni sparaneve e tentare di resistere, ma non sarebbe una scelta lungimirante: con la tecnologia convenzionale da un metro cubo d’acqua si producono circa due metri cubi di neve artificiale, a patto che la temperatura sia tra i -2 e i -12 gradi e con un tasso di umidità intorno al 20%. In tal caso è garantito l’innevamento artificiale che ha un costo indicativo per km di pista fino a 45.000 euro a stagione.
Alcune innovazioni tecnologiche rendono possibile produrre neve tra 0 e i +15 gradi. Una tecnologia che potrebbe avere applicazioni anche al di fuori delle piste da sci – per mantenere la catena del freddo nel settore alimentare, per esempio. La differenza di questa tecnologia rispetto ai cannoni è sostanziale, perché la neve è prodotta sottovuoto all’interno di una macchina e l’energia termica per la trasformazione può essere ricavata da fonti rinnovabili. E’ bastato questo per parlare di neve “green” e di sostenibilità ambientale. Si tratta di un’interpretazione distorta perché, ovviamente, non c’è nessuna invenzione tecnologica che permetta di conservare la neve artificiale a temperature sopra lo zero, e con il loro innalzamento un innevamento programmato sarebbe giustificabile solo oltre i 1800-2000 metri.
Alla luce di questi scenari è necessario influenzare le scelte programmatiche pensate per le montagne nei prossimi anni e condizionare i nuovi progetti perché recepiscano quanto sta succedendo a livello climatico. Sull’arco alpino i progetti di nuovi impianti sciistici più impattanti sull’ambiente e anacronistici, secondo il Dossier di Legambiente, sono il Collegamento Cime Bianche (Progetto di ampliamento dell’area sciistica nell’Alpe Devero), il Progetto Ortler Ronda (carosello nell’area sciistica di Solda nel Parco dello Stelvio) e il Collegamento Padola (Sesto Pusteria).
Sul fronte appenninico in Toscana è invece previsto il progetto di collegare le stazioni sciistiche del Corno alle Scale con gli impianti della Doganaccia, prossimo alla realizzazione. Il finanziamento europeo di venti milioni è transitato dalla presidenza del Consiglio. A questi la Regione Emilia Romagna ha aggiunto l’intenzione di stanziare per quest’anno 11,7 milioni, mentre la Toscana si appresta a stanziarne 8. Il tutto per unire il Corno e la citata Doganaccia con una funivia che dal versante toscano condurrebbe direttamente al lago Scaffaiolo (costo 7 milioni). Su quello emiliano, una seggiovia partirebbe dall’attuale rifugio della Tavola del Cardinale raggiungendo il lago. Il protocollo è stato siglato nel 2016 dalle Regioni Emilia-Romagna e Toscana con la presidenza del Consiglio dei ministri.
Pochi mesi prima l’Arpa dell’Emilia Romagna aveva certificato che nei tre Comuni emiliani coinvolti le temperature medie si sono innalzate di oltre 1 grado, Legambiente Emilia-Romagna ha definito il progetto “accanimento terapeutico”, il rilancio del circo bianco appenninico certificato da questo progetto non è frutto di analisi economiche e ambientali, ma figlio di una visione cieca e a breve termine.
Da un punto di vista ambientale è prioritario contestualizzare le aree interessate dal progetto dell’impianto che ricadrebbe in gran parte nel SIC/ZPS (Sito di Importanza Comunitaria e Zona di Protezione Speciale) Monte Cimone, Libro Aperto, Lago di Pratignano: al suo interno è vietata la realizzazione di nuovi impianti di risalita a fune e di nuove piste da sci, ad eccezione di quelli previsti negli strumenti di pianificazione territoriale vigenti alla data di approvazione delle presenti misure per quanto concerne i SIC ed alla data del 7 novembre 2006 – DGR n. 1435/06 – per quanto riguarda le ZPS ed i SIC-ZPS, ed a condizione che sia conseguita la positiva valutazione di incidenza dei singoli progetti ovvero degli strumenti di pianificazione, generali e di settore, territoriale ed urbanistica di riferimento dell’intervento.
E allora quale futuro per questa parte dell’appennino una volta abbandonato il progetto di rilancio del turismo sciistico?
La locale sezione del Club Alpino Italiano ha evidenziato come l’82% delle presenze turistiche sull’Appennino riguardino il “turismo verde”, quello estivo. C’è un turismo di altro tipo – spiega anche Legambiente – quello verde, del trekking, frequentato da camminatori in ogni stagione, in inverno con le racchette da neve e da scialpinisti, e che chiede paesaggi curati e bellezza non deturpata da nuovi impianti di risalita, borghi preziosi, offerta di servizi turistici a misura d’uomo.
È prioritario valorizzare l’Appennino toscano con un tipo di turismo sostenibile connesso alla natura la cui rarità è sempre di più stimolo alla sua preziosa condivisione e integrità, mantenendo i percorsi storico-culturali e agroalimentari.
La campagna pubblicitaria lanciata a fine 2018 dalla Regione Piemonte: All you need is snow, “tutto ciò che serve è la neve” è simbolo di ciò che è stato sfruttato ma che da adesso deve cambiare, soprattutto sulle aree appenniniche a vocazione verde.
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Tutte le foto sono gentile concessione di Enrico Buonincontro
Da oggi l’Associazione Ecoló è un’associazione affiliata a Green Italia. Cosa significa questo? Significa che collaboreremo con Green Italia per dare rappresentanza alle istanze ecologiste e verdi sul territorio di Firenze. Significa che ci aggreghiamo ai tantissimi che in Italia si riconoscono nei valori e nell’azione dei Verdi Europei e vogliono costruire, anche nel nostro paese, i presupposti culturali necessari perché la politica metta al centro della propria azione l’urgenza della transizione ecologica. Che va realizzata da subito. Vorremmo ringraziare Annalisa Corrado, Carmine Maturo e tutto l’Ufficio di Presidenza di Green Italia per aver accettato, anche in fase di revisione statutaria, la nostra richiesta di affiliazione.
Qua sotto riportiamo il manifesto di Green Italia!
Manifesto Green Italia
approvato all’Assemblea generale del 14 settembre 2019
C’è bisogno che l’impegno per fermare l’emergenza climatica diventi una priorità reale nella cultura, nella politica, nell’economia e nella società, passando dal mondo dei desideri e dei proclami a quello delle strategie e delle scelte radicali. Questa è una priorità globale, poiché non solo il controllo delle fonti fossili continua ad essere la causa principale di conflitti striscianti o espliciti, ma le migrazioni sono ad oggi l’unica forma di adattamento ai cambiamenti climatici, le cui prime vittime sono i Paesi poveri e i poveri dei Paesi ricchi.
Mai come in questi mesi è risultato evidente quanto la crisi climatica sia divenuta una questione di sicurezza nazionale, con eventi metereologici estremi sempre più intensi e frequenti, che mettono alla prova un territorio già reso fragile da dissesto idrogeologico, cementificazione selvaggia, abusivismo e dalla mancanza di manutenzione di strutture e infrastrutture.
Il collasso climatico provoca già oggi danni economici rilevanti, dalla messa in crisi dell’agricoltura, all’erosione delle coste, dalla scomparsa delle api e la crisi della biodiversità, alle isole di calore nelle grandi città: mettere in campo ogni possibile azione di mitigazione e investire in resilienza e adattamento è l’unica via possibile: decisiva per la salute, la sicurezza, il benessere dell’intera umanità e delle generazioni future.
Un altro problema ambientale ormai fuori controllo nasce dall’uso indiscriminato e crescente di plastica (in particolare di quella mono-uso) e dal diffondersi sempre più devastante dell’inquinamento da microplastiche, che stanno mettendo in crisi alla radice il delicato e prezioso equilibrio di mari, fiumi e oceani, che, in assenza di straordinarie inversioni di rotta, si vedranno popolati da più plastica che materia vivente entro il 2050.
Fenomeni, questi, che, combinati ai rischi di una prossima crescita della popolazione mondiale oltre i 10 miliardi di persone, mettono davvero a repentaglio la persistenza, sul Pianeta Terra, delle condizioni che hanno permesso al genere umano di espandersi.
Di fronte a queste crisi serissime, l’Italia deve cambiare tanto la strada quanto il passo rispetto alla mancanza di coraggio e visione manifestata dagli ultimi governi (in quasi totale fossile continuità); occorre tagliare completamente i ponti con l’antistorico immobilismo, con i molteplici passi falsi di un passato anche recente che continua a vedere l’ecologia come uno dei vari temi da trattare (spesso l’ultimo) invece che la chiave strategica di interpretazione della realtà e di ispirazione dell’azione.
Non possiamo più permetterci piccoli passi o un governo che funzioni “a canne d’organo”: è assolutamente necessario che venga coordinata un’azione sinergica almeno tra Ministeri dell’ambiente, dello sviluppo economico, dei trasporti e delle infrastrutture, dell’agricoltura, dell’istruzione, dell’economia, della salute, attraverso un vero e proprio gruppo di lavoro incardinato nella Presidenza del consiglio.
Il primo atto dovrà essere la scrittura di un PNIEC (Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima) che superi l’insufficienza grave dei precedenti documenti strategici e, finalmente, costituisca tanto uno strumento operativo, quanto il primo atto con cui il nostro governo s’impegni con forza, in Europa e in tutte le sedi internazionali a partire dalla Conferenza sul Clima del prossimo dicembre in Cile, per l’adozione di obiettivi vincolanti che consentano almeno di raggiungere gli obiettivi fissati nel 2015 a Parigi.
Vogliamo che si crei lavoro e si esca da questa lunga e profonda crisi economica, finanziaria e sociale puntando sulla green economy e sull’economia circolare: un’economia basata sul rispetto dei territori, delle persone, siano lavoratori, lavoratrici o consumatori e su un uso efficiente, etico e ecologicamente sostenibile dell’ambiente, delle risorse naturali e dei beni comuni. Possiamo dire basta all’economia “grigia” e iniqua, che da una parte produce inquinamento, malattie, disastri climatici, dall’altra alimenta le diseguaglianze sociali e fa crescere la povertà.
Migliaia di imprese, anche in Italia, hanno già imboccato la strada della green economy e dell’economia circolare: sono i veri “campioni” della nostra economia, imprese visionarie ed eccellenti che, grazie alle loro scelte consolidate ispirate alla responsabilità sociale ed ambientale d’impresa, si affermano nella competizione globale e resistono meglio alla crisi economica, ma che hanno bisogno di una politica e di politiche più moderne e più degne.
Occorre favorire la nascita e lo sviluppo di reti per unire le imprese in grandi progetti “green”.
Vogliamo che l’Italia difenda la sua Natura, tra le più ricche di biodiversità dell’intero Pianeta, e che lo faccia restituendo dignità, risorse umane e economiche, alle strutture e agli Enti deputati a farlo (Riserve protette, Parchi Regionali e Nazionali etc.). C’è bisogno che le innumerevoli aree protette, tra cui i SIC e le ZPS, siano tutelate da misure normative efficaci e con fondi che ne possano garantire la gestione, affidata a figure competenti e non a portaborse politici. Questo nuovo approccio può comportare anche possibilità di lavoro per i numerosi giovani che, anche come volontariato, dedicano il loro tempo alla difesa della Natura
Possiamo pretendere un’Europa democratica, solidale, capace di politiche economiche e finanziarie, sociali e ambientali che rispondano all’interesse dei cittadini e non come oggi alla convenienza delle grandi banche o di ristretti cartelli di grandi imprese dall’energia fossile alla siderurgia all’automobile. Per costruire un’Europa così occorre trasmettere una più forte consapevolezza del nostro destino comune di europei, ottenere l’abbandono delle fallimentari politiche di austerità fine a se stessa seguite in questi anni e un forte rilancio dell’impegno per un’Europa federalista. L’Italia deve impegnarsi con più forza per un’Unione Europea luogo e strumento di diritti e di cittadinanza attiva, che cancelli ogni spazio per il razzismo e l’autoritarismo. Ci sentiamo italiani e ci sentiamo cittadini europei, crediamo che solo unendo le loro forze e le loro stesse “diversità” i popoli europei troveranno la via di un futuro desiderabile.
Vogliamo che l’Italia e l’Europa si facciano protagoniste di un impegno rinnovato e concreto per la pace e il disarmo. Nel mondo attuale continuano a proliferare guerre tra Stati e all’interno degli Stati, e ad imperversare un commercio più o meno legale di armamenti che vede i Paesi più ricchi Come padroni di un business orrendo giocato al di fuori di ogni regola di controllo democratico. L’Italia come tutti i Paesi europei deve ridurre le sue spese militari, cominciando dal taglio di investimenti insensati come quello sui bombardieri F35.
Dobbiamo impedire ogni tentativo di appropriazione privata e di mercificazione dei beni comuni sia materiali che immateriali: dall’acqua al suolo, dal sistema scolastico a quello sanitario, dalla difesa dei cittadini contro l’inquinamento all’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. In particolare la salute dei cittadini è un bene assoluto e indisponibile: un bene minacciato troppo spesso da chi inquina e avvelena impunemente i territori – dall’Eternit all’Ilva – un bene la cui tutela va sempre anteposta a interessi e convenienze privati ed al ricatto occupazionale.
Possiamo e dobbiamo pretendere un commercio internazionale giusto e solidale, fondato sui vincoli di promozione e tutela dei diritti umani definiti dal diritto internazionale; attento ai diritti delle popolazioni e dell’ambiente, alla sostenibilità, al principio di precauzione e di salvaguardia della salute umana ed animale. Serve insomma affermare criteri ad approcci di relazioni commerciali ben diversi, da quelli asimmetricamente negoziati oggi, ad esempio nel caso di accordi bilaterali come il Ttip, il Ceta, il Mercosur.
Vogliamo legalità, a cominciare dalla tutela dell’ambiente: occorre pretendere che il quadro normativo si completi e vigilare perché le norme siano applicate con rigore e completezza, così da sconfiggere le ecomafie e da impedire nuove Ilva e nuove “terre dei fuochi”.
Vogliamo favorire e accelerare la rivoluzione energetica già in atto: in Italia entro vent’anni la gran parte del fabbisogno energetico deve essere soddisfatta con le fonti rinnovabili, ed è altrettanto urgente investire nel miglioramento degli standard di efficienza energetica a cominciare dall’energia consumata per usi domestici. Per abbattere l’inquinamento dell’aria e per fermare i cambiamenti climatici bisogna uscire al più presto dall’era del petrolio e dei fossili, e per l’Italia – che importa gran parte del petrolio, del carbone, del gas che utilizza – questa è anche la via più rapida e virtuosa per superare la condizione attuale di dipendenza energetica. Possiamo e dobbiamo imparare a dire sì alle politiche industriali necessarie per portare a compimento la transizione, impegnandoci anche per un rapido sviluppo di un modello diffuso e partecipato di produzione energetica a partire dalle “comunità energetiche” e vigilando perché tali politiche vengano messe in atto sempre tutelando le fasce più fragili e svantaggiate della popolazione, a partire dalle lavoratrici e dai lavoratori dei settori che dovranno trasformarsi radicalmente, e orientate all’obiettivo di combattere le diseguaglianze e aggredire il fenomeno della povertà energetica.
Dobbiamo, con la stessa fermezza, dire no a tutto ciò che ricalchi i molteplici tentativi di garantire “via libera” generalizzati a scelte profondamente “anti-moderne”, che rappresentano una grave minaccia per l’ambiente e che, di fatto, rallenterebbero invece di accelerare la transizione verso un sistema energetico “fossil-free”: come trivellazioni petrolifere in mare e a terra, nuovi inceneritori, grandi opere inutili.
Vogliamo promuovere l’innovazione e l’industria che scommettono sull’ambiente, e invece smetterla di sovvenzionare “a perdere” attività decotte e inquinanti. Basta con politiche che per tutelare ristretti e ormai anacronistici poteri economici – dalle energie fossili, alla rendita immobiliare, a tutti i settori industriali più retrivi e anti-ecologici che sacrificano sistematicamente l’interesse generale.
Vogliamo un’Italia sempre più “digitale”. Garantire a tutti i cittadini l’accesso alle più avanzate tecnologie digitali costituisce un fattore decisivo di equità sociale, di trasparenza amministrativa e lotta alla corruzione, di rafforzamento di tutti i presìdi di cittadinanza attiva impegnati in difesa dei beni comuni. Occorre inoltre limitare e rendere più trasparente l’attuale strapotere delle multinazionali digitali.
Chiediamo un uso ecologico della finanza pubblica, la lotta alle speculazioni finanziarie e alle varie forme di elusione fiscale, in Italia e in Europa.
La giustizia fiscale è condizione indispensabile per canalizzare i fondi che servono alla giustizia climatica e sociale. Le tre giustizie sono inscindibili.
La transizione ecologica non può prescindere da una finanza al servizio della società. Il denaro può essere uno straordinario strumento di lotta alle disuguaglianze
che si stratificano a causa di modelli economici del tutto fallimentari Vogliamo un sistema bancario trasparente e non speculativo,
attivo al sostegno della riqualificazione dell’economia reale in senso ecologista. Vogliamo nuovi meccanismi di regolamentazione della finanza privata, contro i paradisi fiscali. Chiediamo che liquidità e credito siano considerati “beni comuni”.
Vogliamo azzerare il consumo di suolo, che distrugge la natura e alimenta la corruzione, e avviare un grande programma di rigenerazione urbana e riqualificazione del patrimonio edilizio esistente nel segno dell’efficienza energetica, della sicurezza antisismica, di una migliore qualità urbanistica e architettonica, nell’ottica generale del necessario adattamento ai cambiamenti climatici. Occorre rafforzare le politiche di sostegno alle aree protette ed alle reti naturali, presidio insostituibile di salvaguardia degli equilibri ecologici. Serve una politica nazionale per le città, fondata su obiettivi concreti e ravvicinati di miglioramento della qualità della vita e della qualità dei servizi per tutti gli italiani – oggi una larga maggioranza – che vivono nei centri urbani. Occorre mettere al centro dell’innovazione urbana e territoriale la riqualificazione ambientale, sociale e culturale delle periferie.
Vogliamo che l’Italia “faccia l’Italia”, cioè valorizzi le sue vocazioni, i suoi talenti, dalla bellezza del paesaggio alla ricchezza culturale delle città alla creatività imprenditoriale che ha reso famoso in ogni angolo del mondo il “made-in-Italy. All’Italia serve una nuova visione, una direzione di marcia che ci guidi e possa darci un ruolo da protagonisti nel mondo sempre più “largo” che sta prendendo forma. La bussola di questo necessario e diverso cammino è nelle nostre ricchezze più grandi, quelle scritte nell’articolo 9 della Costituzione: la cultura, l’educazione, la ricerca, il paesaggio. Finora le abbiamo tutte maltrattate, questa è la radice più profonda del declino italiano. Vogliamo che al patrimonio culturale sia riconosciuta piena valenza didattica, quale supporto prezioso di crescita civile per l’intera collettività.
Vogliamo che la scuola pubblica diventi il centro pulsante della conversione ecologica in Italia e torni a svolgere la funzione di emancipazione delle persone e di potente ascensore sociale, come avvenuto nel secolo scorso. Strettamente collegate alla valorizzazione delle vocazioni e dei talenti sono, infatti, le questioni centrali e strategiche della riuscita scolastica e della corrispondente lotta all’abbandono scolastico. Il fenomeno dell’analfabetismo di ritorno e dell’insoddisfacente raggiungimento di standard educativi adeguati si lega strettamente alla regressione culturale in atto sul fronte dell’accoglienza e della tolleranza sociale, con gravi effetti sulla partecipazione democratica nel Paese.
La scuola va posta al centro delle strategie politiche nazionali: è qui la vera opportunità per il Paese di coniugare innalzamento degli standard educativi e sensibilità operative e attive.
Vogliamo promuovere la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica in campo ambientale, in primo luogo per accompagnare il tessuto imprenditoriale alla riconversione produttiva in senso ecosostenibile, con una visione di medio-lungo periodo. Ciò può essere perseguito con un’azione mirata, e possibilmente coordinata, in primo luogo dei Ministeri dello sviluppo economico e dell’istruzione/università/ricerca, per gestire con efficacia i fondi esistenti per la ricerca finalizzata e individuando obiettivi e strumenti nella prossima elaborazione del Programma Nazionale della Ricerca. Va sostenuta anche in questo modo l’industria che ha scelto con convinzione e concretezza (no al “green washing”!) la via della sostenibilità ambientale. Basta con politiche che per tutelare ristretti e ormai anacronistici poteri economici – dalle energie fossili, alla rendita immobiliare, a tutti i settori industriali più retrivi e antiecologici – che sacrificano sistematicamente l’interesse generale.
Possiamo e dobbiamo chiudere definitivamente la porta agli Ogm, combattere l’abuso di pesticidi (a partire dal bando del glifosato) e contrastare le pratiche intensive di agricoltura e allevamento che impoveriscono e ammalano i territori e i consumatori, riducono la biodiversità e non tengono minimamente conto del benessere animale, producendo emissioni di C02. Dobbiamo, invece, rafforzare la nostra vocazione a un’agricoltura e un’agro-industria di qualità e generativa, legata alle tradizioni ed ai saperi del passato, ma illuminata da innovazione buona e ispirata all’economia circolare, che non solo produca buoni cibi ma salvaguardi il territorio.
Vogliamo che si investa molto di più per mettere in sicurezza il nostro territorio, reso fragilissimo da decenni di abusivismo edilizio impunito e di cementificazione senza regole e senza limiti, e molto di meno finanziare grandi opere inutili per la collettività, come il mega-tunnel in Val di Susa.
Vogliamo una forte accelerazione nella bonifica dei siti contaminati e spesso resi invivibili da decenni di inquinamento industriale impunito, cominciando dalla creazione di un fondo nazionale per le bonifiche finanziato da tutte le imprese – chimiche, petrolchimiche, siderurgiche – che operano in settori industriali dall’elevato impatto ambientale. Dobbiamo pretendere un cambio di passo nella gestione della drammatica questione della capillare diffusione di manufatti in amianto nel nostro Paese, considerandone anche la crescente pericolosità in relazione alla prolungata esposizione agli agenti atmosferici e/o all’invecchiamento e obsolescenza delle strutture.
Possiamo davvero rivoluzionare il modo di gestire i rifiuti per avvicinare concretamente il traguardo dei “rifiuti-zero”: dobbiamo chiarire in ogni modo il quadro normativo per rendere possibili le molte pratiche industriali già disponibili per il recupero e la trasformazione di scarti in materie prime seconde, investire in innovazione e ricerca mirate al risparmio di materie prime e il riutilizzo di ogni materiale di scarto, massimizzare la raccolta differenziata e il recupero di materia, perseguire come finora non è stato fatto la riduzione dei rifiuti alla fonte a cominciare dagli imballaggi, a partire dalla plastica mono-uso, condurre una vera guerra contro le ecomafie dei rifiuti, eliminare definitivamente ogni incentivo per l’incenerimento.
Vogliamo treni più moderni e più efficienti per i pendolari, per i lunghi viaggi, per le merci; più tram, autobus e metropolitane, servizi innovativi in “sharing”, incentivazione alla mobilità elettrica nel trasporto pubblico e privato, forte sostegno all’uso della bicicletta per una mobilità urbana sostenibile; molti meno miliardi buttati via per costruire autostrade inutili e favorire il trasporto su gomma sprecando energia e aumentando l’inquinamento. Per queste ragioni occorre superare la “Legge Obiettivo”, che privilegia le grandi opere e in particolare le grandi opere autostradali, e cancellare le norme del decreto “Sblocca-Italia” che in palese violazione delle normative europee consentono proroghe delle concessioni autostradali finalizzate alla realizzazione di nuove autostrade. Allo stesso modo va radicalmente rivisto il decreto “sblocca-cantieri” del Governo Lega-Cinquestelle, che incrementa opacità, regole allentate, grande opere inutili, trattativa privata nel settore degli investimenti e delle opere pubbliche. Per scegliere le opere davvero utili all’Italia e agli italiani serve una politica dei trasporti sostenibile che fissi obiettivi strategici – riduzione del peso oggi preponderante della mobilità su gomma, riduzione dell’inquinamento, stop al consumo di suolo, destinazione di almeno la metà della spesa per investimenti disponibile alla mobilità urbana – e da questi faccia derivare le decisioni sulle singole opere. Le politiche e i singoli interventi per una mobilità sostenibile devono essere sempre più accessibili alle fasce più fragili della popolazione e alle periferie urbane e territoriali.
Vogliamo promuovere gli stili di vita, di consumo e di alimentazione che mettano al centro la salute delle persone, i criteri della qualità ecologica, la lotta al collasso climatico e la responsabilità sociale, a partire da preziose esperienze di cittadinanza attiva diffusa come i “gruppi di acquisto solidale” e le forme di commercio equo e solidale. Ci sentiamo inoltre impegnati per accrescere nella società e nell’economia l’attenzione verso i temi del benessere e della dignità dei diritti degli animali. L’Italia è il solo Paese in Europa ad avere politiche sanitarie in grado di abbracciare salute umana ed animale: un patrimonio di cultura politica da valorizzare al massimo, soprattutto nel senso delle politiche di prevenzione, che devono essere finanziate con ben maggiore convinzione e coraggio, in una ottica di salute pubblica integrale.
Vogliamo una politica dell’immigrazione aperta, inclusiva, solidale, che dia priorità ad una autentica integrazione dei cittadini migranti che arrivano nel nostro Paese in fuga da guerre e violenze ovvero alla ricerca di una vita di dignità ed autodeterminazione. La loro presenza in Italia è stimolo alla costruzione di un Paese rinnovato, plurale, diverso, dunque, di una società più capace ad affrontare le complessità del tempo presente. Occorre pertanto ribaltare la narrazione securitaria in merito alla presenza delle persone migranti nel nostro Paese. Dobbiamo pretendere una profonda revisione del Trattato di Dublino, in relazione all’accoglienza dei migranti e dei richiedenti asilo, nell’ottica solidale già tracciata dal Parlamento Europeo, ma mai portata alla discussione in Consiglio, nella consapevolezza che le migrazioni sono per l’Europa una grande opportunità di innovazione sociale e culturale. Occorre assolutamente mettere fine alla stagione delle morti nel Mediterraneo, della repressione dei flussi migratori e del finanziamento di finte guardie costiere e dei centri di detenzione e tortura in Libia, luoghi di terrore e di morte di cui i Paesi Europei si sono resi complici. Dobbiamo esigere la creazione di canali di accesso regolato e sicuro per chi fugge da povertà endemica, guerre, disastri ambientali e climatici, distruzione, desertificazione, appropriazioni indebite delle terre, crisi climatiche (spesso “effetti collaterali” del modello di sviluppo occidentale) convenzioni sociali oppressive o violenza politica.
E’ urgente e indispensabile, quindi, istituire corridoi umanitari europei per evacuare immediatamente la Libia, che è paese in guerra civile e NON sicuro, come dimostrato da tutte le organizzazioni internazionali.
Occorre una riforma organica del modello legislativo in materia di immigrazione e ciò comporta l’abrogazione non solo della Legge Bossi-Fini (che ha modificato in chiave restrittiva e proibizionistica il Testo Unico) ma anche del decreto Minniti-Orlando e dei due decreti Salvini.
Le regole che abbiamo oggi, oltre ad essere disumane e ciniche, funzionano male e costano molto.
E’ necessario uscire dalla logica emergenziale con cui si continua ad affrontare il tema delle migrazioni. In questo senso l’Italia si dovrebbe prendere la responsabilità di normare il diritto alla mobilità a monte, con una disciplinata erogazione di visti per i molti e diversi motivi per cui le persone arrivano. Il 98,2 % delle richieste di visto dai paesi africani per motivi di studio viene respinto; eppure l’Italia è il paese che ha il più basso livello di internazionalizzazione delle proprie università.
Sarebbe necessaria una sanatoria per le persone che sono già in Italia e servirebbe un serio programma di integrazione, tale da permettere ai migranti che adesso girano per le strade delle nostre città di poter colmare il gap di 1.250.000 posti di lavoro che, in Italia, restano inevasi, visto che, a quanto consta, non interessano gli italiani.
Questi i criteri a cui ispirare le politiche pubbliche in questo campo: favorire la regolarizzazione di chi già è in territorio italiano, regolamentare l’ingresso dei cittadini extracomunitari non solo attraverso la previsione, nell’immediato, di corridoi umanitari, ma anche mediante accordi multilaterali con i Paesi di Origine di maggior flusso verso l’Italia; superare i numerosi profili di illegittimità delle norme vigenti (operazione di per se doverosa), anche per dare ossigeno alla nostra asfissia demografica che è un fardello per la nostra economia e per la sostenibilità nel tempo del nostro welfare; introdurre il visto d’ingresso per ricerca di lavoro (per superare l’attuale meccanismo impraticabile, inefficace e criminogeno dell’incontro a distanza tra domanda e offerta di lavoro); introdurre un meccanismo di regolarizzazione permanente per chi è già in Italia; abrogare il reato di clandestinità; istituire un’autorità indipendente per la tutela dei diritti umani e contro le discriminazioni; riconoscere il diritto di voto nelle elezioni amministrative agli stranieri regolarmente soggiornanti; riformare la legge sulla cittadinanza e introdurre lo ius soli: perché i nuovi italiani, bambini e giovani di origine straniera nati in Italia non devono più essere trattati come cittadini di serie b ma devono sentirsi protagonisti di una società multiculturale e plurale.
Vogliamo combattere senza tregua ogni forma di xenofobia, di razzismo, di criminalizzazione indiscriminata tanto dei fenomeni di immigrazione e dei migranti, quanto delle ong e delle associazioni che si occupano di salvare vite in mare, sostituendosi all’assordante assenza dei Governi europei. L’Italia, Paese con una storia lunga e dolorosa di emigrazione alle spalle, deve dare piena accoglienza a chi fugge dalle guerre e dalle persecuzioni, come previsto dall’articolo 10 della Costituziuone, e deve fare molto di più per i diritti e la dignità di milioni di cittadini e cittadine immigrati che vivono e lavorano da anni nel nostro Paese, ma sono tuttora esclusi da molte tutele sociali.
Vogliamo un Paese che riconosca pienamente il ruolo che le donne possono e devono giocare nella società, per fare dell’Italia un Paese moderno. Chiediamo una vera parità, per promuovere e sostenere un reale protagonismo delle donne in ogni sede pubblica, aziendale, politica, istituzionale.
Sono queste le condizione perché venga riconosciuta alle donne parità di accesso al lavoro e di trattamento retributivo. Si tratta di una priorità assoluta nel necessario cammino di riforma e aggiornamento del nostro welfare. Occorre dare molto più spazio e visibilità alla lotta contro tutte le forme di violenza sulle donne, dalla terribile emergenza dei femminicidi alle forme di pressione e discriminazione più striscianti.
Possiamo e dobbiamo pretendere uno stato sociale più equo e moderno: che dia davvero a tutti i cittadini pari opportunità e diritti, che perfezioni e definisca in maniera più efficace le forme tradizionali di tutela sociale come il diritto alla salute, attraverso un servizio sanitario pubblico universalista e forme recenti ormai irrinunciabili come il reddito di cittadinanza, che sostenga adeguatamente le persone e le famiglie – sempre più numerose – che si trovano sotto la soglia di povertà.
Vogliamo per tutti diritti essenziali e irrinunciabili: particolare importanza devono avere i diritti delle comunità LGBTQ+: l’omo-transfobia che discrimina ed emargina le persone omosessuali è un crimine; ogni coppia, eterosessuale o no, ha diritto ad essere riconosciuta dallo Stato come famiglia.
Vogliamo, ancora, uno stato sociale che metta al centro delle sue politiche i giovani, che li aiuti a costruire il loro futuro incoraggiandone l’ambizione, il merito, l’intraprendenza.
Vogliamo uno Stato, una pubblica amministrazione molto più amichevoli verso le persone, con regole e norme tanto severe nel difendere l’interesse pubblico e il principio di legalità quanto semplici e chiare nell’applicazione.
Vogliamo ecologia nella politica e nello Stato. Nessuna vera ripresa sociale, economica, civile sarà possibile in Italia senza “disinquinare” la politica e la pubblica amministrazione, senza ripulirle da corruzioni, abusi di potere, conflitti d’interesse, illegalità favorite o tollerate, rapporti opachi e spesso nascosti tra decisori pubblici e interessi economici. Questo cambiamento, condizione necessaria perché l’Italia si rimetta in cammino, passa obbligatoriamente per un forte rinnovamento, culturale prima ancora che generazionale, delle classi dirigenti.
Vogliamo regole che garantiscano di più e meglio la partecipazione dei cittadini e cittadine, in particolare delle comunità territoriali alle scelte concrete in ambito sociale e ambientale. Questo è un passaggio indispensabile per dare vita alla prospettiva del “green new deal” e anche per contrastare “sul campo” quelle forme di “Nimby” che ostacolano gli interventi e le opere necessari alla transizione verso un’economia sostenibile e circolare.