Tutti gli ecologisti italiani hanno un obiettivo comune: essere rappresentati nel prossimo parlamento da un drappello nutrito di ecologisti preparati e determinati a costringere il governo che verrà ad avviare una seria ed equa transizione ecologica.
Chiunque voglia provare a contribuire a raggiungere questo obiettivo deve tenere in considerazione quattro questioni fondamentali:
1) Un partito verde in Italia c’è, anzi ce ne sono due visto che in Sud Tirolo i Grüne – Verdi – Vërc godono di ottima salute. Europa Verde-Verdi rappresenta una tradizione politica ecologista importante, ma occorre riconoscere che non è mai riuscito a superare la soglia dell’irrilevanza politica nell’ultimo decennio. Malgrado la domanda di ecologia in politica sia enormemente cresciuta negli ultimi anni, spingendo a ottimi risultati i partiti verdi in buona parte d’Europa, i verdi italiani non sono riusciti a convincere gli elettori. Ma il dato più significativo è che i verdi sono assenti dalle istituzioni sul nostro territorio, come mostra la mappa in fondo all’articolo riferita alle amministrative 2017-21, negli ultimi cinque anni sono riusciti a presentarsi alle elezioni solo in pochi casi e raramente a superare la soglia del 3%.
2) Al cammino difficile della Federazione dei Verdi, corrisponde una sostanziale diaspora degli ecologisti. Buona parte degli ecologisti italiani o non ha mai fatto parte della Federazione dei Verdi o se n’è allontanata. Centinaia di liste ambientaliste ed ecologiste costellano il tessuto politico italiano, una miriade di nodi sconnessi che non hanno una rappresentanza a livello nazionale. L’associazione Ecolo’ è un esempio di questa diaspora essendo nata due anni fa da uno dei tanti commissariamenti che hanno caratterizzato la storia dei verdi dell’ultimo decennio. Gli ecologisti ci sono, ma sono dispersi. Purtroppo, malgrado le numerose dichiarazioni di intenti, la Federazione dei Verdi non ha mai voluto (o non è in grado) realmente avviare un processo di allargamento e inclusione in grado di unificarli.
3) Non solo gli ecologisti ci sono nelle liste civiche, nei comitati e nelle associazioni, ma la bella scoperta del 2020 è stata che ci sono anche deputati che, seppure non eletti in un partito verde, sono determinati a rappresentare la visione ecologista in parlamento. Facciamo Eco è stato uno strumento di rappresentanza per tanti di noi dentro il parlamento ed è stato un pungolo importante al governo Draghi in questi mesi. Cinque deputati che hanno seguito la linea di un appoggio critico all’esecutivo, critica che è culminata con l’annuncio della sfiducia al ministro Cingolani da parte di Rossella Muroni durante la discussione della legge di bilancio.
4) C’è un’altra bella novità: qualcosa si è messo in moto! Si moltiplicano in questi mesi le assemblee, i forum, gli incontri che hanno l’obiettivo di dare futuro politico alla visione ecologista anche in Italia. Alleanza per la Transizione Ecologica, fra i cui fondatori spicca il nome di Edo Ronchi, ha mosso i primi passi lo scorso Dicembre, Rossano Ercolini e Zero Waste Italia hanno lanciato un appello all’unità degli ecologisti, realtà nazionali come Italia in Comune, Green Italia e l’associazione Laudato Si’, insieme a tante realtà politiche territoriali, si sono mostrate interessate a un processo di rappresentanza politica della visione ecologista. Una parte degli eletti 5Stelle al Parlamento Europeo ha aderito al partito degli European Greens.
Questa la situazione. Come si mettono insieme tutti questi pezzi per raggiungere l’obiettivo? Aderendo all’organizzazione di Assemblea Ecologista a Firenze il 5 Febbraio abbiamo fatto una scommessa.
Crediamo che l’elemento che manca oggi sia un coordinamento orizzontale che favorisca la collaborazione di tutti gli ecologisti: verdi storici, amministratori locali, liste civiche, parlamentari, associazioni e ecologisti dispersi.
A questo processo sono invitati tutti coloro che si riconoscono nel manifesto dei Verdi Europei – che saranno presenti all’incontro del 5 febbraio con Vula Tsetsi, segretaria generale dei deputati al parlamento Europeo – e nell’obiettivo di costruire una lista unitaria degli ecologisti per le prossime elezioni parlamentari.
Siamo convinti che non dobbiamo avere la pretesa di federare gli ecologisti italiani in un soggetto unico. Vogliamo molto più modestamente coordinarli attorno a un obiettivo di medio termine fondamentale: avere rappresentanti credibili della nostra visione nel prossimo parlamento.
Chiamiamolo coordinamento ecologista, chiamiamola confederazione verde, non importa il nome, ma importa che ci proviamo. Abbiamo di fronte una sfida da cui dipende il futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti, non è più il tempo del tatticismo politico, è il tempo di rimboccarsi le maniche.
La mappa rappresenta dati ottenuti consultando corriere.it e repubblica.it disponibili qui Eventuali imprecisioni sono da imputare a noi.
di Guido Scoccianti
L’agricoltura si è trasformata con l’evoluzione della società umana e questa ha potuto evolversi – in buona parte – grazie alle innovazioni nelle attività agricole. E’ evidente quindi come oggi, di fronte ad un mondo per molti aspetti nuovo, sia dal punto di vista sociale che ambientale, non possiamo pensare che l’agricoltura possa continuare ad essere gestita, in modo efficace ed adatto alle nuove necessità, senza modifiche sostanziali.
L’agricoltura è, in primis, ‘cibo’ che giunge tutti i giorni sulle nostre tavole ed è quindi elemento fondamentale di sussistenza e di equità.
Inoltre è evidentemente ‘salute’, perché da cosa mangiamo possono derivare importanti effetti positivi o negativi sul nostro benessere, sulla nostra vita.
Ma l’agricoltura è anche ‘clima’. Le emissioni dovute all’agricoltura, in particolare quelle collegate agli allevamenti di bestiame e all’uso di fertilizzanti, costituiscono il 10% delle emissioni europee di gas climalteranti. A questa quota andrebbero però aggiunte le emissioni dovute alla produzione dei mangimi importati da paesi extraeuropei per i nostri allevamenti, nonché il consumo di suoli capaci di immagazzinare CO2 – come le torbiere – , così come i consumi di energia diretti ed indiretti. Il fattore di gran lunga più importante (circa il 70% del totale) è dato dagli allevamenti animali a causa del processo di fermentazione a livello dell’apparato digerente degli animali stessi e a livello dei liquami derivati, sia che siano essi stoccati ovvero depositati sui suoli agricoli. Inoltre l’agricoltura, oltre ad essere uno degli ambiti di maggior impatto sul clima, è allo stesso tempo uno dei settori più esposti ai danni causati dai cambiamenti climatici.
Inoltre l’agricoltura è ‘biodiversità’. A causa del suo ruolo nel degrado e consumo di suolo, nella semplificazione degli ecosistemi, nella dispersione di sostanze tossiche, nel consumo di acqua, ed a seguito della sua azione, nel complesso, di ‘competizione’ per le risorse rispetto alle forme di vita vegetali ed animali selvatiche, l’agricoltura costituisce il primo fattore quanto ad impatto sulla diversità biologica in Europa (European Environment Agency – State of nature in the EU, 2020). Dalla conservazione della biodiversità in realtà l’agricoltura avrebbe non da perdere ma molto da guadagnare. Si pensi in tal senso alla possibilità di attingere a quella ricchezza genetica, oggi sempre più affievolentesi, che ci può fornire nuove risorse capaci di affrontare in modo più efficace future mutate situazioni ambientali, malattie ed altre situazioni di difficoltà. Ed un altro chiaro esempio di quanto la biodiversità non è antagonista ma sinergica con l’agricoltura è dato dall’attuale crisi degli insetti impollinatori, che, se non controvertita, rischia di mettere in ginocchio gran parte della nostra produzione agricola.
E, certamente, l’agricoltura è ‘economia’. E questo non solo per quanto riguarda tutta la catena produttiva e distributiva del cibo e connesse attività, con conseguente enorme indotto sia a livello di cifre complessive che di posti di lavoro, ma anche per quanto riguarda la destinazione dei fondi pubblici. Basti pensare che la PAC (Politica Agricola Comune) rappresenta oltre un terzo dell’intero budget dell’Unione Europea (oltre 400 miliardi di euro).
Tenendo tutto questo in considerazione, quello di cui abbiamo oggi bisogno è un’agricoltura sempre più sostenibile dal punto di vista ambientale, di minor impatto sul clima, più amica della biodiversità, più equa dal punto di vista sociale.
La Commissione Europea nel 2020 ha varato una nuova Strategia europea sull’agricoltura per il 2030, la Farm to Fork, che contiene importanti indicazioni in questo senso con una serie di obiettivi volti ad assicurare una migliore qualità della nostra produzione agricola insieme ad una sua maggiore sostenibilità ambientale. Si va da un aumento ad almeno il 25% del territorio agricolo gestito secondo i canoni dell’agricoltura biologica, alla destinazione del 10% delle superfici al mantenimento di ‘infrastrutture verdi’ ed elementi caratteristici del paesaggio agricolo tradizionale (in correlazione con la Strategia europea per la Biodiversità), dalla riduzione del 50% dell’utilizzo dei pesticidi ad una diminuzione dell’uso degli antibiotici negli allevamenti, dallo sviluppo della bioeconomia circolare in ambito agricolo all’utilizzo di fonti rinnovabili, dalla difesa del suolo e la riduzione di almeno il 20% nell’uso dei fertilizzanti entro il 2030 ad una serie di azioni volte a modificare la dieta dei cittadini europei verso una diminuzione dell’uso della carne ed uno spostamento verso prodotti ecosostenibili.
Si tratta di obiettivi importanti, anche se su alcuni aspetti si sarebbe dovuto osare di più, come sulla riduzione dei pesticidi o anche sul ridimensionamento del settore zootecnico che, come si è detto, ha un enorme impatto sul clima e attualmente ha dimensioni senza dubbio non sostenibili, con il 68% della superficie agricola destinato alla produzione animale (dati Eurostat 2019).
Tuttavia, la nuova Politica Agricola Comune recentemente approvata dal Parlamento Europeo ha, in parte, già tradito le indicazioni, contenute nella Strategia mantenendo un quadro che sostanzialmente permette la conservazione della situazione in essere, annacquando gli obiettivi e continuando a sostenere l’agricoltura e la zootecnia agroindustriale piuttosto che spostare l’ago della bilancia verso la produzione ecosostenibile e di qualità (sia dal punto di vista alimentare che ambientale e climatico).
A questo punto la partita, fondamentale per il nostro futuro, è passata nelle mani degli Stati membri, che devono elaborare i Piani Strategici Nazionali e con essi gli Eco-schemi, che dovrebbero guidare le future politiche agricole e, cosa di non poca importanza, la destinazione dei fondi, evidentemente cruciale se si vuole spostare l’equilibrio da pratiche che danneggiano l’ambiente a pratiche agricole virtuose sia dal punto di vista ambientale che degli equilibri socioeconomici delle zone rurali.
Purtroppo, dai primi segnali, gli Stati membri, piuttosto che recuperare ciò che la PAC aveva dimenticato della Strategia, stanno confermando il mantenimento della ‘vecchia’ agricoltura. Un dossier curato da WWF, European Environment Bureau e BirdLife International, pubblicato nel novembre 2021, evidenzia come, dall’analisi delle bozze (ancora preliminari) dei Piani Strategici Nazionali di 21 Stati europei, solo il 19% degli eco-schemi proposti ha una probabilità di raggiungere gli obiettivi ambientali dichiarati, il 40% per poter essere efficaci necessiterebbe di modifiche sostanziali, il 41% risulta completamente disallineato rispetto agli obiettivi di tutela dell’ambiente e contrasto ai cambiamenti climatici.
In questa direzione sembra purtroppo muoversi anche l’Italia, a giudicare da quanto al momento proposto, e, se non verranno apportate sostanziali modifiche alla bozza di Piano attuale. Il risultato sarà un falso green-washing e non una vera innovazione della nostra agricoltura.
Una ampissima coalizione di Associazioni, lanciata inizialmente da Associazione Medici per l’Ambiente, AIAB, Associazione Agricoltura Biodinamica, FAI, Federbio, Legambiente, LIPU, Pronatura e WWF, ma oggi allargatasi a ben 89 soggetti associativi, ha lanciato un manifesto con proposte e indicazioni perché il Piano Strategico Nazionale italiano possa davvero andare nella direzione di un’agricoltura sostenibile sia da un punto di vista ambientale che sociale, attenta al clima, capace di sostenere l’agricoltura sociale e le comunità rurali. Il manifesto è scaricabile, insieme a molta altra documentazione utile, sul sito della coalizione (https://www.cambiamoagricoltura.it).
Proposte come queste saranno ascoltate?
Vorrà il Governo Italiano creare le basi per una agricoltura nuova, biodiversa e sociodiversa, oppure tutto continuerà immutato all’insegna del ‘business as usual’?
di Sebastiano Nerozzi e Giorgio Ricchiuti
Quando, ormai un po’ di anni fa, ci siamo seduti nei banchi del corso di politica economica, la prima distinzione che ci è stata insegnata è fra politiche di domanda e di offerta. Con le prime l’obiettivo è di guidare la domanda (appunto) di beni e servizi dei vari agenti economici (soprattutto i consumatori) mentre con le seconde, l’autorità di politica economica si concentra sulle imprese, agendo dal lato della produzione, l’offerta (appunto).
La tesi di questo breve scritto è che i movimenti ambientalisti si sono concentrati più sulle prime che sulle seconde. E questo ha avuto alcuni effetti perversi di cui occorre tener conto, per lo sviluppo e la proposizione delle politiche di transizione ecologica.
Prendiamo per esempio le produzioni del settore agro-alimentare. Le politiche, in questo caso, si sono più concentrate su come gli agenti percepiscono il consumo di beni (biologici o comunque a basso impatto) piuttosto che sull’imposizione di standard minimi per tutti i produttori (inclusi quelli non biologici). E spesso però queste strategie sono state suggerite con campagne di comunicazione che fanno leva soprattutto sul senso di responsabilità delle persone, sul desiderio di consumi più sani, e sulla loro sensibilità per le questioni ambientali.
Si tratta di un approccio corretto, ma, che a nostro avviso, presenta dei limiti e anche delle possibili controindicazioni. Esso, infatti, non è stato sufficiente a indurre una accettazione abbastanza ampia e consapevole di uno stile di vita più “green” ed ha, invece, prodotto tre risultati poco desiderabili.
Il primo è una polarizzazione fra chi crede ferventemente ad una visione di rispetto della natura e chi invece esprime un chiaro disinteresse o addirittura un fastidio per le continue campagne di informazione e di marketing alle quali è sottoposto. Questi ultimi, cogliendo l’ampiezza e la complessità dei problemi, reagiscono rivendicando la razionalità di un comportamento volto a massimizzare il proprio benessere qui ed ora, lasciando alla politica e alle generazioni future il compito di risolvere questioni che sfuggono al proprio controllo di cittadini e consumatori. Questi atteggiamenti molto diffusi rivelano, a nostro avviso, un più generale problema delle politiche di domanda volte al cambiamento di preferenze e abitudini: esse necessitano di tempo per esser assorbite e potrebbero, addirittura, creare un effetto di saturazione.
Un secondo elemento che ci preme mettere in evidenza è la diversa disponibilità a pagare fra i cittadini per beni “ambientalmente compatibili”, che porta le imprese a discriminare i consumatori sulla base del prezzo. Questa è una strategia commerciale ben chiara, che permette alle imprese di massimizzare i propri profitti facendo pagare ai consumatori per uno stessa tipologia di bene un prezzo diverso a seconda di particolari caratteristiche di quest’ultimo. Una mela viene pagata ad un prezzo più alto se prodotta a km zero e/o con tecniche di produzioni naturali. Il problema è che la mela “più lontana”, ambientalmente ritenuta “più sporca”, non sparisce dal mercato ma viene ugualmente venduta ad un prezzo più basso. Emerge quindi un trade-off fra reddito del consumatore e scelta green: solo un reddito relativamente alto permette di fare scelte di consumo integralmente green; i consumatori meno ricchi devono concentrare le loro scelte su pochi beni e quelli più fragili, sottoposti come tutti alle continue campagne pubblicitarie per l’acquisto di beni “eco-responsabili” che non possono permettersi, sviluppano spesso un senso di frustrazione che può spingerli ad abbracciare posizioni eco-scettiche.
Un terzo elemento riguarda i comportamenti delle imprese: per intercettare la parte più appetibile del mercato, esse possono mascherarsi da imprese green, lanciando alcuni prodotti green e investendo sul marketing senza modificare in modo sostanziale i loro comportamenti inquinanti nell’insieme della loro catena produttiva. E’ il cosiddetto greenwashing, il quale ha tanto più successo quanto più soddisfa il desiderio del consumatore moderatamente green di sentirsi a posto con la propria coscienza, anche senza cambiare in modo radicale le sue abitudini. Altra strategia per le imprese è quella di mascherare il proprio comportamento inquinante con “attività compensative”, come la piantumazione di alberi al costo di un piccolo sovrapprezzo, che migliorano la propria “brand reputation” senza cambiare alcunché di sostanziale nei processi produttivi. L’effetto complessivo è la non riduzione delle produzioni “sporche” che emerge anche dall’analisi dei dati: a fronte di tante campagne green da parte di governi e imprese, i processi di deterioramento dell’ambiente a livello globale continuano.
Ai limiti delle politiche dal lato della domanda occorre naturalmente rispondere puntando con più decisione su politiche dal lato dell’offerta, che inducano tutte le imprese a intraprendere una transizione profonda verso una produzione più attenta a ridurre le produzioni dannose per l’ambiente. Come? Sicuramente innalzando gli standard produttivi attraverso una regolamentazione più stringente e generalizzata, che porti a riduzioni dell’impatto ambientale di tutta la produzione, indipendentemente dalle scelte dei consumatori, senza creare discriminazioni sulla base della capacità di spesa e limitando seriamente il campo del greenwashing.
Questo approccio, certamente più ambizioso, naturalmente sposta una parte più consistente dei costi dai sonumatori alle imprese e genera resistenze ed obiezioni: l’argomentazione più diffusa è che politiche di questo tipo avrebbero l’effetto di innalzare i costi di produzione, riducendo la competitività delle imprese a livello internazionale.
Da questo punto di vista i governi hanno un ruolo importante da svolgere non solo come regolatori ma anche come produttori di beni e servizi per tutto il sistema economico, perseguendo principalmente tre obiettivi. Il primo è quello di realizzare politiche che riducano i costi delle imprese a fronte di un loro maggiore investimento per la conversione ecologica: primo fra tutti il costo dell’energia, i costi di transazione legati alla burocrazia e/o all’incertezza fiscale. Per esempio incentivando le produzioni che riducono le emissioni e il consumo di materie prime, spingendo le imprese a ridurre i costi per l’energia diventandone esse stesse produttrici (vedi lo sviluppo di comunità energetiche). Il secondo obiettivo è investire nella ricerca di base, agevolando dunque le imprese nello sviluppo di beni e processi a minore impatto ambientale. Terzo obiettivo è quello di imporre a livello internazionale il rispetto di standard ambientali adeguati, proprio per scongiurare la concorrenza dei paesi in cui la legislazione ambientale è più permissiva o i controlli sono meno rigidi.
C’è un ultimo aspetto che vogliamo sottolineare: le due tipologie di politiche, quelle dal lato della domanda e dal lato dell’offerta, non sono alternative ma complementari. Prendiamo la legge sul vuoto a rendere. Da una parte i consumatori devo essere spinti a recuperare i vuoti, dall’altra le imprese a sostituire quanto più possibile contenitori a perdere con quelli a rendere. In una visione ecologica del sistema economico, domanda e offerta non possono esser viste separatemene, ma devono coevolvere, riportando tutto il sistema economico a sincronizzarsi con i processi naturali nei quali è inserito e integrato.
Oggi si apre la campagna di tesseramento Ecoló 2022. Iscrivendovi entrerete a far parte della comunità di Ecoló, riceverete aggiornamenti e sarete coinvolti nelle attività.
Anche se non avete molto tempo da dedicare alla politica iscrivendovi sosterrete il nostro lavoro di associazione ecologista.
Seguendo questo link potete inserire i vostri dati e con un versamento di 10€ l’iscrizione sarà in breve completata (a meno che non vogliate fregiarvi del titolo di socio sostenitore e ne sborsiate 50!).
Dalle riunioni di inverno con finestre aperte e mascherina, alle manifestazioni di piazza e i pranzi di autofinanziamento…
malgrado la pandemia, il 2021 è stato un anno pieno di attività per Ecoló grazie all’impegno di tante e tanti e grazie al sostegno di tutti gli iscritti.
Abbiamo intervistato Ilaria Masieri, fiorentina, per sette anni cooperante in Palestina oggi responsabile per i progetti in Libano e Palestina della ONG Terre des Hommes Italia.
Ecoló: Ciao Ilaria, ci racconti come è nato il tuo rapporto con la Palestina?
Ilaria Masieri: Sono partita per la Palestina la prima volta nell’estate del 2009, ma la passione per la Palestina è nata molto prima. In parte deriva dalla mia famiglia, i miei genitori erano legati alla battaglia del popolo palestinese e in casa ne parlavamo molto; in parte è dovuta al fatto che all’epoca delle mie superiori era il momento degli accordi di Oslo, della prima Intifada, e quindi di Palestina si parlava molto ovunque. Mi sono appassionata alla questione palestinese e così, quando ho dovuto scegliere l’università, ho scelto di studiare arabo. Mi interessava soprattutto guardare alla storia del Mediterraneo da un’altra prospettiva. Una volta fatta quella scelta da lì la strada è stata tutta in discesa, con l’università, la scuola di cooperazione, e poi la partenza.
Ecoló: Per quanto tempo hai vissuto nei territori e in cosa consisteva il tuo lavoro?
IM: Sono stata lì sette anni, partita come stagista dopo aver fatto un corso a Firenze che prevedeva un periodo di stage. Sono rimasta perché mi hanno offerto un contratto. In quei sette anni ho attraversato un po’ tutti i ruoli che si possono ricoprire in una ONG. Da stagista sono diventata coordinatrice, poi capo-progetto e infine responsabile della delegazione.
Da oltre dieci anni lavoro quasi ininterrottamente con “Terre des Hommes Italia”, che fa parte del movimento internazionale “Terre des Hommes” e si occupa della protezione dei diritti dell’infanzia. In particolare, in Palestina i nostri progetti – essenzialmente finanziati da donatori istituzionali e in piccola parte da donazioni private – si occupano di diritto all’istruzione, alla salute, al gioco e allo sviluppo naturale del bambino. Lavoriamo sia in Cisgiordania che a Gaza, e negli ultimi anni soprattutto a Gerusalemme Est.
Ecoló: La questione palestinese è progressivamente scomparsa sui mezzi di comunicazione nel corso degli anni. Qual è secondo te il motivo?
IM: Sicuramente conta il fatto che in generale si tende a parlare delle crisi umanitarie solo nel momento di massima emergenza. Per questa ragione la questione palestinese, che ha una storia molto antica, fa meno notizia e ha meno presa sull’opinione pubblica in quanto percepita come irrisolvibile. Come se fosse ormai un problema intrinseco al contesto mediorientale, dove si intrecciano grandi interessi internazionali e che pur rimanendo una polveriera risulta una matassa di cui è difficile trovare il bandolo. Ultimamente si è dato spazio nei media alle decisioni del Governo statunitense di trasferire l’ambasciata a Gerusalemme e di non considerare più illegali le colonie israeliane in Cisgiordania, senza dare altrettanto spazio alle conseguenze di decisioni sulla popolazione palestinese, pertanto l’opinione pubblica può convenire che si tratti di decisioni legittime proprio perché è poco informata.
Infine esiste, e si vede anche in queste settimane nel dibattito pubblico italiano, una confusione sostanziale tra lo stato di Israele, la questione palestinese, l’occupazione della Palestina e il problema dell’antisemitismo. Per questo poi chiunque provi a prendere una posizione pubblica in favore della battaglia del popolo palestinese rischia di venir tacciato di antisemitismo. Questo sicuramente scoraggia.
Ecoló: Qual è oggi la situazione nella striscia di Gaza e in Cisgiordania?
IM: La situazione attuale, purtroppo in costante peggioramento, è quella di una crisi protratta. Non si parla neanche più di emergenza, perché l’emergenza prevede che ci sia un momento di altissimo bisogno alternato a momenti di stabilità. E qui i momenti di stabilità dal punto di vista economico e sociale non esistono più. La situazione è in costante peggioramento, con momenti di gravissima crisi, che sono quelli in cui essenzialmente noi arriviamo. È una condizione che sicuramente nell’ultimo biennio è peggiorata, soprattutto a causa della politica estera degli Stati Uniti, in particolare delle dichiarazioni e dei gesti che si sono susseguiti da quando Trump è diventato presidente. Di fatto queste hanno dato via libera al governo israeliano su Gerusalemme, sulle alture del Golan e recentemente anche sulla valle del Giordano e sulla Cisgiordania tutta. Per questa ragione si assiste a una colonizzazione feroce e in costante aumento, nonché alla sistematizzazione e ormai istituzionalizzazione della violazione dei diritti della popolazione palestinese. Ci sono comunque delle aree dove la crisi è particolarmente acuta, in questo periodo (ma ormai da molti anni) la Striscia di Gaza e Gerusalemme Est. Per ragioni molto diverse ma con conseguenze purtroppo simili.
Ecoló: Se un ultimo momento di speranza si era avuto con i discorsi di Obama al Cairo, il tentativo fatto all’epoca è sicuramente fallito. Tu come te lo spieghi?
IM: Io ne do una lettura molto semplice, ovvero che il governo israeliano non ha interesse a cercare la pace con i palestinesi. Il mantenimento dello status quo, che ormai nessuno sa neanche dire da dove provenga (di sicuro non da Oslo (accordi firmati nel 1993-95), non da Camp David (colloqui di pace svolti nel 2000), non dalle posizioni pubbliche prese dall’Unione Europea o dagli Stati Uniti, bensì da una situazione di stallo politico), favorisce essenzialmente gli interessi israeliani.
Se Israeliani e Palestinesi si dovessero seriamente sedere a un tavolo delle trattative, Israele in quanto potenza occupante e di fatto vincitrice (è un dato di fatto se lo si guarda in termini di occupazione di territorio, economia, potere, conformazione interna della società e dello stato) dovrebbe affrontare tre grandi nodi irrisolti che la questione palestinese si porta dietro fin da Oslo. Questi sono essenzialmente il problema di Gerusalemme, delle colonie, e del diritto al rientro dei rifugiati palestinesi che vivono fuori dalla Palestina. Su queste cose Israele non ha alcun tipo di interesse a fare concessioni.
I Palestinesi della diaspora non entrano in Israele, e non c’è modo neanche da parte della comunità internazionale di forzare la mano al diritto di uno stato di non concedere visti d’ingresso sul proprio territorio a cittadini stranieri. Sulla questione di Gerusalemme, di fatto Israele la considera come propria capitale fin dal 1980, e ha ricevuto su questo un forte endorsement da parte di Trump. Anche se il suo discorso non ha appieno rispecchiato ciò che Israele avrebbe voluto, è stato un messaggio forte e di fatto Gerusalemme sta venendo colonizzata quotidianamente. Basti pensare che ormai a Gerusalemme Est ci sono trecentomila abitanti palestinesi e duecentomila coloni israeliani. La questione delle colonie è altrettanto impossibile da affrontare, ma senza affrontarla è impossibile pensare alla creazione di uno stato palestinese. È anche vero che non esiste un fronte comune palestinese, e non esiste alcuna forma di alleanza che possa farsi portavoce delle istanze palestinesi – come è stato in passato l’Egitto di Nasser o in minima parte l’Iraq di Saddam Hussein. Il mondo arabo è fortemente diviso al suo interno, proprio su interessi che riguardano il Medioriente.
Ecoló: Le responsabilità del governo Israeliano e statunitense sono abbastanza chiare da quello che ci racconti. Ma pensi che ci siano anche responsabilità da parte di altri attori che possono essere disinteressati a una soluzione pacifica?
IM: Assolutamente sì, il disinteresse è direi la cifra generale, ed è sicuramente condiviso anche da tutto il mondo arabo. Vari attori sono interessati a mantenere l’equilibrio esistente nell’area. E poì c’è la grande responsabilità politica di Fath e Hamas, le divisioni interne alla leadership palestinese rendono quasi impossibile trovare delle istanze comuni.
Ecoló: Tu pensi ci sia qualcosa che possiamo fare, partendo dall’Europa e dall’Italia per arrivare a livello comunitario o individuale? C’è qualcosa che si può fare per il popolo palestinese, oltre a condividere un post sui social?
IM: Io credo che si possa fare moltissimo. Per chi se lo può permettere credo valga davvero la pena andare a vedere con i propri occhi come stanno le cose, perché è una situazione in cui le ingiustizie e le violazioni dei diritti delle persone sono così evidenti da risvegliare immediatamente le nostre coscienze.
Poi ci sono moltissimi gesti che ognuno può fare. Innanzitutto, è importante informarsi e parlarne, partecipare a iniziative, cercare di fare attenzione nel nostro piccolo alle scelte quotidiane, come l’acquisto di prodotti o i messaggi che condividiamo. Questo vale anche per quanto riguarda i nostri ruoli professionali, e penso agli insegnanti, alle scuole, a chi ha accesso alla sfera politica.
Credo che l’Italia possa e debba fare tantissimo in quanto paese e in quanto membro dell’Unione Europea. Si tratta soprattutto di fare rispettare il diritto internazionale, perché non bisogna inventare niente affinché i palestinesi e le palestinesi, e in particolar modo bambini e bambine, vedano riconosciuti i propri diritti essenziali – a partire dal diritto alla vita, all’espressione, allo studio. È tutto già a disposizione: ci sono le convenzioni, i trattati, le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU; ciò che serve è che il nostro governo, a partire dai governi locali, si prenda la responsabilità di fare rispettare queste convenzioni. Sono convinta che dal momento in cui si abdica al proprio dovere di far rispettare le leggi internazionali – anche se lontano da noi – ciò che stiamo dando via sono non solo i diritti altrui, ma anche i nostri.
Questo è valido anche da un punto di vista ambientale. Leggevo stamattina del gravissimo problema di smaltimento dei rifiuti all’interno della Striscia di Gaza. A Gaza non ci sono fognature, perché sono state bombardate, i materiali per ripararle non possono entrare in quanto soggetti a un possibile doppio uso (secondo le norme imposte da Israele potrebbero essere utilizzati per fabbricare armi), le tre discariche di Gaza sono piene e non è quindi possibile in nessun modo smaltirli o sistemarli in maniera razionale, e i rifiuti non possono uscire dalla Striscia di Gaza perché Israele non lo consente. Ecco, Gaza è sul Mar Mediterraneo e si parla di duemila tonnellate di rifiuti indifferenziati al giorno. Ci riguarda tutti, perché è l’altra sponda del Mediterraneo. Non è un viaggio lungo, né con la mente né fisicamente. Sono i nostri vicini di casa.
Ecoló: Grazie Ilaria per il tuo tempo e buon lavoro.
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La foto di copertina è gentile concessione di Alessio Romizzi.
Le recenti indagini della Dda di Firenze su sospette connivenze tra ‘ndrangheta, tessuto economico e politico hanno lambito le istituzioni regionali della Toscana (Giunta, Consiglio, Direzione Ambiente ed Energia), intaccando la fiducia dei cittadini verso queste, i propri rappresentanti e la trasparenza dei processi decisionali.
Per recuperare un rapporto di fiducia tra politica e cittadini e fare muro contro i tentativi di infiltrazione criminale, bisogna regolamentare le attività di lobby/rappresentanza di interessi particolari presso le istituzioni, di per sé componente legittima dei sistemi democratici, offrendo così ai cittadini e ad altri gruppi di interesse la possibilità di monitorare tali attività e l’operato dei decisori pubblici, al riparo da ogni ambiguità e opacità.
È vero che la Toscana è stata precursore nell’ambito della normativa sulla trasparenza dell’attività politica e amministrativa, in particolare con la Legge regionale 18 gennaio 2002, n. 5, ma l’esperienza applicativa ne ha rese evidenti le lacune.
Perciò rivolgiamo un appello al Presidente, ai vicepresidenti e ai Consiglieri regionali tutti, affinché il Consiglio modifichi la Legge regionale 18 gennaio 2002, n. 5 per regolare con maggiore trasparenza e puntualità i rapporti istituzionali con i gruppi di pressione/lobby, in particolare prevedendo l’obbligo per i Consiglieri regionali, gli Assessori regionali, i Dirigenti della macchina amministrativa e i membri del relativo staff di rendere pubblici i dettagli degli incontri con organizzazioni o liberi professionisti nell’esercizio delle proprie funzioni, e la tenuta di un registro pubblico degli accessi alle sedi istituzionali.
Solo una piena presa di coscienza e l’immediata capacità di reazione da parte di cittadini e istituzioni potranno mettere al riparo la nostra Toscana da infiltrazioni malavitose e pressioni illecite su economia e politica. Non possiamo rimandare neanche di un minuto.
Da un’idea di Volt Toscana, col sostegno di Ecolobby e di Ecolò.
Potete firmare l’appello a questo link.
La raccolta firme è aperta all’adesione di tutte le realtà politiche e associative e a tutti i privati cittadini che hanno a cuore la nostra Regione. Grazie
Spett.le REGIONE TOSCANA Direzione Ambiente ed Energia
Gentilissimi,
vi scriviamo a proposito del progetto che dovrete giudicare di parco eolico a Villore.
Non vogliamo entrare nello specifico della vicenda, che non ci compete.
Vi chiediamo però di valutare i seguenti aspetti di tipo generale, che vediamo troppo spesso non tenuti di conto.
Certi che terrete in debito conto di questi importanti aspetti,
Vi porgiamo
Cordiali Saluti
Associazione ECOLO’ Firenze
Associazione ECOLOBBY
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[2] Lo studio originale è disponibile qui: https://www.ourenergypolicy.org/wp-content/uploads/2014/06/turbines.pdf
[3] Un riassunto in italiano è disponibile qui: https://www.rinnovabili.it/energia/eolico/eolico-ciclo-di-vita-turbina-666/
[4] Ovviamente la tecnologica di produzione dell’eolico è in forte evoluzione ma recenti studi confermano questo dato: https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0959652620334302
Apprendiamo con profondo dolore che oggi pomeriggio è venuta a mancare Elena Pulcini, compagna di viaggio nella nostra esperienza nei Verdi Fiorentini.
Filosofa sociale all’Università di Firenze è sempre stata attenta ai temi delle trasformazioni dei legami sociali. Nel nostro comune cammino ha portato con sé competenza, rispetto e un forte imperativo nel cercare di coniugare i grandi temi e l’ecologia.
La ricordiamo con le sue parole:
“C’è un nesso tra responsabilità e sostenibilità che ci coinvolge anche sul piano individuale. Oggi non possiamo più soltanto delegare, come facciamo con il voto, ma dobbiamo farci carico in prima persona di quello che sta succedendo, se non vogliamo rischiare di perdere il futuro. Stiamo rischiando la perdita del mondo, come diceva Hannah Arendt e oggi ci si chiede come sia possibile che l’azione umana sia sfociata in questo paradosso incredibile, che è quello di aver creato le condizioni della propria distruzione.”
Il 9 Marzo alla Camera dei deputati è stata costituita una nuova componente del gruppo misto: “FacciamoEco”. Ad animarla Lorenzo Fioramonti (ex ministro dell’istruzione proveniente da M5S), Rossella Muroni (già presidente di Legambiente, uscita da LEU) e Alessandro Fusacchia (eletto con +Europa). L’intento dei tre parlamentari è quello di riportare in parlamento le istanze ecologiste mettendole al centro del dibattito e fungendo da tramite tra le istituzioni, la società civile e l’associazionismo ecologista.
Conosciamo bene le qualità e l’impegno ecologista di Rossella Muroni e Lorenzo Fioramonti e abbiamo conosciuto Alessandro Fusacchia per il suo impegno con “Priorità alla scuola”, quindi non possiamo che salutare con entusiasmo questa iniziativa. Da tempo sentivamo la necessità di una rappresentanza del mondo ecologista in parlamento, con la scomparsa dei Verdi dal parlamento italiano oltre 10 anni fa, nessuno ha rappresentato in modo centrale ed esclusivo i temi e le priorità ecologiche.
Per poter costituire ex novo una componente parlamentare alla Camera è necessario radunare un gruppo di almeno 10 onorevoli. In caso contrario è possibile costituirla anche con un minimo di tre deputati, se ci si appoggia a un simbolo presentato alle più recenti elezioni politiche nazionali. FacciamoEco, inizialmente costituita solo da tre deputati, ha scelto di cercare la collaborazione della Federazione dei Verdi, che si era presentata alle ultime politiche in una coalizione chiamata “Insieme”.
Molti di noi provengono dai Verdi italiani e quindi uno degli aspetti che ci interessa di questa iniziativa è proprio la relazione con la Federazione dei Verdi. FacciamoEco entrerà nella Federazione? Entrerà in “Europa Verde” (un contenitore partorito da un processo politico tutt’altro che trasparente e inclusivo dalla stessa Federazione)? C’è il rischio che venga fagocitato da un modo di fare politica dal quale ci siamo convintamente allontanati?
Oppure FacciamoEco raccoglierà associazioni e individui sul territorio per costituire una “federazione di associazioni”? Un movimento di persone ed esperienze che dialogherà alla pari con la Federazione dei Verdi per giungere a costituire un nuovo partito? E in che modo e attraverso quali strumenti sarà possibile farlo? I contatti che abbiamo avuto con i protagonisti di questo processo non hanno ancora sciolto tutti questi dubbi.
D’altro canto, Ecoló è un’associazione di persone in carne e ossa che operano sul territorio con l’ambizione di essere un tassello del futuro partito ecologista italiano, perciò l’occasione offerta da Muroni-Fioramonti-Fusacchia sembra troppo preziosa per non provare a dare il nostro contribuito allo sviluppo e alla riuscita dell’iniziativa. Se FacciamoEco riuscirà a innescare un processo inclusivo di aggregazione delle realtà ecologiste italiane, noi ci saremo.
Buon lavoro FacciamoEco!
Spauracchio elettorale della destra, proposta in modo spesso non convinto dalla sinistra l’imposta patrimoniale rimane un tabù per il sistema fiscale italiano. Per cercare di capire e andare oltre gli slogan abbiamo intervistato Letizia Ravagli, ricercatrice dell’IRPET e fra gli autori del recente studio “È giunto il momento di una patrimoniale?”
Ecoló: Ciao Letizia, grazie per la tua disponibilità. La patrimoniale è spesso usata come spauracchio dalla destra, talvolta proposta, con poca convinzione dalla sinistra, la “tassa sui ricchi” rimane per tanti un oggetto misterioso. Ci puoi per prima cosa spiegare cosa si intende veramente quando si parla di “imposta patrimoniale”?
Letizia Ravagli: Una patrimoniale è un prelievo imposto sul possesso di patrimonio. Può gravare su un singolo cespite, come una casa o un deposito bancario, o sull’intero patrimonio di un individuo o di una famiglia. Può essere proporzionale o progressiva rispetto al valore del patrimonio, di natura ricorrente o straordinaria.
Ecoló: Qual è la logica economica che giustifica questo prelievo?
LR: Dal punto di vista economico, l’imposizione di una patrimoniale è giustificabile da ragioni di equità. L’imposta sul patrimonio è, infatti, un modo per ridurre la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza tra gli individui. Nelle fasi di grave crisi economica, come quella che stiamo vivendo dopo l’insorgere della pandemia da Covid-19, una patrimoniale può essere giustificata come soluzione di emergenza per reperire risorse pubbliche.
Ecoló: Alcuni dicono che la patrimoniale è ingiusta perché i risparmi sono reddito non speso e il reddito è già stato tassato al momento in cui viene percepito. Sei d’accordo?
LR: Una patrimoniale genera una doppia imposizione, ma questo non significa che sia ingiusta. Nei paesi in cui la tassazione sul reddito personale non redistribuisce adeguatamente le risorse dai ricchi ai poveri e dove le imposte sui redditi da capitale sono basse una patrimoniale può rendere l’intero sistema fiscale più equo.
Ecoló: In Italia è mai esistita una qualche forma di prelievo sui patrimoni? Cosa succede negli altri paese del mondo?
LR: In Italia esistono molteplici imposte sul patrimonio, tra le quali l’IMU-l’imposta municipale sugli immobili- e l’imposta di bollo su depositi, conti correnti e attività finanziarie. Complessivamente, generano un gettito di circa 43,6 miliardi di euro, pari al 2,5% del PIL. Non esiste, invece, un’ imposta sulla ricchezza totale netta individuale. Non va molto diversamente negli altri paesi europei che impongono patrimoniali sui singoli cespiti ma solo in tre casi- Norvegia, Spagna e Svizzera- prevedono un’imposta sulla ricchezza totale netta individuale.
Ecoló: La proposta di patrimoniale è stata spesso avanzata per porre un freno alla crescente disuguaglianza. Ci puoi dare un’idea di come sia realmente cambiata la disuguaglianza negli ultimi anni in Italia e in Toscana in particolare?
LR: Quello che abbiamo più volte osservato nei nostri studi è che, in Italia, la crisi economica del 2008 ha avuto effetti diseguali sui redditi delle famiglie, colpendo le più povere in misura maggiore rispetto alle più ricche. La fase di leggera ripresa degli ultimi anni, prima della pandemia, all’opposto ha favorito più i ricchi che i poveri. La disuguaglianza è, quindi, cresciuta e questo anche in Toscana, una regione che da sempre si è contraddistinta per livelli di disuguaglianza contenuti.
Ecoló: Nello studio che avete da poco pubblicato valutate più di un’ipotesi di imposta patrimoniale in che modo differiscono l’una dall’altra? In come modo sono considerati gli immobili e in particolare la “prima casa”?
LR: Ne abbiamo valutate tre. Due sono state proposte in seguito alla crisi economica generata dalla pandemia. Quella di Guido Ortona, professore di politica economica dell’Università del Piemonte Orientale, prevede un aumento dell’attuale imposta di bollo sulle attività finanziarie ed una sua rimodulazione in una prima aliquota attorno allo 0,05% ed una seconda dell’1% per la parte più ricca della popolazione. La proposta dei parlamentari Orfini e Fratoianni, presentata con un emendamento, non approvato, alla legge di bilancio per il 2021, è un’imposta sulla ricchezza complessiva netta, inclusiva del valore della prima casa, che prevede un’aliquota minima dello 0,2% fino ad arrivare al 2% oltre i 50 milioni di euro. Prima della pandemia, l’economista Thomas Piketty aveva proposto un’imposta patrimoniale sulla ricchezza globale con un’aliquota dell’1% tra 1 milione e 5 milioni di euro e del 2% per livelli superiori.
Ecoló: Quali sarebbero gli effetti sulla diseguaglianza di queste tre alternative?
LR: Secondo le nostre simulazioni, condotte attraverso il modello di micro simulazione fiscale dell’Irpet Microreg, la proposta di Ortona genererebbe un gettito di circa 28 miliardi, a cui contribuirebbe meno della metà delle famiglie italiane, con una esazione media di 2.194 euro. La proposta di Orfini e Fratoianni ricadrebbe su una più bassa proporzione di famiglie, il 18%, che pagherebbero in media 4.221 euro, e raccoglierebbe 19 miliardi. L’imposta proposta da Piketty sarebbe molto più concentrata sui ricchi. Solo il 6,6% delle famiglie italiane la pagherebbe, con un’imposta media di 16.905 euro all’anno, con gettito attorno ai 29 miliardi.
Ecoló: Al di là dell’effetto sulla diseguaglianza un’imposta di questo tipo ha altri effetti, più o meno desiderabili? Pensiamo ad esempio all’incentivo al risparmio o al tema dell’uguaglianza delle opportunità?
LR: Tra gli effetti desiderabili c’è sicuramente sull’eguaglianza delle opportunità, soprattutto se si pensa alle patrimoniali imposte sulle successioni di ricchezza di generazione in generazione. D’altra parte, molti sono anche i “contro” all’introduzione di una patrimoniale, dalla distorsione sulle decisioni di risparmio degli individui, ai vincoli di liquidità dei contribuenti. Un’istituzione non coordinata, almeno a livello europeo, rischierebbe una fuga dei capitali all’estero e l’espatrio fiscale.
Ecoló: Dal vostro studio sembra che la vostra preferenza sia per un’imposta poco più che simbolica. Ma allora quali strumenti si possono usare per combattere la disuguaglianza se la patrimoniale non è efficace allo scopo?
LR: Una patrimoniale progressiva applicata alle grandi ricchezza sarebbe senz’altro giusta per ragioni di equità. Riteniamo però difficile che possa, da sola, risolvere il problema della disuguaglianza e, soprattutto, quello della tenuta dei conti pubblici. Per combattere la disuguaglianza, oltre alla patrimoniale, tutto il sistema di imposte e benefici dovrebbe essere riformato, dall’Irpef ai trasferimenti alle famiglie. Prima ancora di questo, servono maggiori tutele per i lavoratori svantaggiati e investimenti per una vera ripresa del ciclo economico.
Ecoló: Grazie per la tua disponibilità Letizia.