di Giovanni Graziani
Al centro dei temi della transizione ecologica vi è, senza dubbio, quello dell’energia. L’energia è alla base di tutte le attività industriali, sociali, di svago e di utilità, ed è uno dei fondamenti necessari per il mantenimento del benessere della società. Allo stesso tempo l’impatto ambientale legato alla sua produzione, distribuzione e utilizzo è tale da necessitare una drastica revisione del sistema energetico nel suo complesso.
In Italia, l’energia consumata proviene ancora per circa l’80% da fonti fossili e per circa il 20% da fonti rinnovabili. Di questa energia solo il 21% è energia elettrica per gli usi finali (dati 2020).
Quando si parla di energia è inoltre utile spiegare come il sistema sia strutturato nelle varie fasi:
Chiarito,come usiamo l’energia, dobbiamo sottolineare che nella discussione sulla decarbonizzazione del sistema energetico, vari studi e scenari puntano sostanzialmente l’attenzione su due aspetti (più uno):
Questo comporta quindi:
Questo passaggio presenta alcune criticità da superare e su cui migliorare, per lo più relative all’intermittenza e non programmabilità della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili e alla conseguente necessità di gestire le differenze tra produzione e consumo attraverso sistemi di accumulo e stoccaggio, insieme alla gestione intelligente dei carichi.
Tra le varie soluzioni che possono essere d’aiuto in questa sfida vi è senza dubbio l’idrogeno, che può giocare un ruolo rilevante e sul quale l’Unione Europea ha presentato obiettivi molto ambiziosi, pubblicando nella sua strategia per l’idrogeno un target di 40 GW di capacità di elettrolizzatori al 2030, la cui capacità mondiale attuale e di 0,3 GW.
L’Italia stessa ha destinato all’idrogeno, all’interno del PNRR, 3,2 miliardi di euro e vorrebbe raggiungere al 2030 circa 5 GW di capacità elettrolitica, in linea con i piani di Francia e Germania. Vediamo meglio quindi come questo potrebbe avvenire.
Nell’obiettivo di spingere la decarbonizzazione verso una maggior produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, si avrà una produzione di energia elettrica che, in alcuni momenti del giorno o dell’anno, sarà superiore alle necessità della domanda. È qui che può diventare interessante utilizzare tale energia elettrica in eccesso in un elettrolizzatore per la generazione di idrogeno, scomponendo le molecole di acqua, trasformandola quindi in energia chimica che sarà così immagazzinata. Produrre idrogeno può diventare una delle soluzioni più interessanti e praticabili per superare il problema dell’intermittenza delle fonti rinnovabili.
Avremmo così a disposizione un vettore energetico da poter impiegare in diverse applicazioni, grazie alla sua versatilità, in particolare in quei settori per i quali è più difficile immaginare l’elettrificazione: pensiamo al trasporto pesante su terra, all’aviazione, alle grandi navi e alla siderurgia. La ricerca in questi settori è in grande fermento con alcune applicazioni operative interessanti, come il treno a celle combustibile, alimentate a idrogeno, prodotto dalla Alstom, funzionante sulle linee tedesche e in arrivo anche in Italia entro il 2023 (https://www.alstom.com/it/press-releases-news/2020/11/alstom-fornira-i-primi-treni-idrogeno-italia). Nel settore aereo, Airbus sta progettando alcuni velivoli alimentati a idrogeno che potrebbero, stando alle loro dichiarazioni, entrare in commercio nel 2035.
Altrettanto importanti possono essere le applicazioni nella siderurgia, comparto industriale altamente inquinante ma strategico (come spesso le cronache di Taranto ci hanno ricordato). Qui l’idrogeno può essere utilizzato al posto del carbone nella reazione di riduzione degli ossidi ferrosi in ferro metallico.
Al di là delle possibili applicazioni, al giorno d’oggi il problema però è che quasi la totalità dell’idrogeno prodotto a livello mondiale proviene da fonti fossili (idrogeno grigio), attraverso un processo di reforming dal metano (reazione chimica ad alta temperatura tra vapore acqueo e metano che ha come prodotti idrogeno gassoso e ossidi di carbonio) o da carbone. Questo avviene per motivi essenzialmente economici: costa infatti circa 1-2 dollari al kg, rispetto ai 3-7 dollari al kg per l’idrogeno verde prodotto da rinnovabili. La sfida sarà quella di perfezionare la tecnologia e aumentare in modo consistente la grandezza degli elettrolizzatori che, insieme al calo dei costi dell’elettricità da rinnovabile, permetterà di produrre idrogeno verde a prezzi competitivi.
Per completezza di analisi, esiste anche una via intermedia, il cosiddetto idrogeno blu, strada fortemente spinta dall’industria legata ai fossili perché consentirebbe di produrre idrogeno dal metano in modo “relativamente pulito” separando la CO2 e confinandola all’interno dei giacimenti di gas esauriti.
In conclusione, possiamo dire che l’idrogeno può avere un ruolo importante nella transizione del sistema energetico verso la decarbonizzazione, solamente se connesso allo spostamento della produzione di energia elettrica verso le rinnovabili. Tale obiettivo deve essere primario e porterà maggiori benefici in senso assoluto, lasciando all’idrogeno un ruolo chiave nei settori hard-to-abate (“difficili da abbattere”), ma comunque di nicchia rispetto all’elettrificazione diretta.
Per descrivere il ruolo dell’idrogeno nella transizione energetica Giulio Mattioli, esperto in decarbonizzazione dei trasporti e ricercatore dell’Università di Dortmund, usa una metafora:
L’idrogeno è come lo champagne e andrebbe trattato come tale: un prodotto energivoro, adatto e utile solo a settori di nicchia.
Elemento chiave dei progetti finanziati dai fondi europei per la ‘ripresa’ dovrebbe essere la sostenibilità, sia ambientale che sociale. Questo, lo sappiamo bene, è quello che ci chiede l’Unione Europea.
Ma a questo come risponde la Regione Toscana?
Se sarà approvata la proposta di legge attualmente in discussione in Consiglio regionale (PdL 92/2022), per la modifica delle norme regionali sul governo del territorio e sulle valutazioni ambientali (LR 65/2014 e LR 10/2010), promossa da un gruppo di consiglieri del Partito Democratico, l’incredibile risposta sarà quella della cancellazione della necessità di procedere a valutazione ambientale strategica e valutazione di impatto ambientale per le varianti dei piani urbanistici che risultino connesse ai fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Si eliminano inoltre tutte le procedure di partecipazione pubblica.
Si tratta evidentemente di una deregolamentazione delle varianti urbanistiche che si muove nella direzione opposta rispetto alle indicazioni europee e che può arrecare gravi danni al nostro territorio, al nostro ambiente, al nostro paesaggio.
Per Ecoló si tratta di una proposta sconcertante e inaccettabile, in aperto contrasto con le normative nazionali (D.lgs 152/2006 e succ. mod e integr. – Codice dell’Ambiente) ed europee, oltre che regionali vigenti fino ad oggi, in tema di valutazione di impatto.
A livello nazionale già sono state introdotte norme che abbreviano e facilitano il percorso delle opere connesse al PNRR, che possono consentire la realizzazione delle opere entro i tempi necessari. Eliminare la valutazione degli impatti ambientali non vuol dire voler favorire l’applicazione del PNRR, ma vuol dire voler aprire le porte ad una realizzazione di un PNRR privo di strategia e sostenibilità, finalizzato non ad un corretto e virtuoso utilizzo dei fondi per migliorare la nostra società, ma ad un semplice reperimento e distribuzione di fondi scollegati da una visione lungimirante e tali quindi da poter andare a sostenere anche opere potenzialmente dannose per il territorio, l’ambiente tutti noi.
E’ questa la Toscana che vuole il Partito Democratico?
Ecolo’: per prima cosa grazie per la disponibilità a raccontarci cos’è Marea Ecologista! Ti conosciamo bene per la tua attività come verde prima e poi come una delle figure più influenti in Italia sui temi dell’economia circolare. Vuoi raccontarci qualcosa in più di te? Qual è il percorso di vita che ti ha portato a lanciare il progetto Marea Ecologista?
Rossano Ercolini: Non c’è dubbio che il movimento rifiuti zero nella sua articolazione che coinvolge comitati, associazioni, ma anche 330 comuni italiani e numerose imprese innovative rappresenti uno dei pochi esempi vincenti di scenari ambientalisti materializzati in “buone pratiche”. Ma questo risultato per estendersi e divenire irreversibile deve confrontarsi con le problematiche più complessive legate alla “crisi ecologica globale” sempre più drammatica. Per questo qualsiasi movimento che si occupa di tematiche ambientali non può non porsi il problema della “governance” e cioè di come rispondere in termini operativi e progettuali alla sfida della transizione- rivoluzione ecologica. In altri termini è ineludibile da parte della politica porre al centro quale “madre di tutte le questioni” la “questione ambientale”. E poiché le forze politiche tradizionali (ma anche i 5 stelle al di là di meritevoli eccezioni di singoli deputati/senatori) nei fatti dimostrano di “rimuovere” tale centralità occorre porre all’ordine del giorno l’obiettivo di una “costituente ecologista” che rappresenti una sorta di “sbocco al mare” per tutti quei percorsi, piccoli e grandi che dai territori invocano una svolta ecologica;
Siamo ad un BIVIO. Non esiste un PIANO B: o sapremo imboccare la via di una pacificazione con il Pianeta o il nostro modello di “civilizzazione” collasserà innescando una sorta di lunga “agonia” di un sistema che continua a trattare il Pianeta come una specie di supermercato da cui prelevare senza sosta. Non a caso le nuovissime generazioni hanno ben percepito la sfida radicale in atto attraverso il movimento di Greta e dei Fridays for Future. Ovviamente ci sono ancora margini importanti per fornire risposte positive, ma non abbiamo troppo tempo per farlo.
Ecolo’: In questi anni come si è mossa Zero Waste Italia? Quali sono i risultati di cui sei più orgoglioso realizzati a livello locale e nazionale? C’è qualcosa che, invece, tornando indietro faresti diversamente?
RE: Zero Waste è un movimento di successo. Basti pensare che alla sua nascita nel 2003 la raccolta differenziata arrivava al 17% su scala nazionale mentre oggi supera il 63%. Questi risultati che non sono certo tutti ascrivibili al nostro movimento non sarebbero stati nemmeno immaginabili senza il lavoro immane di disseminazione di trasferimento delle conoscenze dal basso svolto da Zero Waste che rappresenta davvero un esempio concreto di “scienza dei cittadini” e di “apprendimento dal basso”. La sconfitta dell’inceneritore di Case Passerini di Sesto Fiorentino rappresenta davvero una pietra miliare di questo percorso. Certo si può fare sempre meglio, ma se mi guardo indietro dico che non solo non abbiamo fatto errori significativi, ma addirittura in certi momenti abbiamo saputo “camminare sull’acqua” connettendo il NO ad inceneritori e discariche con i SI’ a concrete soluzioni di riduzione, riuso riciclo degli scarti;
Ecolo’: L’IPCC, il gruppo di scienziati che lavora per l’ONU sui cambiamenti climatici, ha dato più volte l’allarme lanciando di recente l’ultima chiamata per salvare l’ecosistema globale. Quali pensi che siano le azioni prioritarie che l’Europa e l’Italia dovrebbero compiere?
RE: Certamente la sfida più importante della transizione ecologica è quella di passare da un modello lineare dissipativo ed insostenibile (estrazione, produzione, distribuzione, consumo e smaltimento) ad un modello circolare basato sul rispetto dei cicli e dei tempi di rigenerazione naturali. Anche dal punto di vista geopolitico la sfida è passare da un modello basato sullo sfruttamento degli idrocarburi ad un modello tecnologico avanzatissimo basato sui “nuovi materiali rappresentati dalle terre rare” attualmente concentrate nelle mani della Cina (al 90% della commercializzazione) proprio nell’era che gli analisti chiamano della “raw material scarcity” e cioè della scarsità delle materie prime indotte dalla competizione globale dei colossi dell’economia mondiale (non solo USA ed Europa ma soprattutto Cina, India, Indonesia, Brasile ecc). La sfida anche in termini sociali può essere vinta considerando i “vecchi rifiuti” (pensiamo ai Rifiuti elettrici ed Elettronici) quali “miniere urbane” da cui estrarre preziose materie prime sempre più introvabili in natura;
Ecolo’: Il Governo Draghi ha per la prima volta un ministro per la Transizione Ecologica. Una svolta nella definizione di un ministero che, per essere efficace, non può chiaramente occuparsi solo di ambiente. Pensi che il Governo stia mantenendo le aspettative? C’è qualcosa che si poteva fare o fare meglio?
RE: Il Governo Draghi non si muove in questa direzione. In particolare il Ministro della Transizione Ecologica Cingolani non solo appare inadeguato ed anche estremisticamente aggressivo nei confronti dell’ecologismo ma risulta deliberatamente ostaggio delle lobby del petrolio e della parte più arretrata di Confindustria assumendone spesso le fraseologie e i simboli. Aver rispolverato la “necessità” del nucleare non solo è un’offesa a tutto il popolo italiano che con il referendum ha seppellito quello scenario ma appare “fuori tempo” visto che per esempio la Germania sta smantellando le proprie centrali. Quali priorità? Mettere a sistema l’economia circolare finanziandola non con gli spiccioli del PNRR, ma in modo massiccio con la prospettiva strategica di una riconversione della nostra industria manifatturiera che ha bisogno come il pane di materie prime da estrarre dagli scarti e da sottrarre alle speculazioni in atto sul mercato energetico e delle materie prime;
Ecolo’: Parliamo di Marea Ecologista. Per noi ecologismo non significa solo de-carbonizzare il sistema produttivo o ridurre i rifiuti, crediamo che ecologia voglia dire anche valorizzazione delle diversità e quindi protezione dei più deboli. Sei d’accordo?
RE: Dal punto di vista strategico (vedi il mio ultimo libro IL BIVIO edito da Baldini e Castoldi) la contraddizione principale in atto è rappresentata dai modelli di civilizzazione umani basati su prelievi senza limiti e i cicli naturali dai quali è dato prelevare rispettandone però i tempi di rigenerazione. Quindi si potrebbe dire che la contraddizione principale di questo passaggio storico è tra UOMO E NATURA. Questo non significa che all’interno di questa contraddizione principale non ne risiedano altre a partire da quella “sociale”. Temi come il riscaldamento globale o della desertificazione dei suoli non solo muovono dalla contraddizione principale di cui prima, ma innescano anche migrazioni bibliche legate all’impoverimento di masse crescenti di popolazione. Con la pandemia (che l’ONU dichiara essere l’effetto dei livelli di coartazione della biodiversità) questo processo si è addirittura accelerato. Difesa dell’ambiente e lotta per la giustizia sociale sono inscindibili;
Ecolo’: Il 27 novembre vi siete trovati a Firenze, presto vi incontrerete a Milano, cosa ci dobbiamo aspettare da Marea Ecologista?
RE: Dopo il riuscito incontro del 27 novembre appare sempre più urgente costruire uno spazio aperto in cui far convergere tutte le energie ecologiste senza settarismo ma con instancabile spirito inclusivo. Non si tratta di affermare in modo surrettizio “paternità” e merito, ma semmai fornire “dispositivi” dove questo processo possa avvenire soprattutto dal basso. Ecco il senso della proposta avanzata da Zero waste di una Costituente Ecologista dove ogni soggetto piccolo o grande possa avere piena “cittadinanza” e valorizzazione. Sono sicuro che anche la imminente assemblea di Facciamo Eco (www.assembleaecologista.org n.d.r.) andrà in questa direzione. Ne attendiamo i risultati per sviluppare insieme a tutti i partecipanti gli sviluppi.
Ecolo’: Anche noi siamo convinti che in Italia manchi una rappresentanza adeguata della visione ecologista nel panorama politico. Il grande tema che vediamo per i prossimi mesi è come sia possibile mettere attorno a un tavolo tutto l’ecologismo politico per costruire una lista in grado di rappresentare gli ecologisti in parlamento. Avete in mente una road map? Chi sono i soggetti con cui immaginate di avviare un confronto?
RE: In questo senso la Road Map immaginata attraverso la proposta di Costituente Ecologista come già detto si intreccia con quanto avverrà anche dal lavoro di tanti altri soggetti locali e nazionali. Guai a chiudere! Il “gioco comunicativo” deve prevedere orizzonti apertissimi ed inclusivi. Ovviamente basati su progetti e proposte programmatiche condivise. Zero Waste chiede a tutti i soggetti in gioco di assumere in modo ufficiale la strategia rifiuti zero. Rifiuti Zero, dal canto suo si impegna a portare i propri contributi anche su altri aspetti della “questione ambientale” che come sappiamo non può essere ridotta a somma seriale di “questioni settoriali” (approccio sistemico);
Ecolo’: Conosci, come noi, aspetti non edificanti della storia dell’ecologismo politico in Italia. Noi abbiamo spesso avuto l’impressione che all’interno della Federazione dei Verdi mancasse una massa critica di persone tale da rendere possibile una dialettica interna e un ricambio di dirigenza. Vedi anche tu questo problema? Pensi che sia una caratteristica inevitabile dei piccoli partiti? Hai in mente dei meccanismi in grado di disinnescare questi circoli viziosi?
RE: I Verdi italiani, soprattutto nella seconda parte degli anni ’90 si sono trasformati da realtà in “movimento” con buone capacità di rigenerazione in “ceto cristallizzato” e giocato in funzione delle mire di visibilità e di carriera di singole personalità. Ciò ha portato per esempio gli assessori regionali verdi (vedi la Toscana) a sostenere la fallimentare politica della “termovalorizzazione” poi sconfitta dal movimento Rifiuti Zero. Per evitare questa degenerazione occorre curare i sistemi di trasparenza e di selezione soprattutto dei gruppi dirigenti e delle candidature. Occorre innanzitutto legare questi alle capacità dimostrate, agli obiettivi e alle vittorie raggiunte, ai livelli di effettiva promozione di cittadinanza attiva innescati. Non è tollerabile che l’ecologismo da necessità politica divenga una sorta di autobus su cui far salire improvvisazione, carrierismo, sete di potere. Anche la formazione diviene parte prioritaria di questo approccio teso ad “estrarre” il meglio dai soggetti sociali disponibili ed interessati alla Rivoluzione Ecologica;
Ecolo’: Noi consideriamo che un partito ecologista italiano debba nascere necessariamente all’interno della cornice del Partito Verde Europeo. Tu sei in contatto con i Verdi Europei? Come vedono la vostra iniziativa?
RE: In realtà i miei contatti con il partito Verde europeo si riducono a momenti sporadici di confronto e sono mediati per esempio dalla collaborazione con la parlamentare Eleonora Evi con la quale Zero Waste si è spesso positivamente rapportata sui temi del PNRR e del principio “Non arrecare pericoli significativi all’Economia Circolare”. Sono stato poi invitato due volte a far parte di forum dai livelli europei del Partito Verde che mi sembra stia seguendo con attenzione ciò che sta avvenendo in Italia probabilmente per evitare gli errori del passato che vedono in Italia percentuali molto basse per il soggetto politico ecologista a differenza di ciò che mediamente avviene nell’Europa continentale.
Per quanto mi riguarda ritengo che anche proprio dal punto di vista di Zero Waste il confronto positivo con una forza che è al governo per esempio in Germania sia un fatto stimolante che debba spingere tutti a muoversi nel solco di una collaborazione che connetta i livelli locali con quelli globali europei e comunque fuori da schemi autoreferenziali e localistici.
Ecolo’: Nel ringraziarti per la tua attenzione cogliamo l’occasione per invitarti il 5 Febbraio a Firenze per la nostra Assemblea Ecologista, un tentativo molto simile al vostro che parla al mondo delle associazioni e delle liste civiche ma con cui forse vi farà piacere confrontarvi alla ricerca di una sintesi.
di Irene Fattacciu
Da anni la narrazione delle migrazioni verso la Fortezza Europa si muove tra la retorica della sicurezza e dell’invasione da una parte, e quella dell’emergenza umanitaria dall’altra. Il cambiamento climatico è la crisi che caratterizza questa fase storica, e se oggi solo lo 0,8% delle terre emerse presenta temperature così elevate da essere considerato inabitabile, nel 2070 questa percentuale potrebbe salire fino al 19%. I fenomeni migratori per cause ambientali sono già una realtà e si stima che entro il 2050 coinvolgeranno centinaia di milioni di persone. In capo a trent’anni, insomma, una persona su quarantacinque nel mondo potrebbe essere un “migrante ambientale”.
Ma chi sono i migranti ambientali? L’International Organisation for Migration li descrive come coloro che “a causa di improvvisi o graduali cambiamenti nell’ambiente che influenzano negativamente le loro condizioni di vita, sono obbligati a lasciare le proprie case, o scelgono di farlo, temporaneamente o permanentemente, e che si muovono all’interno del proprio paese o oltrepassando i confini nazionali”. La definizione ruota intorno a due elementi chiave, la volontarietà e la geografia della migrazione. Le situazioni dove la decisione o la necessità di spostarsi sono riconducibili a cause ambientali sono varie, pertanto si distingue fra migrazioni temporanee causate da disastri naturali o provocati dall’uomo (environmental emergency migrants), e definitive a seguito del deterioramento delle condizioni ambientali (environmental forced migrants). Infine, una terza causa è data dalla scelta di migrare in risposta a problemi ambientali che non permettono più di sostentarsi attraverso le risorse disponibili (environmentally-driven migrants).
Un altro termine coniato già negli anni Settanta e che spesso viene utilizzato dai media e nei dibattiti è “rifugiato ambientale”, dove la scelta terminologica ha il preciso intento di richiamare una serie di diritti che hanno a che fare con quello di asilo. Dal punto di vista del diritto internazionale non ne esiste una definizione consolidata, e la Convezione di Ginevra sui rifugiati non include, tra le situazioni che determinano lo status di rifugiato, riferimenti riconducibili a condizioni ambientali. Neanche le migrazioni ambientali forzate trovano ancora un adeguato riconoscimento giuridico nella legge internazionale e nei singoli ordinamenti statuali, anche a causa delle titubanze dei Governi. Il riconoscimento di un rapporto univoco tra trasformazioni ambientali, catastrofi naturali e rifugiati ambientali obbligherebbe infatti ad accoglierli all’interno dei territori nazionali. Nonostante ciò, le cose stanno iniziando a cambiare. La Commissione europea ha iniziato affrontando il tema nel Green Deal, e anche l’Italia nei decreti sicurezza approvati il 18 dicembre 2020 ha appena ridisegnato il permesso di soggiorno per calamità naturale: il diritto alla protezione umanitaria verrà concesso non solo per calamità “eccezionale e contingente”, bensì anche per una grave situazione dal punto di vista ambientale nel paese d’origine.
Aldilà del riconoscimento giuridico, è importante però tentare di guardare alle migrazioni ambientali come fenomeno complesso, all’origine delle quali c’è una molteplicità di cause. Il cambiamento climatico ha effetti diretti e indiretti, ma l’inquinamento, la degradazione delle terre, il sovrasfruttamento delle risorse naturali, la deforestazione e la perdita degli habitat interagiscono con molti altri aspetti sociali ed economici. Si tratta insomma di un “moltiplicatore di minacce” che amplifica le vulnerabilità preesistenti – individui, comunità o paesi già fragili dal punto di vista dello sviluppo economico, sociale e politico-istituzionale. In questa situazione non è sempre possibile distinguere gli effetti delle crisi ambientali da quelli delle crisi economiche, sociali o dai conflitti che costringono milioni di persone ad abbandonare le proprie case.
L’interazione tra cambiamento climatico e conflitti sociali è evidente, per esempio, nella regione del Sahel, da cui arriva quasi il 38% dei migranti giunti via mare in Italia negli ultimi quattro anni. L’area sta sperimentando un significativo aumento della popolazione, ma a causa della desertificazione la produttività del suolo è crollata e il sistema agricolo è entrato in crisi. Anche i flussi migratori provenienti da Bangladesh, Costa d’Avorio, Guinea e Pakistan – tra i paesi più colpiti dalle conseguenze del cambiamento climatico – sono notevolmente aumentati negli ultimi anni e rappresentano un ulteriore 30% dei migranti che giungono in Italia.
Questo è un classico esempio che viene citato per farci vedere che le migrazioni ambientali sono qualcosa che ci riguarda. Ed è vero, ci riguardano, ma non soltanto perché determinano e interagiscono con le rotte migratorie internazionali. Concentrati sul nostro ombelico e impegnati a guardare da lontano questa gigantesca marea che cresce, perdiamo di vista la fisionomia di tali movimenti. Ma si sa, il diavolo è nei dettagli, e così ci sfugge il fatto che nel futuro parlare di migrazioni ambientali non sarà più una questione di disperati e fragili che si mettono in cammino o sui barconi tentando di arrivare a casa nostra. Degli oltre ottantadue milioni di persone che nel mondo sono state costrette a fuggire e lasciare le proprie case nel 2021, 40,5 milioni sono sfollati interni, ossia si sono mossi all’interno dei confini nazionali. Di questi, 9 milioni sono fuggiti da conflitti e violenze e ben 30.7 milioni sono stati costretti a scappare per via dei disastri naturali.
Le migrazioni interne partono da aree con minore disponibilità idrica e produttività delle colture, oppure da zone che saranno colpite dall’innalzamento del livello del mare e altre calamità, per finire verso aree urbane e peri-urbane. A livello globale le aree più colpite nei prossimi decenni saranno l’Africa subsahariana, l’Asia meridionale e l’America Latina, ma in Europa sarà la fascia mediterranea. In Europa è infatti a rischio desertificazione l’8% del territorio, ma la percentuale sale fino al 20% per l’Italia. Il cambiamento climatico insomma è già in atto, e da una parte i suoi effetti colpiscono maggiormente le comunità più vulnerabili, dall’altra peggiorano situazioni di povertà e ingiustizia sociale. Una situazione ancor più grave quando queste persone si trovano a vivere in paesi meno sviluppati, ma che riguarda tutti. Grandi processi migratori avranno luogo a tutte le latitudini, e in ogni territorio ci saranno zone inabitabili.
Si tratta di prepararsi a gestire questi cambiamenti, non solo attraverso la mitigazione attesa dagli accordi e dagli impegni sul taglio delle emissioni, bensì anche attraverso interventi adattivi. Ci sono stati progressi significativi nello sviluppo di politiche nazionali e regionali sulle migrazioni legate all’ambiente, ma c’è ancora molto da fare. A tutti i livelli è evidente come un cambiamento sistemico sia l’unica strada percorribile. Per quanto riguarda i paesi del Sud globale, è necessario superare l’impostazione delle iniziative messe in campo finora da Banca mondiale e UE con il coinvolgimento del settore privato, in quanto rappresentano una continuazione di politiche agrarie neoliberiste che riescono a mantenere in funzione il sistema di commercio e approvvigionamento internazionale, ma che in ultima istanza finiscono – a causa della dipendenza da crediti, tecnologia e assistenza – per espellere altre persone dalle zone rurali.
A livello interno, i flussi verso le aree urbane rappresentano un ulteriore punto nevralgico per elaborare un piano d’azione, mitigazione e adattamento. La rapida e incontrollata crescita delle città non solo aumenta il rischio di ulteriori disastri e dislocazioni, ma creerà un esercito – di oltre due miliardi di persone entro il 2030, il 40% dei residenti urbani – in condizioni di vita estremamente precarie nelle megalopoli dei Paesi più poveri del Pianeta, una vera e propria bomba sociale. Servono interventi di carattere sia infrastrutturale che socio-economico, che guardino alla pianificazione territoriale anche delle aree di destinazione, agendo attraverso misure di protezione sociale e favorendo la diversificazione dei mezzi di sostentamento, al fine di aiutare le persone ad adattarsi alle trasformazioni che investono il luogo dove si trovano o in alternativa a muoversi in sicurezza e dignità.
Tutti gli ecologisti italiani hanno un obiettivo comune: essere rappresentati nel prossimo parlamento da un drappello nutrito di ecologisti preparati e determinati a costringere il governo che verrà ad avviare una seria ed equa transizione ecologica.
Chiunque voglia provare a contribuire a raggiungere questo obiettivo deve tenere in considerazione quattro questioni fondamentali:
1) Un partito verde in Italia c’è, anzi ce ne sono due visto che in Sud Tirolo i Grüne – Verdi – Vërc godono di ottima salute. Europa Verde-Verdi rappresenta una tradizione politica ecologista importante, ma occorre riconoscere che non è mai riuscito a superare la soglia dell’irrilevanza politica nell’ultimo decennio. Malgrado la domanda di ecologia in politica sia enormemente cresciuta negli ultimi anni, spingendo a ottimi risultati i partiti verdi in buona parte d’Europa, i verdi italiani non sono riusciti a convincere gli elettori. Ma il dato più significativo è che i verdi sono assenti dalle istituzioni sul nostro territorio, come mostra la mappa in fondo all’articolo riferita alle amministrative 2017-21, negli ultimi cinque anni sono riusciti a presentarsi alle elezioni solo in pochi casi e raramente a superare la soglia del 3%.
2) Al cammino difficile della Federazione dei Verdi, corrisponde una sostanziale diaspora degli ecologisti. Buona parte degli ecologisti italiani o non ha mai fatto parte della Federazione dei Verdi o se n’è allontanata. Centinaia di liste ambientaliste ed ecologiste costellano il tessuto politico italiano, una miriade di nodi sconnessi che non hanno una rappresentanza a livello nazionale. L’associazione Ecolo’ è un esempio di questa diaspora essendo nata due anni fa da uno dei tanti commissariamenti che hanno caratterizzato la storia dei verdi dell’ultimo decennio. Gli ecologisti ci sono, ma sono dispersi. Purtroppo, malgrado le numerose dichiarazioni di intenti, la Federazione dei Verdi non ha mai voluto (o non è in grado) realmente avviare un processo di allargamento e inclusione in grado di unificarli.
3) Non solo gli ecologisti ci sono nelle liste civiche, nei comitati e nelle associazioni, ma la bella scoperta del 2020 è stata che ci sono anche deputati che, seppure non eletti in un partito verde, sono determinati a rappresentare la visione ecologista in parlamento. Facciamo Eco è stato uno strumento di rappresentanza per tanti di noi dentro il parlamento ed è stato un pungolo importante al governo Draghi in questi mesi. Cinque deputati che hanno seguito la linea di un appoggio critico all’esecutivo, critica che è culminata con l’annuncio della sfiducia al ministro Cingolani da parte di Rossella Muroni durante la discussione della legge di bilancio.
4) C’è un’altra bella novità: qualcosa si è messo in moto! Si moltiplicano in questi mesi le assemblee, i forum, gli incontri che hanno l’obiettivo di dare futuro politico alla visione ecologista anche in Italia. Alleanza per la Transizione Ecologica, fra i cui fondatori spicca il nome di Edo Ronchi, ha mosso i primi passi lo scorso Dicembre, Rossano Ercolini e Zero Waste Italia hanno lanciato un appello all’unità degli ecologisti, realtà nazionali come Italia in Comune, Green Italia e l’associazione Laudato Si’, insieme a tante realtà politiche territoriali, si sono mostrate interessate a un processo di rappresentanza politica della visione ecologista. Una parte degli eletti 5Stelle al Parlamento Europeo ha aderito al partito degli European Greens.
Questa la situazione. Come si mettono insieme tutti questi pezzi per raggiungere l’obiettivo? Aderendo all’organizzazione di Assemblea Ecologista a Firenze il 5 Febbraio abbiamo fatto una scommessa.
Crediamo che l’elemento che manca oggi sia un coordinamento orizzontale che favorisca la collaborazione di tutti gli ecologisti: verdi storici, amministratori locali, liste civiche, parlamentari, associazioni e ecologisti dispersi.
A questo processo sono invitati tutti coloro che si riconoscono nel manifesto dei Verdi Europei – che saranno presenti all’incontro del 5 febbraio con Vula Tsetsi, segretaria generale dei deputati al parlamento Europeo – e nell’obiettivo di costruire una lista unitaria degli ecologisti per le prossime elezioni parlamentari.
Siamo convinti che non dobbiamo avere la pretesa di federare gli ecologisti italiani in un soggetto unico. Vogliamo molto più modestamente coordinarli attorno a un obiettivo di medio termine fondamentale: avere rappresentanti credibili della nostra visione nel prossimo parlamento.
Chiamiamolo coordinamento ecologista, chiamiamola confederazione verde, non importa il nome, ma importa che ci proviamo. Abbiamo di fronte una sfida da cui dipende il futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti, non è più il tempo del tatticismo politico, è il tempo di rimboccarsi le maniche.
La mappa rappresenta dati ottenuti consultando corriere.it e repubblica.it disponibili qui Eventuali imprecisioni sono da imputare a noi.
di Guido Scoccianti
L’agricoltura si è trasformata con l’evoluzione della società umana e questa ha potuto evolversi – in buona parte – grazie alle innovazioni nelle attività agricole. E’ evidente quindi come oggi, di fronte ad un mondo per molti aspetti nuovo, sia dal punto di vista sociale che ambientale, non possiamo pensare che l’agricoltura possa continuare ad essere gestita, in modo efficace ed adatto alle nuove necessità, senza modifiche sostanziali.
L’agricoltura è, in primis, ‘cibo’ che giunge tutti i giorni sulle nostre tavole ed è quindi elemento fondamentale di sussistenza e di equità.
Inoltre è evidentemente ‘salute’, perché da cosa mangiamo possono derivare importanti effetti positivi o negativi sul nostro benessere, sulla nostra vita.
Ma l’agricoltura è anche ‘clima’. Le emissioni dovute all’agricoltura, in particolare quelle collegate agli allevamenti di bestiame e all’uso di fertilizzanti, costituiscono il 10% delle emissioni europee di gas climalteranti. A questa quota andrebbero però aggiunte le emissioni dovute alla produzione dei mangimi importati da paesi extraeuropei per i nostri allevamenti, nonché il consumo di suoli capaci di immagazzinare CO2 – come le torbiere – , così come i consumi di energia diretti ed indiretti. Il fattore di gran lunga più importante (circa il 70% del totale) è dato dagli allevamenti animali a causa del processo di fermentazione a livello dell’apparato digerente degli animali stessi e a livello dei liquami derivati, sia che siano essi stoccati ovvero depositati sui suoli agricoli. Inoltre l’agricoltura, oltre ad essere uno degli ambiti di maggior impatto sul clima, è allo stesso tempo uno dei settori più esposti ai danni causati dai cambiamenti climatici.
Inoltre l’agricoltura è ‘biodiversità’. A causa del suo ruolo nel degrado e consumo di suolo, nella semplificazione degli ecosistemi, nella dispersione di sostanze tossiche, nel consumo di acqua, ed a seguito della sua azione, nel complesso, di ‘competizione’ per le risorse rispetto alle forme di vita vegetali ed animali selvatiche, l’agricoltura costituisce il primo fattore quanto ad impatto sulla diversità biologica in Europa (European Environment Agency – State of nature in the EU, 2020). Dalla conservazione della biodiversità in realtà l’agricoltura avrebbe non da perdere ma molto da guadagnare. Si pensi in tal senso alla possibilità di attingere a quella ricchezza genetica, oggi sempre più affievolentesi, che ci può fornire nuove risorse capaci di affrontare in modo più efficace future mutate situazioni ambientali, malattie ed altre situazioni di difficoltà. Ed un altro chiaro esempio di quanto la biodiversità non è antagonista ma sinergica con l’agricoltura è dato dall’attuale crisi degli insetti impollinatori, che, se non controvertita, rischia di mettere in ginocchio gran parte della nostra produzione agricola.
E, certamente, l’agricoltura è ‘economia’. E questo non solo per quanto riguarda tutta la catena produttiva e distributiva del cibo e connesse attività, con conseguente enorme indotto sia a livello di cifre complessive che di posti di lavoro, ma anche per quanto riguarda la destinazione dei fondi pubblici. Basti pensare che la PAC (Politica Agricola Comune) rappresenta oltre un terzo dell’intero budget dell’Unione Europea (oltre 400 miliardi di euro).
Tenendo tutto questo in considerazione, quello di cui abbiamo oggi bisogno è un’agricoltura sempre più sostenibile dal punto di vista ambientale, di minor impatto sul clima, più amica della biodiversità, più equa dal punto di vista sociale.
La Commissione Europea nel 2020 ha varato una nuova Strategia europea sull’agricoltura per il 2030, la Farm to Fork, che contiene importanti indicazioni in questo senso con una serie di obiettivi volti ad assicurare una migliore qualità della nostra produzione agricola insieme ad una sua maggiore sostenibilità ambientale. Si va da un aumento ad almeno il 25% del territorio agricolo gestito secondo i canoni dell’agricoltura biologica, alla destinazione del 10% delle superfici al mantenimento di ‘infrastrutture verdi’ ed elementi caratteristici del paesaggio agricolo tradizionale (in correlazione con la Strategia europea per la Biodiversità), dalla riduzione del 50% dell’utilizzo dei pesticidi ad una diminuzione dell’uso degli antibiotici negli allevamenti, dallo sviluppo della bioeconomia circolare in ambito agricolo all’utilizzo di fonti rinnovabili, dalla difesa del suolo e la riduzione di almeno il 20% nell’uso dei fertilizzanti entro il 2030 ad una serie di azioni volte a modificare la dieta dei cittadini europei verso una diminuzione dell’uso della carne ed uno spostamento verso prodotti ecosostenibili.
Si tratta di obiettivi importanti, anche se su alcuni aspetti si sarebbe dovuto osare di più, come sulla riduzione dei pesticidi o anche sul ridimensionamento del settore zootecnico che, come si è detto, ha un enorme impatto sul clima e attualmente ha dimensioni senza dubbio non sostenibili, con il 68% della superficie agricola destinato alla produzione animale (dati Eurostat 2019).
Tuttavia, la nuova Politica Agricola Comune recentemente approvata dal Parlamento Europeo ha, in parte, già tradito le indicazioni, contenute nella Strategia mantenendo un quadro che sostanzialmente permette la conservazione della situazione in essere, annacquando gli obiettivi e continuando a sostenere l’agricoltura e la zootecnia agroindustriale piuttosto che spostare l’ago della bilancia verso la produzione ecosostenibile e di qualità (sia dal punto di vista alimentare che ambientale e climatico).
A questo punto la partita, fondamentale per il nostro futuro, è passata nelle mani degli Stati membri, che devono elaborare i Piani Strategici Nazionali e con essi gli Eco-schemi, che dovrebbero guidare le future politiche agricole e, cosa di non poca importanza, la destinazione dei fondi, evidentemente cruciale se si vuole spostare l’equilibrio da pratiche che danneggiano l’ambiente a pratiche agricole virtuose sia dal punto di vista ambientale che degli equilibri socioeconomici delle zone rurali.
Purtroppo, dai primi segnali, gli Stati membri, piuttosto che recuperare ciò che la PAC aveva dimenticato della Strategia, stanno confermando il mantenimento della ‘vecchia’ agricoltura. Un dossier curato da WWF, European Environment Bureau e BirdLife International, pubblicato nel novembre 2021, evidenzia come, dall’analisi delle bozze (ancora preliminari) dei Piani Strategici Nazionali di 21 Stati europei, solo il 19% degli eco-schemi proposti ha una probabilità di raggiungere gli obiettivi ambientali dichiarati, il 40% per poter essere efficaci necessiterebbe di modifiche sostanziali, il 41% risulta completamente disallineato rispetto agli obiettivi di tutela dell’ambiente e contrasto ai cambiamenti climatici.
In questa direzione sembra purtroppo muoversi anche l’Italia, a giudicare da quanto al momento proposto, e, se non verranno apportate sostanziali modifiche alla bozza di Piano attuale. Il risultato sarà un falso green-washing e non una vera innovazione della nostra agricoltura.
Una ampissima coalizione di Associazioni, lanciata inizialmente da Associazione Medici per l’Ambiente, AIAB, Associazione Agricoltura Biodinamica, FAI, Federbio, Legambiente, LIPU, Pronatura e WWF, ma oggi allargatasi a ben 89 soggetti associativi, ha lanciato un manifesto con proposte e indicazioni perché il Piano Strategico Nazionale italiano possa davvero andare nella direzione di un’agricoltura sostenibile sia da un punto di vista ambientale che sociale, attenta al clima, capace di sostenere l’agricoltura sociale e le comunità rurali. Il manifesto è scaricabile, insieme a molta altra documentazione utile, sul sito della coalizione (https://www.cambiamoagricoltura.it).
Proposte come queste saranno ascoltate?
Vorrà il Governo Italiano creare le basi per una agricoltura nuova, biodiversa e sociodiversa, oppure tutto continuerà immutato all’insegna del ‘business as usual’?
di Sebastiano Nerozzi e Giorgio Ricchiuti
Quando, ormai un po’ di anni fa, ci siamo seduti nei banchi del corso di politica economica, la prima distinzione che ci è stata insegnata è fra politiche di domanda e di offerta. Con le prime l’obiettivo è di guidare la domanda (appunto) di beni e servizi dei vari agenti economici (soprattutto i consumatori) mentre con le seconde, l’autorità di politica economica si concentra sulle imprese, agendo dal lato della produzione, l’offerta (appunto).
La tesi di questo breve scritto è che i movimenti ambientalisti si sono concentrati più sulle prime che sulle seconde. E questo ha avuto alcuni effetti perversi di cui occorre tener conto, per lo sviluppo e la proposizione delle politiche di transizione ecologica.
Prendiamo per esempio le produzioni del settore agro-alimentare. Le politiche, in questo caso, si sono più concentrate su come gli agenti percepiscono il consumo di beni (biologici o comunque a basso impatto) piuttosto che sull’imposizione di standard minimi per tutti i produttori (inclusi quelli non biologici). E spesso però queste strategie sono state suggerite con campagne di comunicazione che fanno leva soprattutto sul senso di responsabilità delle persone, sul desiderio di consumi più sani, e sulla loro sensibilità per le questioni ambientali.
Si tratta di un approccio corretto, ma, che a nostro avviso, presenta dei limiti e anche delle possibili controindicazioni. Esso, infatti, non è stato sufficiente a indurre una accettazione abbastanza ampia e consapevole di uno stile di vita più “green” ed ha, invece, prodotto tre risultati poco desiderabili.
Il primo è una polarizzazione fra chi crede ferventemente ad una visione di rispetto della natura e chi invece esprime un chiaro disinteresse o addirittura un fastidio per le continue campagne di informazione e di marketing alle quali è sottoposto. Questi ultimi, cogliendo l’ampiezza e la complessità dei problemi, reagiscono rivendicando la razionalità di un comportamento volto a massimizzare il proprio benessere qui ed ora, lasciando alla politica e alle generazioni future il compito di risolvere questioni che sfuggono al proprio controllo di cittadini e consumatori. Questi atteggiamenti molto diffusi rivelano, a nostro avviso, un più generale problema delle politiche di domanda volte al cambiamento di preferenze e abitudini: esse necessitano di tempo per esser assorbite e potrebbero, addirittura, creare un effetto di saturazione.
Un secondo elemento che ci preme mettere in evidenza è la diversa disponibilità a pagare fra i cittadini per beni “ambientalmente compatibili”, che porta le imprese a discriminare i consumatori sulla base del prezzo. Questa è una strategia commerciale ben chiara, che permette alle imprese di massimizzare i propri profitti facendo pagare ai consumatori per uno stessa tipologia di bene un prezzo diverso a seconda di particolari caratteristiche di quest’ultimo. Una mela viene pagata ad un prezzo più alto se prodotta a km zero e/o con tecniche di produzioni naturali. Il problema è che la mela “più lontana”, ambientalmente ritenuta “più sporca”, non sparisce dal mercato ma viene ugualmente venduta ad un prezzo più basso. Emerge quindi un trade-off fra reddito del consumatore e scelta green: solo un reddito relativamente alto permette di fare scelte di consumo integralmente green; i consumatori meno ricchi devono concentrare le loro scelte su pochi beni e quelli più fragili, sottoposti come tutti alle continue campagne pubblicitarie per l’acquisto di beni “eco-responsabili” che non possono permettersi, sviluppano spesso un senso di frustrazione che può spingerli ad abbracciare posizioni eco-scettiche.
Un terzo elemento riguarda i comportamenti delle imprese: per intercettare la parte più appetibile del mercato, esse possono mascherarsi da imprese green, lanciando alcuni prodotti green e investendo sul marketing senza modificare in modo sostanziale i loro comportamenti inquinanti nell’insieme della loro catena produttiva. E’ il cosiddetto greenwashing, il quale ha tanto più successo quanto più soddisfa il desiderio del consumatore moderatamente green di sentirsi a posto con la propria coscienza, anche senza cambiare in modo radicale le sue abitudini. Altra strategia per le imprese è quella di mascherare il proprio comportamento inquinante con “attività compensative”, come la piantumazione di alberi al costo di un piccolo sovrapprezzo, che migliorano la propria “brand reputation” senza cambiare alcunché di sostanziale nei processi produttivi. L’effetto complessivo è la non riduzione delle produzioni “sporche” che emerge anche dall’analisi dei dati: a fronte di tante campagne green da parte di governi e imprese, i processi di deterioramento dell’ambiente a livello globale continuano.
Ai limiti delle politiche dal lato della domanda occorre naturalmente rispondere puntando con più decisione su politiche dal lato dell’offerta, che inducano tutte le imprese a intraprendere una transizione profonda verso una produzione più attenta a ridurre le produzioni dannose per l’ambiente. Come? Sicuramente innalzando gli standard produttivi attraverso una regolamentazione più stringente e generalizzata, che porti a riduzioni dell’impatto ambientale di tutta la produzione, indipendentemente dalle scelte dei consumatori, senza creare discriminazioni sulla base della capacità di spesa e limitando seriamente il campo del greenwashing.
Questo approccio, certamente più ambizioso, naturalmente sposta una parte più consistente dei costi dai sonumatori alle imprese e genera resistenze ed obiezioni: l’argomentazione più diffusa è che politiche di questo tipo avrebbero l’effetto di innalzare i costi di produzione, riducendo la competitività delle imprese a livello internazionale.
Da questo punto di vista i governi hanno un ruolo importante da svolgere non solo come regolatori ma anche come produttori di beni e servizi per tutto il sistema economico, perseguendo principalmente tre obiettivi. Il primo è quello di realizzare politiche che riducano i costi delle imprese a fronte di un loro maggiore investimento per la conversione ecologica: primo fra tutti il costo dell’energia, i costi di transazione legati alla burocrazia e/o all’incertezza fiscale. Per esempio incentivando le produzioni che riducono le emissioni e il consumo di materie prime, spingendo le imprese a ridurre i costi per l’energia diventandone esse stesse produttrici (vedi lo sviluppo di comunità energetiche). Il secondo obiettivo è investire nella ricerca di base, agevolando dunque le imprese nello sviluppo di beni e processi a minore impatto ambientale. Terzo obiettivo è quello di imporre a livello internazionale il rispetto di standard ambientali adeguati, proprio per scongiurare la concorrenza dei paesi in cui la legislazione ambientale è più permissiva o i controlli sono meno rigidi.
C’è un ultimo aspetto che vogliamo sottolineare: le due tipologie di politiche, quelle dal lato della domanda e dal lato dell’offerta, non sono alternative ma complementari. Prendiamo la legge sul vuoto a rendere. Da una parte i consumatori devo essere spinti a recuperare i vuoti, dall’altra le imprese a sostituire quanto più possibile contenitori a perdere con quelli a rendere. In una visione ecologica del sistema economico, domanda e offerta non possono esser viste separatemene, ma devono coevolvere, riportando tutto il sistema economico a sincronizzarsi con i processi naturali nei quali è inserito e integrato.