Oggi si apre la campagna di tesseramento Ecoló 2022. Iscrivendovi entrerete a far parte della comunità di Ecoló, riceverete aggiornamenti e sarete coinvolti nelle attività.
Anche se non avete molto tempo da dedicare alla politica iscrivendovi sosterrete il nostro lavoro di associazione ecologista.
Seguendo questo link potete inserire i vostri dati e con un versamento di 10€ l’iscrizione sarà in breve completata (a meno che non vogliate fregiarvi del titolo di socio sostenitore e ne sborsiate 50!).
Dalle riunioni di inverno con finestre aperte e mascherina, alle manifestazioni di piazza e i pranzi di autofinanziamento…
malgrado la pandemia, il 2021 è stato un anno pieno di attività per Ecoló grazie all’impegno di tante e tanti e grazie al sostegno di tutti gli iscritti.
Di Guido Scoccianti
Fanalino di coda da sempre di tutte le politiche, ultimo dei settori nella destinazione dei fondi e delle risorse, da molti sostanzialmente ignorata o quantomeno considerata tema da ‘sentimentali’, la tutela della biodiversità ancora oggi stenta ad essere riconosciuta per quello che in realtà è, cioè uno degli elementi chiave per la nostra sopravvivenza.
Qualcosa però potrebbe cominciare a cambiare.
Se a poco o nulla sono serviti i gridi di allarme negli ultimi decenni di biologi e naturalisti, nonostante la mole di dati raccolti che mostrano in modo inequivocabile la gravità della situazione, finalmente adesso cominciano a parlare dell’importanza della biodiversità anche gli economisti. Una voce tipicamente tenuta in maggior considerazione dai nostri politici.
Quali sono infatti i costi economici per la nostra società della distruzione di specie e habitat?
Come segnala la Commissione Europea nella presentazione della Strategia Europea sulla Biodiversità per il 2030:
“la perdita di biodiversità e il collasso degli ecosistemi sono una minaccia anche per le fondamenta della nostra economia e si prevede che i costi dell’inazione, già alti, aumenteranno. Si stima che dal 1997 al 2011 i cambiamenti nella copertura del suolo abbiano causato perdite pari a 3500-18500 miliardi di euro l’anno in servizi ecosistemici a livello mondiale e che il degrado del suolo sia costato 5500-10500 miliardi di euro l’anno“.
“l rapporto benefici/costi complessivi di un programma mondiale efficace per la conservazione della natura ancora allo stato selvatico è stimato ad almeno 100 a 1. Gli investimenti nel capitale naturale, ad esempio nel ripristino di habitat ricchi di carbonio e nell’agricoltura rispettosa del clima, sono considerati tra le cinque politiche più importanti di risanamento del bilancio in quanto offrono moltiplicatori economici elevati e un impatto positivo sul clima“.
Basta inoltre pensare, per esempio, a come il declino degli insetti impollinatori, se non controvertito, può mettere in ginocchio la nostra agricoltura e di conseguenza tutta la catena della produzione alimentare, per comprendere bene come la tutela della biodiversità è una sicurezza anche per noi stessi.
Per questo la tutela della biodiversità, insieme al contrasto ai cambiamenti climatici, dovrebbe essere oggi elemento fondamentale ed anzi guida di tutte le politiche, in particolare di quelle che determinano le azioni per la ripresa economica dopo la pandemia.
E’ con questa consapevolezza che proprio nella primavera del 2020, in piena esplosione della crisi pandemica, la Commissione Europea ha avuto la volontà e la forza di approvare una nuova Strategia dell’UE sulla Biodiversità per il 2030, Strategia che dovrebbe guidare i Paesi europei in un cammino rivoluzionario per quanto riguarda i rapporti fra uomo e natura, con l’obiettivo conclusivo di giungere nel 2050 ad una situazione in cui tutti gli ecosistemi del pianeta siano ripristinati, resilienti e adeguatamente protetti e dove sia applicato il principio del “guadagno netto”, cioè restituire alla natura più di quanto le sottraiamo. Un obiettivo molto ambizioso, forse irraggiungibile nella sua interezza, ma che deve essere l’elemento su cui costruire fin da oggi tutte le nostre politiche, con una serie di passaggi intermedi di azione e di verifica. La strategia europea al 2030 vuole essere il primo di questi passaggi intermedi, prefiggendosi il traguardo di riportare la biodiversità in Europa sulla via della ripresa entro il 2030, in linea con l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, ed in connessione e sintonia con gli obiettivi di lotta ai cambiamenti climatici.
D’altronde tutela della biodiversità e tutela del clima sono strettamente interconnessi. La biodiversità ha un ruolo fondamentale nel sequestro e nell’immagazzinamento del carbonio. E’ facile pensare in questo senso alle foreste, ma anche altri ecosistemi hanno importanti ruoli. Per esempio le torbiere, che a livello globale contengono più di 550 giga tonnellate di carbonio e sono capaci di sequestrare 0.37 giga tonnellate di CO2 all’anno, e, come le torbiere, i suoli fertili in genere. Inoltre fondamentale è il ruolo del fitoplancton marino nell’accumulare CO2 rimuovendola dall’atmosfera.
Nello stesso tempo, la conservazione della biodiversità naturale rende gli ecosistemi maggiormente resilienti agli impatti da cambiamento climatico e inoltre ci offre soluzioni ‘nature-based’ che possono, e dovrebbero, svolgere un ruolo fondamentale nel contrasto al cambiamento climatico ed ai suoi effetti.
Non è un caso che, nel giugno 2021, è stato pubblicato un primo rapporto congiunto fra i due maggiori organismi internazionali che si occupano rispettivamente di clima e di biodiversità, cioè l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) e l’IPBES (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services), rapporto in cui si sottolinea l’importanza e la necessità di affrontare insieme la crisi climatica e la crisi della biodiversità congiuntamente ai loro combinati impatti sociali.
Allo stesso modo, tornando ai rapporti fra economia e biodiversità, un istituto come il World Economic Forum, ad oggi non proprio avvezzo a posizioni ecologiste e difficilmente tacciabile di posizioni ecologiste preconcette, ha pubblicato nel 2020 un dossier dall’eloquente titolo di ‘Nature risk rising: Why the crisis engulfing Nature matters for business and the economy’, in cui si sottolinea come più di metà del Prodotto Interno Lordo mondiale (44 miliardi di dollari) dipende in modo determinante dalla natura e dai suoi servizi ed è quindi esposto a rischio dalla perdita di capitale naturale.
E’ anche per questo che gli obiettivi della Strategia Europea sulla Biodiversità per il 2030 sono obiettivi che non ci possiamo permettere di perdere ed è importante notare che non sono solo obiettivi di ‘conservazione’ degli ecosistemi che ancora sopravvivono, ma anche di ripristino e ricreazione di ambienti che sono stati deteriorati. Uno degli obiettivi principali della strategia è infatti il ripristino di vaste superfici di ecosistemi degradati e ricchi di carbonio, obiettivo che coincide perfettamente con l’impegno che l’ONU ha voluto lanciare con la dichiarazione del decennio 2020-2030 come ‘Decade on Ecosystem restoration’.
E’ evidente che per raggiungere questi obiettivi ci vogliono volontà, scelte precise e anche destinazioni adeguate di fondi e risorse, nella consapevolezza però che questi fondi e risorse, se ben utilizzati, ci eviteranno disastrose e ben più alte perdite economiche, dovute alla depauperazione dei servizi ecosistemici.
Per iniziare a tutelare davvero la biodiversità, attraverso una svolta nelle politiche internazionali e locali, dovrebbe essere sufficiente la motivazione che anche tutte le altre forme di vita animale e vegetale di questo pianeta hanno diritto a continuare ad esistere, o almeno la considerazione che lasciare ai nostri figli un mondo senza biodiversità significa lasciare un mondo privo di gran parte della sua bellezza. Ma se ancora questo non fosse sufficiente, forse ci potrà far cambiare idea il fatto che senza biodiversità a crollare saranno la stessa nostra economia e con essa i già traballanti equilibri sociali. Lo sapremo nei prossimi anni.
La politica, a tutti i suoi livelli ed in modo coordinato, deve oggi fare una scelta, e deve farlo tenendo ben chiaro che, se così non sarà, non avremo un altro decennio a disposizione per recuperare ciò che non avremo fatto da qui al 2030, perché molto di tutto questo non sarà più recuperabile e saremo destinati a vivere sempre più poveri in un mondo sempre più povero, più insalubre, più inospitale, orfano di quella bellezza che rende la vita degna di essere vissuta.
di Sebastiano Nerozzi* e Giorgio Ricchiuti**
Pur pensando alla pandemia come una crisi sanitaria, non possiamo dimenticare che l’aumento delle zoonosi vede nell’uomo e nelle attività produttive il principale imputato. La crisi ecologica però ha portato alla ribalta, ancora di più di quella finanziaria di un decennio fa, la diseguaglianza diffusa che vediamo nell’accesso alle cure, così come nei problemi nell’accesso alla DAD o nelle sperequazioni fra lavori fra chi ha potuto lavorare in smartworking e chi ha continuato come prima o, peggio ha perso il lavoro. Per non dimenticare la forte diseguaglianza fra paesi nell’accesso ai vaccini. Questi elementi sottintendono una forte diseguaglianza di reddito e ricchezza.
Facciamo un piccolo passo indietro. Dopo la seconda guerra mondiale, la crescita economica dei paesi del blocco occidentale ha portato all’aumento di beni a disposizione di una crescente classe media. Una seconda ondata è arrivata con il processo di globalizzazione finanziaria e della produzione che, sul finire del secolo scorso, ha portato anche all’emersione di un gruppo di paesi (Cina, India, Brasile, fra gli altri) che si sono inseriti di diritto fra i protagonisti delle catene globali del valore. La loro crescita economica sostenuta ha portato alla riduzione della distanza (la diseguaglianza) fra paesi e alla riduzione della povertà assoluta (secondo l’ONU, 800 milioni di persone hanno superato la soglia di povertà assoluta), un miglioramento degli standard di vita, un miglior accesso all’istruzione (Global Multidimensional Poverty Index 2020).
Tuttavia non tutti hanno beneficiato della crescita sostenuta a cavallo del secolo. Sono state le élite di super-ricchi e le classi medie dei paesi emergenti ad ampliare redditi e ricchezza. La distribuzione dei benefici della crescita economica avvenuta nel trentennio glorioso della globalizzazione sono stati descritti in un celebre grafico dell’“elefante di Milanovic”, dal nome dell’economista Branko Milanovic che lo ha realizzato. Milanovic ha stimato infatti i tassi di crescita per ogni percentile di reddito dai più poveri ai più ricchi: dal 1988 al 2008 i nuovi ceti medi nei paesi emergenti hanno visto aumentare di oltre 60-70% il loro reddito (le spalle e la testa dell’elefante), in linea con il 2% più ricco della popolazione mondiale (la proboscide). Al contrario i lavoratori e i ceti medi dei paesi sviluppati (la bocca dell’elefante) hanno visto ristagnare i loro redditi, insieme con i più poveri dei paesi del Sud del mondo (la coda).
E la forte diseguaglianza di reddito e ricchezza è confermata dall’ultimo rapporto mondiale sulla diseguaglianza (WIR, 2022) appena pubblicato. Il rapporto sottolinea come le medie nascondono pericolosamente una forte disparità di reddito sia all’interno dei paesi che fra paesi. Il 10% più ricco della popolazione mondiale assorbe attualmente il 52% del reddito globale, mentre la metà più povera della popolazione ne guadagna l’8%. In media, chi sta fra il 10% più alto della distribuzione del reddito globale guadagna € 87.200 all’anno, mentre chi è nella metà più povera della distribuzione globale del reddito guadagna appena € 2.800 all’anno. E questa disparità è ancora più chiara e pronunciata guardando alla ricchezza. La metà più povera della popolazione mondiale possiede solo il 2% del totale. Al contrario, chi fa parte del decile più alto possiede il 76% di tutta la ricchezza.
D’altra parte la crescita economica non si è solo accompagnata alla diseguaglianza, ma ha anche portato alla “grande accelerazione”, per usare il termine coniato dagli storici dell’ambiente John H. Mc-Neill e Peter Engelke per indicare l’aumento delle emissioni di CO2 dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi e ripreso dalla figura qui sotto.
Se fino alla seconda rivoluzione industriale la biosfera era in grado di assorbire e rigenerare la quantità di CO2 prodotta dall’uomo, l’aumento della produzione si è accompagnato ad un forte aumento di gas climalteranti, causando l’aumento delle temperature globali. E l’aumento è ascrivibile ai paesi occidentali così come a quelli emergenti.
La crescita del PIL si è quindi accompagnata da una parte ad uno squilibrio distributivo e dall’altra ad uno ecologico. Per la teoria economica tradizionale sia l’effetto sulla diseguaglianza che l’impatto ambientale dovrebbero essere transitori. Diseguaglianza e impatto ambientale crescono in una prima fase di sviluppo per poi ridursi una volta che vengono introdotte politiche di protezione ambientale o redistributive. Questo è quello che suggerisce la suggestiva curva di Kuznetz a forma di “u rovesciata”, che associata alla diseguaglianza nella sua formulazione originaria, ha trovato una riproposizione anche in riferimento ai danni ambientali.
Viene delineato quindi un automatismo che però scarica di responsabilità gli attori in gioco: si tratta solo di accettare questi processi (c’è un livello buono di diseguaglianza e inquinamento) e aspettare la loro soluzione quasi naturale. Tuttavia, nel tempo, diversi studi hanno mostrato la fallacia di queste assunzioni e la loro insostenibilità sia sociale che ambientale. Allo stesso tempo, i tempi del cambiamento climatico non possono fermarsi ai se e alla lentezza di un processo così complicato.
Considerando i tempi stretti per ridurre le emissioni e evitare il disastro ecologico crediamo sia fondamentale ribaltare le idee dietro le curve a “u rovesciate” e comprendere come, le politiche di riduzione della diseguaglianza (e della povertà), non sono una conseguenza logica e inevitabile dello sviluppo ma un presupposto necessario per ogni strategia di sviluppo ecologico.
Facciamo un piccolo esperimento mentale, un mero esercizio contabile che può però aiutarci a comprendere meglio la relazione fra produzione (PIL), consumo di risorse e diseguaglianza. Diamo per buone la distribuzione trovata dal WIR: il 50% della popolazione mondiale (circa 4 miliardi di persone) guadagnaa solo l’8% del reddito, mentre il 10% più ricco (ottocento milioni di persone) ricevono il 52% del reddito prodotto, il restante 40% è nelle mani del resto della popolazione mondiale. Immaginiamo, per ipotesi, che questa distribuzione rimanga costante nel tempo e chiediamoci di quanto debba aumentare in reddito (la produzione) mondiale per aumentare di un solo euro il reddito del 50% più povero. Per dare a questa parte della popolazione 4 miliardi di euro, il reddito mondiale deve aumentare di 50 miliardi. Questi non vengono equamente distribuiti, infatti bene 26 (il 52%) arriva al 10% più ricco. Quindi per ogni euro dato a un povero, ne vengono dati 32,5 a chi è nel decile più alto. Facciamo notare che un super ricco (che è nell’1% più ricco) ne riceverà ancora di più.
Chiediamoci adesso cosa succederebbe se, attraverso politiche attive di redistribuzione, limitassimo la quota dei ricchi al 30%, innalzando la quota della metà più povera dall’8 al 20%. Per dare un euro in più dovremmo aumentare il reddito mondiale solo di 20 miliardi (meno della metà di prima). Potremmo quindi produrre di meno, inquinando meno, ma producendo uno stesso aumento di reddito per la parte bassa della distribuzione del reddito. Certo il decile più alto dovrebbe solo accontentarsi di 7,5 euro ma sarebbe sempre il 650% in più di quello ricevuto da un povero. L’effetto positivo sull’ambiente potrebbe essere ancora più elevato se consideriamo che alti livello di reddito sono correlati ad elevate emissioni (i ricchi viaggiano di più, usano meno i mezzi pubblici, etc..), così come mostrato da un OXFAM TECHNICAL BRIEFING del dicembre 2015.
C’è, infine, un ulteriore effetto che va considerato. L’aumento di reddito per le fasce più basse della distribuzione, portando fuori dalla condizione di povertà una buona parte della popolazione del sud del mondo, accellererebbe la transizione demografica in corso, favorendo un contenimento dell’aumento della popolazione mondiale, con un’ulteriore riduzione del consumo di risorse naturali.
Ribadiamo che il nostro è solo un esperimento mentale, un effettivo cambiamento di rotta richiede interventi fiscali su larga scala, il coordinamento di tutti i paesi e il riaggiustamento dei meccanismi e produttivi e redistribuivi (fra profitti e salari). Speriamo però che risulti chiaro come la riduzione della diseguaglianza, favorendo le fasce più disagiate della popolazione, permetterebbe una riduzione della pressione antropica sulla natura. Sviluppo ecologico e riduzione delle diseguaglianze non possono che coevolvere.
___________________
* Sebastiano Nerozzi è professore associato di Storia del Pensiero Economico all’Università Cattolica di Milano ** Giorgio Ricchiuti è professore associato di Politica Economica all’Università di Firenze
L’area che ospitò le Officine Galileo dal 1909 e che si convertì al settore meccanotessile dopo la liberazione di Firenze attende ancora una sua destinazione definitiva. Un’area strategica e densa di storia che si è accompagnata negli ultimi 40 anni ad un reale processo di partecipazione attraverso il Comitato “Il Meccanotessile è dei cittadini”. Siamo nel Quartiere di Rifredi, in un’area compresa tra l’Ospedale di Careggi e Piazza Dalmazia.
A Firenze riteniamo necessario incidere su questo spazio e perciò abbiamo intervistato l’Architetto Giuseppe Santarelli, memoria storica del comitato e già presidente della Commissione speciale sul Meccanotessile del Quartiere 5.
Ecoló: Buonasera Giuseppe. Innanzitutto, grazie per questo momento di approfondimento e confronto. Rappresenti stasera il comitato “Il Meccanotessile è dei cittadini”, cosa è necessario raccontare della sua storia per capire le vicende attuali?
Arch. Santarelli: E’ necessario partire dagli anni ’70, periodo in cui i cittadini già dimostrarono la forte volontà di partecipare al processo decisionale sul destino dell’area.
Il Meccanotessile rappresenta la storia industriale di Rifredi, quartiere di Firenze nato intorno alle fabbriche. Alla fine degli anni ’70 la produzione del complesso industriale fu trasferita a Campi Bisenzio prevedendo di demolire e sostituire i fabbricati esistenti con nuovi edifici ad alta densità abitativa (La nuova destinazione residenziale era frutto del P.R.G. del 1962 che aveva destinato l’area in questione a zona di ristrutturazione edilizia). Gli operai e la cittadinanza si ribellarono alla decisione e cercarono di fermare le ruspe riuscendo, in nome della memoria storica del lavoro di molti operai ancora residenti nel quartiere, a salvaguardare il fabbricato principale che rappresenta un importante esempio di archeologia industriale, era il 1981.
Il Comune finanziò così alla fine degli anni ’80 un ingente restauro conservativo dell’immobile, che era stato destinato a Museo dell’Arte Contemporanea. Nasce allora il primo comitato cittadino che vuole partecipare al processo politico attraverso il dialogo con l’amministrazione. Il progetto è ben accetto ma il comitato ritiene necessario riportare alla politica la forte necessità di servizi per bambini, giovani ed anziani del quartiere, da inserire all’interno degli spazi. Una parte dei cittadini che avevano aderito al comitato fece Osservazioni al Piano Regolatore Generale proponendo: “Area a verde Pubblico con alberi di alto fusto al posto di manufatti edilizi e parcheggi di superficie”. Le Osservazioni furono in parte accolte: il futuro museo di arte contemporanea avrebbe mantenuto un’area a verde al di sopra del nuovo parcheggio sotterraneo (ed uno spazio di memoria del lavoro), i servizi sociosanitari sarebbero sorti in un edificio presso Via Bini.
Ecoló: Quando sono partiti i lavori di restauro conservativo?
Arch. Santarelli: Nel Maggio del 1990 si apre il cantiere, primo lotto e primo stralcio per la costruzione del nuovo Centro D’Arte Contemporanea nell’area delle ex Officine Galileo finalizzato alla ”conservazione e recupero integrale del padiglione ex Meccanotessile”. Il 17 Aprile del 2000 con delibera n. 488, la Giunta Comunale approva il progetto esecutivo del secondo stralcio per il completamento dei lavori e della gestione economica e funzionale dell’intero complesso mediante Atto di Concessione e gestione (questa seconda parte non andò a buon fine). Attraverso la presenza di membri del comitato all’interno del consiglio di quartiere nasce la “Commissione speciale sul meccanotessile”, trasversale ai partiti politici, che si riunisce dopo cena per poter coinvolgere la cittadinanza. Per il quartiere l’anno 2001 è infatti un momento particolarmente dinamico nella partecipazione al processo: nel frattempo la commissione decise la nuova definizione del Centro: Centro delle Arti Contemporanee. Si realizzano tesi di laurea sul tema seguite direttamente dalla Commissione speciale sul Meccanotessile che organizza, insieme all’Assessore alla Cultura del Comune di Firenze , presso il circolo SMS di Rifredi eventi e mostre sull’arte contemporanea, il giornale “Il Colle” segue le vicende mantenendo aggiornati i cittadini.
Ecoló: Questo connubio tra cittadini e politica sembra destinato a grandi risultati. Cosa è successo dopo?
Arch. Santarelli: Attraverso vicissitudini legate ad appalti e ricorsi i lavori si fermano per anni, inoltre la Commissione Meccanotessile si scioglie al termine del primo mandato del Sindaco Domenici. Nel 2009 Matteo Renzi cambia rotta politica sul destino dell’ex Meccanotessile e il progetto si interrompe totalmente: l’area viene messa in vendita, infatti il 4 febbraio 2010 il lotto viene inserito nel piano di alienazione del Comune. E’ in questo momento storico che nasce il secondo Comitato, cioè l’attuale “Il Meccanotessile è dei cittadini” (questo nome fu fortemente voluto da Romano Moretti, principale fondatore ed animatore del comitato per significarne l’appartenenza alla città ed ai cittadini), per fermare la cessione del Bene Pubblico e salvaguardare questo luogo nevralgico per tutto il quartiere. Per il Comitato l’ipotesi di vendita era illegittima, sia sotto il profilo urbanistico che sotto quello giuridico: gli immobili erano pervenuti in proprietà al Comune di Firenze come oneri di urbanizzazione “ex Officine Galileo”, per realizzare servizi pubblici di diritto che erano e sono ancora più che mai necessari alla sopravvivenza del Quartiere. Tutta l’area era funzionale all’attuazione degli standard urbanistici, che erano relativi alla grande volumetria già edificata dopo il trasferimento della fabbrica e a compensazione del grande impatto edilizio dell’area.
La forte pressione dei cittadini e del comitato porta alla rinuncia del Sindaco alla vendita e al varo di un nuovo progetto, con la partecipazione attiva del comitato, nel mese di settembre del 2011. Il nuovo progetto prevede un giardino pubblico, un asilo, una ludoteca, una biblioteca, un centro anziani, (posti auto), l’archivio comunale e una piazza coperta e spazi per la documentazione della storia della Galileo. In cambio verrebbero venduti gli ex laboratori, gli ex uffici e lo spazio-mensa della ex Galileo, con destinazione per appartamenti e residenze per studenti.
Ecoló: Così arriviamo ai giorni nostri. Per cosa lotta adesso il comitato?
Arch. Santarelli: vanificato il progetto del centro delle arti contemporanee ma bloccato il processo di vendita ai privati, ottenuto il giardino pubblico adesso il confronto con l’Amministrazione è legato a come garantire i servizi necessari al quartiere come precedentemente argomento e come integrarli con la destinazione del fabbricato principale a due Istituti di eccellenza come l’ISIA E l’INDIRE. Mentre si argomentava di Istituti di eccellenza e servizi un’altra questione è sorta quest’anno quando la Giunta ha deliberato 60 mini alloggi di housing sociale a canone calmierato, chiamati “volano” in quanto provvisori, all’interno di parte dei volumi dell’ex meccanotessile, nello specifico da inserire negli ex uffici ed ex mensa. Il Comitato sta quindi chiedendo all’Amministrazione Comunale come si possa conciliare la necessità di servizi richiesti da 40 anni con un complesso inserimento demografico in un luogo dove ancora mancano spazi aggregativi, culturali, spazi per giovani e anziani. In un approccio multidisciplinare è necessario creare le condizioni per un assorbimento di pressione sociale rendendo l’intervento di edilizia sociale una risorsa anziché un problema. Il comitato ritiene che 60 alloggi volano siano un numero incompatibile con l’area, oltretutto al momento tale progetto sarebbe in sostituzione a quei servizi tanto attesi.
Il prossimo appuntamento è il 14 Dicembre 2021 quando una delegazione del comitato sarà ricevuta dalla
Vicesindaca A. Bettini a Palazzo Vecchio.
Ecoló: Si è parlato di cosa, ma forse è importante anche spendere due parole su “come”. Il progetto su cui si lavora da anni riesce a recepire l’esigenza di un impatto ambientale ridotto ed essere un esempio di edilizia moderna?
Arch. Santarelli: come comitato abbiamo proposto da sempre l’installazione di pannelli fotovoltaici sulla
copertura del fabbricato principale, che si presta a un progetto moderno e sostenibile, ma non è mai stato
recepito perché, ci è stato sempre detto, non gradito alla Sovrintendenza ( l’edificio principale è sottoposto
a vincolo).
Ecoló: Grazie per il tempo che ci hai dedicato!
Per quale futuro del meccanotessile lottare?
Come Ecolò riteniamo che un ecologismo sociale richieda lo studio approfondito dell’impatto del
progetto di alloggi volano, là dove i cittadini lottano da anni per la creazione di servizi mai realizzati.
E’ necessaria una coesistenza tra la necessità di edilizia sociale, i servizi ai cittadini e la memoria storica
del quartiere. E allora perché non partire proprio dal progetto di servizi per analizzare quanti alloggi
volano possono essere compatibili e integrabili? Affinché l’housing sociale sia una risorsa per il
quartiere occorre che sia inserito con equilibrio nel tessuto del quartiere.
Ci preme anche chiarire che una valutazione sul progetto non può prescindere da quali tecnologie l’Amministrazione prevede di usare. Un’area così strategica e nevralgica deve essere esempio per la città di come possa essere sostenibile la riconversione di un ex fabbricato industriale. E’ possibile realizzare qualcosa di molto ambizioso, prevedendo una copertura che produca energia elettrica, stazioni di ricarica per auto elettriche nell’adiacente parcheggio, riuso delle acque meteoriche per l’irrigazione del giardino, pompe di calore geotermiche, impiantistica a risparmio energetico.
Crediamo sia necessario utilizzare questi spazi per dare un segnale di città innovativa che sperimenta sia nel sociale che nel rispetto dell’ambiente. Firenze può fare un salto di qualità e l’ex Meccanotessile è una grande opportunità per tutti, dal Comune ai cittadini.