La mattina del 3 maggio Luana, operaia tessile, termina la sua vita per un incidente mentre lavorava all’orditoio, macchinario utilizzato per distribuire i filati e comporre così il tessuto nella successiva fase di tessitura.
Luana aveva 22 anni, un figlio piccolo, tanti sogni che cercava di portare avanti grazie al lavoro che svolgeva, da circa un anno, nel distretto tessile della provincia di Prato, il più grande d’Europa. Casi come questo “fanno notizia” ma il problema delle morti sul lavoro è quotidiano, anche in settori, come quello della moda che continua a crescere a ritmi importanti e che, soprattutto nell’est asiatico, presenta condizioni di salute e sicurezza e rispetto dei diritti sociali fortemente critiche.
Tutto ciò suscita in noi delle domande, tentativi di capire perché siamo arrivati a questo punto e come se ne può uscire. Abbiamo chiesto qualche impressione a Francesca Rulli, CEO di Process Factory e founder di 4sustainability, marchio che attesta il rispetto di standard di sostenibilità ambientale e sociale nella filiera moda.
Ecoló: Ciao Francesca, grazie per la tua disponibilità. La notizia della morte di Luana d’Orazio ha sconvolto un po’ tutti. Al di là del giudizio del caso specifico che verrà accertato e che non spetta a noi dare, possiamo pensare che sia stata una fatalità? Quanto è diffuso il problema del rispetto delle condizioni di sicurezza nelle lavorazioni tessili?
Francesca Rulli: Per nostra fortuna, la normativa italiana – il Decreto 81/2008, in particolare – è largamente applicata e rispettata. L’aspetto che ci preoccupa è più che altro quello culturale. La norma è presidiata infatti in modo diverso a seconda delle professionalità presenti in azienda: esistono aziende dalla grande responsabilità in cui le nomine sono forti, altamente professionali e quindi anche l’attenzione dell’imprenditore e dei suoi dipendenti sono elevate, perché si investe in formazione e controlli. C’è ancora una quota di aziende, però, in cui questo tema della sicurezza è visto ancora e soltanto sotto il profilo della compliance: metto in ordine “le carte” per sentirmi a posto sul piano formale, ma non investo sulla cultura, sulla formazione, sui controlli, sulle responsabilità… In questi casi, può capitare ciò che si vorrebbe non capitasse mai e che invece è capitato di recente in alcune aziende del settore tessile, come hanno riportato i media. La sfida è riuscire a far in modo che le regole esistenti siano vissute in azienda non come meri adempimenti di legge, ma come una responsabilità e un impegno: in gioco, c’è la sicurezza dei lavoratori.
Ecoló: Quali possono essere le soluzioni per evitare situazioni come queste? Servono più controlli? Considerato anche che le due vittime che ci sono state nel distretto tessile pratese nei primi mesi dell’anno erano poco più che ventenni, serve investire di più nella formazione dei lavoratori?
FR: Io direi proprio di sì, la formazione è fondamentale e i controlli lo sono altrettanto. C’è da diffondere una cultura e un’attenzione a queste tematiche che passa proprio dai comportamenti delle persone, dai controlli dei supervisori o dei capi reparto, dagli aggiornamenti normativi, dalla verifica di macchinari… Tutto ha spesso a che fare con i ritmi di lavoro a cui sono sottoposte le persone, ritmi che portano spesso a trascurare alcuni fattori non irrilevanti di rischi. “Ho sempre fatto così”, “Tanto, cosa vuoi che succeda?”… E la tragedia è lì, in agguato.
Ecoló: Le aziende della filiera sono spesso sotto forte pressione per la richiesta dei grandi marchi di ottenere bassi costi di produzione e lavorazione, questo influenza la capacità di garantire il rispetto delle condizioni di sicurezza e di impatto ambientale per le piccole aziende del settore?
FR: Non possiamo generalizzare perché dipende da committente a committente, ma in linea di massima direi di sì. Ci sono marchi fortemente impegnati anche nel controllo delle loro filiere, ma molti altri che, guardando solo alla leva del profitto e quindi all’abbattimento del prezzo, sottopongono le filiere a una pressione veramente importante. Questo non giustifica, naturalmente, la ricerca del risparmio in laddove c’è in gioco la sicurezza delle persone o la tutela dell’ambiente, ma certo, può essere una causa. I livelli di responsabilità, in questo caso, sono due: del cliente che tira al minimo il prezzo di produzione, ma anche quello dell’azienda che pur di prendere l’ordine e mantenere il livello produttivo prova a risparmiare su temi che sono invece fondamentali per la sostenibilità e il buon andamento del business, nel rispetto dell’uomo e dell’ambiente. È un tema su cui c’è un’attenzione crescente… Noi per primi ci spendiamo ogni giorno per aiutare le imprese della filiera a sistematizzare i controlli, le procedure, gli strumenti più idonei a performare bene nel rispetto dell’ambiente e delle persone. E a crescere integrando etica e business, che poi significa adottare un modello di sviluppo autenticamente sostenibile. Tutto questo si scontra ancora con logiche di mercato fortemente orientate al profitto. Noi spingiamo perché tale paradigma cambi velocemente e la distribuzione del valore, piano piano, cominci a toccare tutte le filiere.
Ecoló: Quello che vediamo in Italia ci tocca da vicino, ma sappiamo bene che in altri paesi del mondo le condizioni di lavoro sono anche peggiori. Cosa ci puoi dire su questo e secondo te il settore come sta affrontando queste problematiche?
FR: Come dicevo, l’Italia è tra le realtà più avanzate sul piano normativo – addirittura un altro pianeta, se il confronto lo facciamo con i paesi in via di sviluppo dove mancano le condizioni minime per parlare di responsabilità sociale, di diritti umani, di uguaglianza, di sicurezza… e quindi anche di macchinari all’avanguardia. Se il tema è poi quello della tutela ambientale, sono tante le aree del mondo in cui il concetto di depurazione o di riduzione delle emissioni in atmosfera si applica solo a poche realtà eccellenti isolate. In Italia no, in Italia il numero di imprese che ha avviato in qualche forma la trasformazione del proprio modello di business verso la sostenibilità – grazie al contesto favorevole, alla lungimiranza dell’imprenditore… – sono sempre più numerose. Ma guai ad abbassare la guardia: ci sono distretti in cui bisogna ancora investire su materie come l’antincendio, la formazione, la cultura dei lavoratori… Resta tanto da fare anche da noi.
Ecoló: Gli standard del commercio internazionale e i requisiti sulle merci possono essere un possibile strumento di controllo? Come mai aspetti di sostenibilità ambientale e sociale non fanno parte di questi standard?
FR: Non siamo arrivati ancora a questo punto, ma ci sono dei segnali incoraggianti. È in corso di definizione, infatti, la due diligence legislation[1], votata a marzo scorso dal Parlamento Europeo e relativa alla due diligence delle imprese in materia di diritti umani e ambiente. Lanciata un anno fa dal commissario UE della giustizia Didier Reynders, l’iniziativa comporterà l’obbligo per i paesi membri di dare evidenza della trasparenza delle filiere, arrivando a monitorarne i requisiti ambientali e sociali, appunto, il rispetto dei diritti umani, della sicurezza, dell’impatto ambientale.
Questo sul fronte normativo. Di iniziative volontarie da parte di molti grandi brand sulle proprie filiere globali possiamo già contarne diverse da anni, ma è chiaro che non potremo assistere a un vero cambio sistemico finché non ci sarà una legge uguale per tutti. La due diligence legislation potrebbe essere un fattore non trascurabile di cambiamento proprio perché interesserà le filiere globali: se l’azienda ha sede in Europa ma si approvvigiona ovunque, nel mondo, dovrà dare evidenza del rispetto dei requisiti ambientali e sociali della filiera da cui si approvvigiona.
Ecoló: Per concludere, cosa è 4sustainability e come, con le vostre attività, cercate di portare quel cambiamento di cui ci hai parlato? Quale prospettiva vedi per i prossimi anni?
FR: 4sustainability è un protocollo, un sistema di implementazione di filiera basato su sei dimensioni di sostenibilità e concepito per supportare l’impresa nella realizzazione di un modello di business sostenibile e quindi nella verifica di tutti i requisiti ambientali e sociali necessari per poterlo definire tale. Partendo da una fotografia iniziale, il protocollo consente di mettere a punto un serie di procedure, regole di implementazione e misurazione relative all’impatto sociale e ambientale del proprio sistema produttivo per dimostrare un miglioramento continuo nel tempo. Al momento, con nostra grande soddisfazione, vediamo che in Italia sono tantissime le aziende che hanno voglia di scommettere su questo e si stanno mettendo in discussione, aziende che, partendo da performance ambientali e sociali già molto buone, vogliono continuare a crescere, a innovare, a cercare soluzioni per ridurre il proprio impatto ambientale e migliorare le condizioni sociali. Dal nostro osservatorio – principalmente italiano, ma con numeri interessanti anche a livello globale – vediamo che questo trend è già in essere e che alcuni grandi nomi della moda stanno facendo da apripista. Pochi, purtroppo, ma volenterosi! Mi riferisco per lo più a gruppi internazionali che hanno dedicato budget e risorse importanti per trainare e formare le filiere mondo, sviluppando sistemi di controllo e in alcuni casi anche di riconoscimento. Noi, con loro, ci diamo da fare sulla filiera perché questo si realizzi e sia monitorato e misurato costantemente, con un sistema trasparente di condivisione dei risultati a marchio 4sustainability.
Un’ultima considerazione voglio farla sul tema dell’educazione alla responsabilità, che negli ultimi 30-40 anni ci siamo persi, troppo occupati a guardare solo al profitto. Fare sostenibilità – evitando incidenti come quello drammatico in cui ha perso la vita Luana – significa invece recuperare i principi della responsabilità: nelle famiglie, nella scuola, in azienda… L’etica nel business nasce da qui, è ciò che porta le imprese (e gli individui) a immaginare un modello operativo diverso che si rivela anche, peraltro, il più efficace sul piano delle performance.
[1] http://www.vita.it/it/article/2021/04/27/governance-societaria-sostenibile-un-passo-avanti/159140/
Abbiamo intervistato Ilaria Masieri, fiorentina, per sette anni cooperante in Palestina oggi responsabile per i progetti in Libano e Palestina della ONG Terre des Hommes Italia.
Ecoló: Ciao Ilaria, ci racconti come è nato il tuo rapporto con la Palestina?
Ilaria Masieri: Sono partita per la Palestina la prima volta nell’estate del 2009, ma la passione per la Palestina è nata molto prima. In parte deriva dalla mia famiglia, i miei genitori erano legati alla battaglia del popolo palestinese e in casa ne parlavamo molto; in parte è dovuta al fatto che all’epoca delle mie superiori era il momento degli accordi di Oslo, della prima Intifada, e quindi di Palestina si parlava molto ovunque. Mi sono appassionata alla questione palestinese e così, quando ho dovuto scegliere l’università, ho scelto di studiare arabo. Mi interessava soprattutto guardare alla storia del Mediterraneo da un’altra prospettiva. Una volta fatta quella scelta da lì la strada è stata tutta in discesa, con l’università, la scuola di cooperazione, e poi la partenza.
Ecoló: Per quanto tempo hai vissuto nei territori e in cosa consisteva il tuo lavoro?
IM: Sono stata lì sette anni, partita come stagista dopo aver fatto un corso a Firenze che prevedeva un periodo di stage. Sono rimasta perché mi hanno offerto un contratto. In quei sette anni ho attraversato un po’ tutti i ruoli che si possono ricoprire in una ONG. Da stagista sono diventata coordinatrice, poi capo-progetto e infine responsabile della delegazione.
Da oltre dieci anni lavoro quasi ininterrottamente con “Terre des Hommes Italia”, che fa parte del movimento internazionale “Terre des Hommes” e si occupa della protezione dei diritti dell’infanzia. In particolare, in Palestina i nostri progetti – essenzialmente finanziati da donatori istituzionali e in piccola parte da donazioni private – si occupano di diritto all’istruzione, alla salute, al gioco e allo sviluppo naturale del bambino. Lavoriamo sia in Cisgiordania che a Gaza, e negli ultimi anni soprattutto a Gerusalemme Est.
Ecoló: La questione palestinese è progressivamente scomparsa sui mezzi di comunicazione nel corso degli anni. Qual è secondo te il motivo?
IM: Sicuramente conta il fatto che in generale si tende a parlare delle crisi umanitarie solo nel momento di massima emergenza. Per questa ragione la questione palestinese, che ha una storia molto antica, fa meno notizia e ha meno presa sull’opinione pubblica in quanto percepita come irrisolvibile. Come se fosse ormai un problema intrinseco al contesto mediorientale, dove si intrecciano grandi interessi internazionali e che pur rimanendo una polveriera risulta una matassa di cui è difficile trovare il bandolo. Ultimamente si è dato spazio nei media alle decisioni del Governo statunitense di trasferire l’ambasciata a Gerusalemme e di non considerare più illegali le colonie israeliane in Cisgiordania, senza dare altrettanto spazio alle conseguenze di decisioni sulla popolazione palestinese, pertanto l’opinione pubblica può convenire che si tratti di decisioni legittime proprio perché è poco informata.
Infine esiste, e si vede anche in queste settimane nel dibattito pubblico italiano, una confusione sostanziale tra lo stato di Israele, la questione palestinese, l’occupazione della Palestina e il problema dell’antisemitismo. Per questo poi chiunque provi a prendere una posizione pubblica in favore della battaglia del popolo palestinese rischia di venir tacciato di antisemitismo. Questo sicuramente scoraggia.
Ecoló: Qual è oggi la situazione nella striscia di Gaza e in Cisgiordania?
IM: La situazione attuale, purtroppo in costante peggioramento, è quella di una crisi protratta. Non si parla neanche più di emergenza, perché l’emergenza prevede che ci sia un momento di altissimo bisogno alternato a momenti di stabilità. E qui i momenti di stabilità dal punto di vista economico e sociale non esistono più. La situazione è in costante peggioramento, con momenti di gravissima crisi, che sono quelli in cui essenzialmente noi arriviamo. È una condizione che sicuramente nell’ultimo biennio è peggiorata, soprattutto a causa della politica estera degli Stati Uniti, in particolare delle dichiarazioni e dei gesti che si sono susseguiti da quando Trump è diventato presidente. Di fatto queste hanno dato via libera al governo israeliano su Gerusalemme, sulle alture del Golan e recentemente anche sulla valle del Giordano e sulla Cisgiordania tutta. Per questa ragione si assiste a una colonizzazione feroce e in costante aumento, nonché alla sistematizzazione e ormai istituzionalizzazione della violazione dei diritti della popolazione palestinese. Ci sono comunque delle aree dove la crisi è particolarmente acuta, in questo periodo (ma ormai da molti anni) la Striscia di Gaza e Gerusalemme Est. Per ragioni molto diverse ma con conseguenze purtroppo simili.
Ecoló: Se un ultimo momento di speranza si era avuto con i discorsi di Obama al Cairo, il tentativo fatto all’epoca è sicuramente fallito. Tu come te lo spieghi?
IM: Io ne do una lettura molto semplice, ovvero che il governo israeliano non ha interesse a cercare la pace con i palestinesi. Il mantenimento dello status quo, che ormai nessuno sa neanche dire da dove provenga (di sicuro non da Oslo (accordi firmati nel 1993-95), non da Camp David (colloqui di pace svolti nel 2000), non dalle posizioni pubbliche prese dall’Unione Europea o dagli Stati Uniti, bensì da una situazione di stallo politico), favorisce essenzialmente gli interessi israeliani.
Se Israeliani e Palestinesi si dovessero seriamente sedere a un tavolo delle trattative, Israele in quanto potenza occupante e di fatto vincitrice (è un dato di fatto se lo si guarda in termini di occupazione di territorio, economia, potere, conformazione interna della società e dello stato) dovrebbe affrontare tre grandi nodi irrisolti che la questione palestinese si porta dietro fin da Oslo. Questi sono essenzialmente il problema di Gerusalemme, delle colonie, e del diritto al rientro dei rifugiati palestinesi che vivono fuori dalla Palestina. Su queste cose Israele non ha alcun tipo di interesse a fare concessioni.
I Palestinesi della diaspora non entrano in Israele, e non c’è modo neanche da parte della comunità internazionale di forzare la mano al diritto di uno stato di non concedere visti d’ingresso sul proprio territorio a cittadini stranieri. Sulla questione di Gerusalemme, di fatto Israele la considera come propria capitale fin dal 1980, e ha ricevuto su questo un forte endorsement da parte di Trump. Anche se il suo discorso non ha appieno rispecchiato ciò che Israele avrebbe voluto, è stato un messaggio forte e di fatto Gerusalemme sta venendo colonizzata quotidianamente. Basti pensare che ormai a Gerusalemme Est ci sono trecentomila abitanti palestinesi e duecentomila coloni israeliani. La questione delle colonie è altrettanto impossibile da affrontare, ma senza affrontarla è impossibile pensare alla creazione di uno stato palestinese. È anche vero che non esiste un fronte comune palestinese, e non esiste alcuna forma di alleanza che possa farsi portavoce delle istanze palestinesi – come è stato in passato l’Egitto di Nasser o in minima parte l’Iraq di Saddam Hussein. Il mondo arabo è fortemente diviso al suo interno, proprio su interessi che riguardano il Medioriente.
Ecoló: Le responsabilità del governo Israeliano e statunitense sono abbastanza chiare da quello che ci racconti. Ma pensi che ci siano anche responsabilità da parte di altri attori che possono essere disinteressati a una soluzione pacifica?
IM: Assolutamente sì, il disinteresse è direi la cifra generale, ed è sicuramente condiviso anche da tutto il mondo arabo. Vari attori sono interessati a mantenere l’equilibrio esistente nell’area. E poì c’è la grande responsabilità politica di Fath e Hamas, le divisioni interne alla leadership palestinese rendono quasi impossibile trovare delle istanze comuni.
Ecoló: Tu pensi ci sia qualcosa che possiamo fare, partendo dall’Europa e dall’Italia per arrivare a livello comunitario o individuale? C’è qualcosa che si può fare per il popolo palestinese, oltre a condividere un post sui social?
IM: Io credo che si possa fare moltissimo. Per chi se lo può permettere credo valga davvero la pena andare a vedere con i propri occhi come stanno le cose, perché è una situazione in cui le ingiustizie e le violazioni dei diritti delle persone sono così evidenti da risvegliare immediatamente le nostre coscienze.
Poi ci sono moltissimi gesti che ognuno può fare. Innanzitutto, è importante informarsi e parlarne, partecipare a iniziative, cercare di fare attenzione nel nostro piccolo alle scelte quotidiane, come l’acquisto di prodotti o i messaggi che condividiamo. Questo vale anche per quanto riguarda i nostri ruoli professionali, e penso agli insegnanti, alle scuole, a chi ha accesso alla sfera politica.
Credo che l’Italia possa e debba fare tantissimo in quanto paese e in quanto membro dell’Unione Europea. Si tratta soprattutto di fare rispettare il diritto internazionale, perché non bisogna inventare niente affinché i palestinesi e le palestinesi, e in particolar modo bambini e bambine, vedano riconosciuti i propri diritti essenziali – a partire dal diritto alla vita, all’espressione, allo studio. È tutto già a disposizione: ci sono le convenzioni, i trattati, le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU; ciò che serve è che il nostro governo, a partire dai governi locali, si prenda la responsabilità di fare rispettare queste convenzioni. Sono convinta che dal momento in cui si abdica al proprio dovere di far rispettare le leggi internazionali – anche se lontano da noi – ciò che stiamo dando via sono non solo i diritti altrui, ma anche i nostri.
Questo è valido anche da un punto di vista ambientale. Leggevo stamattina del gravissimo problema di smaltimento dei rifiuti all’interno della Striscia di Gaza. A Gaza non ci sono fognature, perché sono state bombardate, i materiali per ripararle non possono entrare in quanto soggetti a un possibile doppio uso (secondo le norme imposte da Israele potrebbero essere utilizzati per fabbricare armi), le tre discariche di Gaza sono piene e non è quindi possibile in nessun modo smaltirli o sistemarli in maniera razionale, e i rifiuti non possono uscire dalla Striscia di Gaza perché Israele non lo consente. Ecco, Gaza è sul Mar Mediterraneo e si parla di duemila tonnellate di rifiuti indifferenziati al giorno. Ci riguarda tutti, perché è l’altra sponda del Mediterraneo. Non è un viaggio lungo, né con la mente né fisicamente. Sono i nostri vicini di casa.
Ecoló: Grazie Ilaria per il tuo tempo e buon lavoro.
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La foto di copertina è gentile concessione di Alessio Romizzi.
Ecoló ha presentato alcune proposte per il nuovo Piano Operativo Comunale (POC) di Sesto Fiorentino, che avrà il compito di individuare gli interventi da realizzare nei prossimi cinque anni a livello urbanistico. A questo link potete scaricare il file con tutte le nostre proposte, che possono essere riassunte in quattro linee di azione: il centro cittadino, Sesto “sotto il treno”, il sistema dei parchi, l’Osmannoro.
Il centro cittadino:
Sesto è una città relativamente giovane, e fino a due secoli fa non aveva un centro urbano definito, bensì si sviluppava attraverso una moltitudine di micro-borghi. La proposta di Ecolò coniuga tradizione e innovazione, e punta a valorizzare gli spazi pubblici, seguendo il positivo e fortunato caso di piazza IV Novembre, divenuta piazza popolare e fruita dalla cittadinanza. Oltre al centro, tutti i quartieri cosiddetti periferici (Neto, Quinto Basso, l’area Sud Ferrovia -Padule e Zambra- etc.), dove è prevalente l’edilizia residenziale ma c’è anche un’importante rete di spazi verdi, devono essere ripensati e integrati nel tessuto urbano. Proposte operative:
Sesto “sotto il treno”:
L’area “sotto il treno” è sicuramente fra le più interessanti dal punto di vista urbanistico, ma anche fra le più difficili. I quartieri di Padule, San Lorenzo, Zambra, fino ai più recenti insediamenti sorti lungo via Pasolini sono fra i meno compiuti del disegno urbano di Sesto. Questi quartieri meritano di essere dotati di servizi e spazi adeguati, e il modo di farlo secondo noi c’è. Proposte operative:
Il sistema dei parchi:
Per il sistema dei parchi, che comprende la Piana, le Colline e Monte Morello, Ecolò presenta numerosi proposte operative, che vanno dalla ridefinizione e tutela delle aree agricole intercluse e di margine alla costituzione di un Distretto Biologico integrato, in collaborazione con il comune di Calenzano e revisione del progetto di parco delle Colline e sua definizione in Parco Agricolo.
Tutto ciò dovrà essere adeguatamente monitorato da un apposito Sportello Verde multifunzionale, struttura tecnica che immaginiamo sentinella e “tutor” per gli abitanti del territorio per i temi ambientali, rurali, energetici e forestali. Abbiamo inoltre proposto la realizzazione di un nuovo ambiente umido nella porzione sud della Piana sestese ad ulteriore tutela ed accrescimento della biodiversità.
L’Osmannoro:
Tra le aree maggiormente problematiche vi è certamente quella industriale dell’Osmannoro, dove l’eccessiva crescita del tessuto urbano-industriale ha causato notevoli danni ambientali e sociali. La nostra proposta punta alla creazione di un distretto industriale sostenibile, facendo dell’Osmannoro il fiore all’occhiello della realtà economica della piana. Proposte operative:
Auspichiamo che le nostre proposte operative vengano accolte e trovino il giusto spazio nell’azione di governo del territorio. Se vogliamo portare avanti una reale transizione ecologica sono necessarie scelte di pianificazione urbana che segnino un cambio di passo. La città va restituita al territorio, un unico organismo in cui quartieri urbani, boschi, campagne e aree naturali devono essere progettati insieme per poter respirare e crescere.
Le recenti indagini della Dda di Firenze su sospette connivenze tra ‘ndrangheta, tessuto economico e politico hanno lambito le istituzioni regionali della Toscana (Giunta, Consiglio, Direzione Ambiente ed Energia), intaccando la fiducia dei cittadini verso queste, i propri rappresentanti e la trasparenza dei processi decisionali.
Per recuperare un rapporto di fiducia tra politica e cittadini e fare muro contro i tentativi di infiltrazione criminale, bisogna regolamentare le attività di lobby/rappresentanza di interessi particolari presso le istituzioni, di per sé componente legittima dei sistemi democratici, offrendo così ai cittadini e ad altri gruppi di interesse la possibilità di monitorare tali attività e l’operato dei decisori pubblici, al riparo da ogni ambiguità e opacità.
È vero che la Toscana è stata precursore nell’ambito della normativa sulla trasparenza dell’attività politica e amministrativa, in particolare con la Legge regionale 18 gennaio 2002, n. 5, ma l’esperienza applicativa ne ha rese evidenti le lacune.
Perciò rivolgiamo un appello al Presidente, ai vicepresidenti e ai Consiglieri regionali tutti, affinché il Consiglio modifichi la Legge regionale 18 gennaio 2002, n. 5 per regolare con maggiore trasparenza e puntualità i rapporti istituzionali con i gruppi di pressione/lobby, in particolare prevedendo l’obbligo per i Consiglieri regionali, gli Assessori regionali, i Dirigenti della macchina amministrativa e i membri del relativo staff di rendere pubblici i dettagli degli incontri con organizzazioni o liberi professionisti nell’esercizio delle proprie funzioni, e la tenuta di un registro pubblico degli accessi alle sedi istituzionali.
Solo una piena presa di coscienza e l’immediata capacità di reazione da parte di cittadini e istituzioni potranno mettere al riparo la nostra Toscana da infiltrazioni malavitose e pressioni illecite su economia e politica. Non possiamo rimandare neanche di un minuto.
Da un’idea di Volt Toscana, col sostegno di Ecolobby e di Ecolò.
Potete firmare l’appello a questo link.
La raccolta firme è aperta all’adesione di tutte le realtà politiche e associative e a tutti i privati cittadini che hanno a cuore la nostra Regione. Grazie