Spauracchio elettorale della destra, proposta in modo spesso non convinto dalla sinistra l’imposta patrimoniale rimane un tabù per il sistema fiscale italiano. Per cercare di capire e andare oltre gli slogan abbiamo intervistato Letizia Ravagli, ricercatrice dell’IRPET e fra gli autori del recente studio “È giunto il momento di una patrimoniale?”
Ecoló: Ciao Letizia, grazie per la tua disponibilità. La patrimoniale è spesso usata come spauracchio dalla destra, talvolta proposta, con poca convinzione dalla sinistra, la “tassa sui ricchi” rimane per tanti un oggetto misterioso. Ci puoi per prima cosa spiegare cosa si intende veramente quando si parla di “imposta patrimoniale”?
Letizia Ravagli: Una patrimoniale è un prelievo imposto sul possesso di patrimonio. Può gravare su un singolo cespite, come una casa o un deposito bancario, o sull’intero patrimonio di un individuo o di una famiglia. Può essere proporzionale o progressiva rispetto al valore del patrimonio, di natura ricorrente o straordinaria.
Ecoló: Qual è la logica economica che giustifica questo prelievo?
LR: Dal punto di vista economico, l’imposizione di una patrimoniale è giustificabile da ragioni di equità. L’imposta sul patrimonio è, infatti, un modo per ridurre la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza tra gli individui. Nelle fasi di grave crisi economica, come quella che stiamo vivendo dopo l’insorgere della pandemia da Covid-19, una patrimoniale può essere giustificata come soluzione di emergenza per reperire risorse pubbliche.
Ecoló: Alcuni dicono che la patrimoniale è ingiusta perché i risparmi sono reddito non speso e il reddito è già stato tassato al momento in cui viene percepito. Sei d’accordo?
LR: Una patrimoniale genera una doppia imposizione, ma questo non significa che sia ingiusta. Nei paesi in cui la tassazione sul reddito personale non redistribuisce adeguatamente le risorse dai ricchi ai poveri e dove le imposte sui redditi da capitale sono basse una patrimoniale può rendere l’intero sistema fiscale più equo.
Ecoló: In Italia è mai esistita una qualche forma di prelievo sui patrimoni? Cosa succede negli altri paese del mondo?
LR: In Italia esistono molteplici imposte sul patrimonio, tra le quali l’IMU-l’imposta municipale sugli immobili- e l’imposta di bollo su depositi, conti correnti e attività finanziarie. Complessivamente, generano un gettito di circa 43,6 miliardi di euro, pari al 2,5% del PIL. Non esiste, invece, un’ imposta sulla ricchezza totale netta individuale. Non va molto diversamente negli altri paesi europei che impongono patrimoniali sui singoli cespiti ma solo in tre casi- Norvegia, Spagna e Svizzera- prevedono un’imposta sulla ricchezza totale netta individuale.
Ecoló: La proposta di patrimoniale è stata spesso avanzata per porre un freno alla crescente disuguaglianza. Ci puoi dare un’idea di come sia realmente cambiata la disuguaglianza negli ultimi anni in Italia e in Toscana in particolare?
LR: Quello che abbiamo più volte osservato nei nostri studi è che, in Italia, la crisi economica del 2008 ha avuto effetti diseguali sui redditi delle famiglie, colpendo le più povere in misura maggiore rispetto alle più ricche. La fase di leggera ripresa degli ultimi anni, prima della pandemia, all’opposto ha favorito più i ricchi che i poveri. La disuguaglianza è, quindi, cresciuta e questo anche in Toscana, una regione che da sempre si è contraddistinta per livelli di disuguaglianza contenuti.
Ecoló: Nello studio che avete da poco pubblicato valutate più di un’ipotesi di imposta patrimoniale in che modo differiscono l’una dall’altra? In come modo sono considerati gli immobili e in particolare la “prima casa”?
LR: Ne abbiamo valutate tre. Due sono state proposte in seguito alla crisi economica generata dalla pandemia. Quella di Guido Ortona, professore di politica economica dell’Università del Piemonte Orientale, prevede un aumento dell’attuale imposta di bollo sulle attività finanziarie ed una sua rimodulazione in una prima aliquota attorno allo 0,05% ed una seconda dell’1% per la parte più ricca della popolazione. La proposta dei parlamentari Orfini e Fratoianni, presentata con un emendamento, non approvato, alla legge di bilancio per il 2021, è un’imposta sulla ricchezza complessiva netta, inclusiva del valore della prima casa, che prevede un’aliquota minima dello 0,2% fino ad arrivare al 2% oltre i 50 milioni di euro. Prima della pandemia, l’economista Thomas Piketty aveva proposto un’imposta patrimoniale sulla ricchezza globale con un’aliquota dell’1% tra 1 milione e 5 milioni di euro e del 2% per livelli superiori.
Ecoló: Quali sarebbero gli effetti sulla diseguaglianza di queste tre alternative?
LR: Secondo le nostre simulazioni, condotte attraverso il modello di micro simulazione fiscale dell’Irpet Microreg, la proposta di Ortona genererebbe un gettito di circa 28 miliardi, a cui contribuirebbe meno della metà delle famiglie italiane, con una esazione media di 2.194 euro. La proposta di Orfini e Fratoianni ricadrebbe su una più bassa proporzione di famiglie, il 18%, che pagherebbero in media 4.221 euro, e raccoglierebbe 19 miliardi. L’imposta proposta da Piketty sarebbe molto più concentrata sui ricchi. Solo il 6,6% delle famiglie italiane la pagherebbe, con un’imposta media di 16.905 euro all’anno, con gettito attorno ai 29 miliardi.
Ecoló: Al di là dell’effetto sulla diseguaglianza un’imposta di questo tipo ha altri effetti, più o meno desiderabili? Pensiamo ad esempio all’incentivo al risparmio o al tema dell’uguaglianza delle opportunità?
LR: Tra gli effetti desiderabili c’è sicuramente sull’eguaglianza delle opportunità, soprattutto se si pensa alle patrimoniali imposte sulle successioni di ricchezza di generazione in generazione. D’altra parte, molti sono anche i “contro” all’introduzione di una patrimoniale, dalla distorsione sulle decisioni di risparmio degli individui, ai vincoli di liquidità dei contribuenti. Un’istituzione non coordinata, almeno a livello europeo, rischierebbe una fuga dei capitali all’estero e l’espatrio fiscale.
Ecoló: Dal vostro studio sembra che la vostra preferenza sia per un’imposta poco più che simbolica. Ma allora quali strumenti si possono usare per combattere la disuguaglianza se la patrimoniale non è efficace allo scopo?
LR: Una patrimoniale progressiva applicata alle grandi ricchezza sarebbe senz’altro giusta per ragioni di equità. Riteniamo però difficile che possa, da sola, risolvere il problema della disuguaglianza e, soprattutto, quello della tenuta dei conti pubblici. Per combattere la disuguaglianza, oltre alla patrimoniale, tutto il sistema di imposte e benefici dovrebbe essere riformato, dall’Irpef ai trasferimenti alle famiglie. Prima ancora di questo, servono maggiori tutele per i lavoratori svantaggiati e investimenti per una vera ripresa del ciclo economico.
Ecoló: Grazie per la tua disponibilità Letizia.
Paolo Pinzuti è un ciclista, un viaggiatore, ma di lavoro fa l’editore e si occupa di marketing e di comunicazione per Bikeitalia.it. Era stato anche candidato come indipendente nelle liste di Europa Verde alle ultime elezioni europee. L’abbiamo intervistato.
Ecoló: Ciao Paolo, grazie per la tua disponibilità per questa intervista. Ci racconti come hai fatto a far diventare la bicicletta il tuo lavoro?
Paolo Pinzuti. Nel 2011 io e Pinar, mia moglie, abbiamo lasciato il lavoro e siamo partiti per un viaggio in bicicletta di 4 mesi in sud America. Con bici e tenda, abbiamo girato per l’Argentina, il Cile, la Bolivia e il Perù. Per raccontare questa esperienza ho aperto un blog. Finito il viaggio ho continuato a scrivere di bici, cicloturismo, ciclabilità urbana, sicurezza sul mio blog, che nel 2013 è diventato una testata giornalistica, bikeitalia.it. La gestione della rivista ha reso necessario l’apertura di una società, Bikenomist srl, che oggi dà lavoro a 8 persone e fa comunicazione, organizza corsi di formazione e fa consulenza sulla mobilità urbana e sul cicloturismo.
Ecoló. La bici, oltre ad essere il tuo lavoro, è ancora una passione? Riesci a goderti un’escursione o un viaggio? Quest’estate ad esempio dove ti ha portato la tua bicicletta?
PP. La bici per me è parte integrante della vita, come lo sono i pantaloni o le scarpe. Pedalare, oltre a essere una forma di trasporto estremamente efficiente, è anche piacevole per lo spirito e per il fisico e per questo non vi rinuncerei mai. Quest’estate mi sono concesso delle pause di tre giorni con dei bei giri in bicicletta sulle Dolomiti, in alta Val di Susa e sulla Francigena in Toscana.
Ecoló. Questa primavera sei stato candidato alle elezioni europee per Europa Verde. Come è successo?
PP. Nel suo ultimo discorso da presidente degli USA, Obama disse una cosa che mi ha colpito molto: “se non vi piacciono i vostri rappresentanti nelle istituzioni è inutile lamentarsi: candidatevi e diventate voi i rappresentanti nelle istituzioni.“. Nauseato dal basso livello della politica italiana e dalla mancanza di un’agenda politica ambientalista, ho pensato che fosse mia responsabilità provarci e dare il mio contributo. Ho presentato la mia disponibilità alla candidatura, che è stata accettata.
Ecoló. Qual è il tuo bilancio della tua avventura elettorale? Lo rifaresti?
PP. 1.500 preferenze non sono molte, ma per un outsider della politica non sono da buttare via. Il bilancio comunque per me è positivo perché ho avuto modo di incontrare molte persone bellissime che hanno voglia di fare “cose” per raddrizzare la politica, il mondo e l’ambiente. Lo rifarei a occhi chiusi perché è stata una delle esperienze più intense della mia vita. Ma non so se lo rifarò.
Ecoló. Secondo te cosa manca al movimento ecologista italiano per poter diventare efficace nell’azione come i partiti verdi della Germania o di altri paesi europei?
PP. È una domanda difficile a cui ho pensato più volte e credo che non esista una risposta univoca perché è un insieme di fattori. Credo che il peccato originale sia una sorta di intellettualismo di fondo che parla (giustamente) di ambiente, ma che poi non è presente sul territorio per “fare” ambiente in modo coerente e continuativo facendosi conoscere dalla “base” coinvolgendola e includendola.
Ecoló. Torniamo alla bici, qual è il singolo intervento, in qualche città italiana, che suggeriresti come esempio virtuoso da imitare per favorire gli spostamenti in bici?
PP. Le persone vanno in bicicletta quando si trovano in un ambiente sicuro e una città è sicura per chi va in bici quando non si corre il rischio di essere investiti dall’automobilista distratto o incosciente di turno. Per questo occorre limitare la velocità d’uso delle auto, ma anche il suo utilizzo. Se ci pensiamo, le piste ciclabili altro non sono che pezzi di strada che sono stati interdetti alle auto. La moderazione del traffico è la chiave. E se vuoi un esempio, Reggio Emilia è più che calzante.
Ecoló. Grazie per il tuo tempo, buona strada!
Alle forze politiche,
Al Goveno,
Con la presente siamo a ricordarvi che non abbiamo più tempo.
La svolta ecologica del sistema economico, della mobilità, della produzione e del consumo, deve essere attuata adesso.
L’Italia è gravemente in ritardo e le azioni di questa legislatura saranno decisive.
Per fare queste cose, non c’è niente di nuovo da inventare.
Serve mettere in atto le proposte e le soluzioni che arrivano dalla comunità scientifica.
Ascoltare figure autorevoli, quali Annalisa Corrado, Daniela Ducato, Sergio Ferraris, Luca Mercalli, Gianni Silvestrini e molti altri e molte altre.
Collaborare con realtà della società civile che da anni spingono verso il cambiamento, come ASviS, Legambiente, Greenpeace, WWF, Lipu, QualeEnergia, Coordinamento Free, Italia Solare, Anev, FIAB, Forum Disuguaglianze e Diversità, le ragazze e i ragazzi di Fridays For Future ed Exctinction Rebellion.
Ci aspettiamo che facciate sul serio, stavolta.
Confidando in una vostra seria presa in considerazione e risposta,
porgiamo cordiali saluti.
Vi invitiamo a copiare e incollare questo messaggio e inviarlo ai presidenti dei gruppi parlamentari che sostengono la maggioranza:
Camera
GELMINI_M@CAMERA.IT (Forza Italia)
BOSCHI_M@CAMERA.IT (Italia Viva)
MOLINARI_R@CAMERA.IT (Lega)
FORNARO_F@CAMERA.IT (LeU)
CRIPPA_D@CAMERA.IT (5S)
DELRIO_G@CAMERA.IT (PD)
SCHULLIAN_M@CAMERA.IT (Misto)
Senato
annamaria.bernini@senato.it (Forza Italia)
davide.faraone@senato.it (Italia Viva)
massimiliano.romeo@senato.it (Lega)
andrea.marcucci@senato.it (PD)
julia.unterberger@senato.it (Autonomie)
loredana.depetris@senato.it (Misto)
I cambiamenti climatici e il conseguente aumento delle temperature provocheranno più frequenti e intense stagioni secche in tutto il mondo, rendendo il problema della scarsità idrica pervasivo.
In appena due decenni la quantità d’acqua potabile disponibile pro-capite è diminuita di circa il 20%, secondo l’ultimo rapporto annuale della FAO “The State of Food and Agriculture”. Le Nazioni Unite stimano che oltre due miliardi di persone vivono in Paesi “sottoposti a un forte stress idrico”, mentre quasi due terzi della popolazione mondiale deve affrontare gravi carenze d’acqua per almeno un mese all’anno. Inoltre, l’UNICEF prevede che, “entro il 2040, un bambino su quattro – circa 600 milioni di minori in tutto – vivrà in aree sottoposte a stress idrico estremamente elevato”. Siccità e fenomeni meteorologici estremi colpiscono in modo sproporzionato i più vulnerabili e, per larga parte, sono conseguenza dei cambiamenti climatici in atto per i quali i paesi più ricchi hanno le maggiori responsabilità.
Questi segnali fanno vedere la scarsità della risorsa acqua sempre più frequentemente come un rischio economico, alimentando gli appetiti del mercato al punto che, il Cme Group, la più grande piazza finanziaria dei contratti a termine del mondo, in collaborazione con il Nasdaq, ha annunciato la creazione del primo future sul mondo sull’acqua.
Ma cosa sono i Futures? Un contratto future è uno strumento mediante il quale acquirente e venditore si impegnano a scambiarsi una determinata quantità di una attività (detta sottostante) a un prezzo prefissato e ad una data futura prestabilita. Questo contratto può essere poi scambiato sui mercati regolamentati.
In pratica, un future nasce nel momento in cui qualcuno è interessato a predefinire il prezzo di un bene a causa delle variabili che tendono a renderlo imprevedibile. In California l’acqua è un bene molto appetibile per prodotti finanziari in quanto è una risorsa essenziale e soggetta all’impatto incisivo dei cambiamenti climatici: siccità brutali, alto numero di incendi e precipitazioni estreme. Basti pensare che il 40% dell’acqua consumata in California è destinata all’irrigazione, con costi molto elevati specie per alcune colture, come quella delle mandorle.
Da qui la nascita dei primi futures sull’acqua, proposti in linea teorica come strumento di risk management, per aiutare le municipalità, le aziende agricole e le imprese industriali a proteggersi dai rischi economici legati alla carenza idrica ma che già mostra ambizioni diverse.
In California il future sull’acqua debutterà nel quarto trimestre, sulla piattaforma Globex con sottostante il Nasdaq Veles California-Water Index per un mercato da 1,1 miliardi di dollari.
Sebbene sia stato progettato per il mercato californiano, il gruppo statunitense vuole espanderne il modello. “Con quasi due terzi della popolazione mondiale che dovrebbe affrontare la scarsità d’acqua entro il 2025, questa rappresenta un rischio crescente per le imprese e le comunità di tutto il mondo”, ha infatti spiegato Tim McCourt, responsabile Cme Group degli indici azionari e dei prodotti di investimento.
La situazione in Italia. Nel nostro paese la gestione della risorsa idrica è disciplinata da ARERA, che ne regola anche le tariffe di vendita, con il nuovo Metodo Tariffario Idrico valido per il periodo 2020-2023. Questo nasce nel segno del Water Service Divide e prevede l’efficientamento dei costi operativi e delle gestioni, la valorizzazione della sostenibilità ambientale anche attraverso il Piano per le Opere Strategiche e gli incentivi agli strumenti di misura dei consumi, per aumentare la consapevolezza dei cittadini. Il Metodo premia l’efficienza energetica e prevede incentivi per il risparmio e il riuso delle acque, nell’ottica di un’economia circolare.
Tutto ciò comporta che, rispetto al caso californiano, non ci possa essere un soggetto con interesse di mercato o di manovre speculative, in quanto il prezzo è regolato e non è possibile stipulare prezzi differenti in base alla disponibilità della risorsa.
Inoltre, ad oggi il sistema italiano prevede una gestione dell’acqua in cui la matrice pubblica è prevalente, considerando società a completa gestione pubblica, miste o gestite direttamente dall’ente locale[1] e che, in seguito alla vittoria del sì referendum di giugno 2011:
Difatti, nella realtà, poco è cambiato a seguito del referendum, che avrebbe dovuto portare ad una gestione effettivamente pubblica, ma ad oggi non è così! (maggiori informazioni qui).
Nonostante tutto ciò, pensiamo sia giusto chiedersi se è davvero così remoto che anche in Italia e in Europa non possa figurarsi uno scenario di scarsità di risorsa idrica tale da innescare la richiesta di prodotti finanziari quali i futures, considerando in particolare la scarsa considerazione che i decisori politici hanno dei cambiamenti climatici.
E a livello globale? Dove sono già in atto politiche di water grabbing, ossia di accaparramento della risorsa idrica, i future sull’acqua potranno essere parte del problema?
Per provare a rispondere a queste domande ne abbiamo parlato con Marirosa Iannelli, presidente del Water Grabbing Observatory, specializzata in cooperazione internazionale e water management e co-autrice del libro “Water Grabbing, Le guerre nascoste per l’acqua nel XXI secolo“.
Ecoló: Ciao Marirosa, grazie per la disponibilità a rispondere alle nostre domande. Per prima cosa vorremmo chiederti di cosa ti occupi esattamente.
Marirosa Iannelli: Grazie a voi per questa intervista! Da circa 10 anni lavoro nel settore della cooperazione internazionale, collaborando con organizzazioni non governative come project manager di progetti ambientali. Attualmente lavoro con Amref Health Africa, storica ong africana e con Italian Climate Network, coordinando progetti di educazione, comunicazione e advocacy climatica. Circa 3 anni fa ho fondato insieme al giornalista e geografo Emanuele Bompan il Water Grabbing Observatory, per documentare casi di accaparramento idrico, di violazione dei diritti umani e ambientali in tutto il mondo…e molto, molto, altro.
Ecoló: Il termine “grabbing” tendiamo ad associarlo agli acquisti di terre ma nel tuo libro ci racconti di quanto si stia estendendo all’acqua. In che misura questo è un fenomeno che dovrebbe preoccupare anche noi?
MI: Terra e acqua sono due risorse strettamente interconnesse: land e water grabbing infatti spesso e volentieri vanno di pari passo, ma nel libro abbiamo posto l’accento in particolare sulla gestione delle risorse idriche. “L’acqua” è un tema molto ampio: dalla privatizzazione, alla scarsità idrica dovuta ai cambiamenti climatici, dalla costruzione di mega impianti idroelettrici molto impattanti sugli ecosistemi all’inquinamento o sovra sfruttamento causato dall’estrazione mineraria. Ogni qual volta che non si fanno i conti con i diritti della natura e delle persone, depauperando territori e gravando sulla vita di comunità e popolazioni più a rischio, possiamo parlare di grabbing. Ovviamente con criticità e conseguenze molto diverse a seconda dell’area del mondo, ma la dinamica di fondo è la stessa.
Ecoló: Quali strumenti ci sono per contrastare il water grabbing? Esistono esempi virtuosi di interventi che hanno migliorato la situazione?
MI: In termini molto concreti, a mio avviso l’accaparramento idrico può essere contrastato in primis riconoscendo l’acqua come bene comune e come diritto umano. Questa consapevolezza passa attraverso un riconoscimento giuridico e politico che tuteli realmente questa risorsa in quanto tale e non come merce da quotare in borsa. Una volta assunto tutto ciò, si può davvero lavorare per una gestione sostenibile e partecipata dei sistemi idrici: mi piace citare tra gli esempi virtuosi molti dei comuni francesi, che in un paese che ha le più grandi multinazionali dell’acqua in bottiglia e gestori privati (Veolia, Suez,etc), hanno deciso di “ri-municipalizzarsi” cioè tornare ad una gestione totalmente pubblica dell’acqua, con grossi benefici sia per l’ambiente che per i cittadini. Questi modelli di piccoli, medi e grandi comuni, possono essere presi ad esempio anche in Italia, se solo riuscissimo a fare una vera transizione ecologica della gestione dell’acqua.
Ecoló: Si è parlato di pericolo di speculazione e mercificazione di un bene vitale, dal tuo punto di vista, a livello globale la notizia sui primi future sull’acqua quanto ti preoccupa? a cosa può portare?
MI: Sono molto preoccupata. A oltre 10 anni dalla risoluzione delle Nazioni Unite sul diritto umano all’acqua e ai servizi igienico-sanitari, nonostante l’enorme lavoro di associazioni, movimenti, cittadini in tutto il mondo, non c’è ancora sufficiente consapevolezza sull’urgenza di tutelare la risorsa idrica in quanto bene comune. Questa consapevolezza necessita ormai di un vero lavoro congiunto tra giurisprudenza, scienza, politica ed economia. In uno scenario (presente e) futuro in cui i cambiamenti climatici avranno un impatto sempre maggiore sulle nostre vite, non possiamo più permetterci di ignorare il tema dell’acqua. Temo soprattutto un aumento dei conflitti in aree del mondo già sensibili e colpite sia da siccità che da una cattiva gestione delle risorse, e temo un forte aumento delle disparità sociali.
Ecoló: A livello nazionale invece come siamo messi sulla gestione della risorsa acqua? ci sono fenomeni di accaparramento anche da noi?
MI: Sicuramente in Italia non abbiamo la stessa situazione di comunità che ogni giorno fanno i conti con la necessità di camminare 30 km per raggiungere la prima fonte d’acqua. Ma questo scenario, che ci appare così lontano dalla nostra quotidianità, dovrebbe farci riflettere su quanto poter aprire ogni mattina il rubinetto di casa sia quasi “un lusso” che potremo non permetterci più. Per esempio già nell’estate del 2017 si è “sfiorata” la crisi idrica a Roma dovuta all’abbassamento del Lago di Bracciano (punto di prelievo idrico per la capitale). Ecco che a 10 anni dal referendum per l’acqua pubblica, concretizzare la volontà popolare con una gestione realmente pubblica e democratica delle risorse idriche vorrebbe dire contrastare il water grabbing. Anni di privatizzazione o di gestione partecipata pubblico-privata non hanno portato maggiore efficienza nel servizio, anzi: basti pensare che ad oggi le nostre infrastrutture sul territorio nazionale sono obsolete e letteralmente bucherellate per oltre il 47% (dati Istat del 2019).
Ecoló: Cosa fa in concreto il Water Grabbing Observatory e cosa pensi che possiamo fare noi, come cittadini e come Ecoló?
MI: L’osservatorio è nato con l’obiettivo primario di documentare e dare voce a chi spesso non ce l’ha: abbiamo iniziato proprio andando nei paesi più colpiti dal water grabbing, realizzando interviste, fotografie, approfondimenti con dati scientifici e politici. Il giornalismo d’inchiesta, la ricerca, l’arte sono alla base di molti dei nostri lavori. Dai primi reportage tra Africa, Medioriente, Canada e Sudamerica, alle interviste ai difensori dell’acqua. Ma non solo: oltre alla documentazione sul campo è importante anche informare puntualmente e per questo abbiamo avviato proprio nel 2020, anno in cui non è stato possibile viaggiare a causa della pandemia, la prima newsletter dal mondo dell’acqua. #Accadueo è una nostra selezione di notizie dall’Italia e dal mondo per approfondire il tema dell’acqua, del clima e dei diritti. Spesso ci troviamo letteralmente bombardati da tante informazioni diverse e in contraddizione tra loro, in questo senso il nostro ruolo è verificare news e fonti per renderle fruibili a tutti in modo semplice e accurato. WGO si occupa anche di sensibilizzare cittadini e influenzare i decisori politici: ne è un esempio la campagna #StopAcquaInBottiglia che promuove l’acqua pubblica, l’uso dell’acqua del rubinetto e fornisce numeri chiari e aggiornati sull’enorme business dell’acqua in bottiglia a discapito delle nostri fonti. In ultimo, portiamo avanti l’azione politica necessaria per far si che il diritto umano all’acqua sia riconosciuto come tale, a partire dall’Italia. Come? Lavorando per la legge sull’acqua pubblica che a ormai 10 anni dal referendum ancora non vede la luce. Come cittadini abbiamo un ruolo fondamentale e lo stile di vita che ognuno di noi sceglie è determinante anche per influenzare la politica. Informarsi quotidianamente e studiare sono alla base della comprensione di ciò che ci circonda (e qua mi rivolgo soprattutto alle giovani generazioni, ma non solo!). Agire e scegliere per esempio di non acquistare acqua in bottiglia, è un gesto concreto che ognuno di noi può fare.
Ecoló. Grazie per il tuo tempo, buon lavoro!
[1] Secondo i dati di Utilitalia (2019), oltre la metà degli abitanti residenti (il 54%) riceve un servizio erogato da società interamente pubbliche. Un italiano su 3 lo riceve da società miste a maggioranza o controllo pubblico, mentre un 11% direttamente dall’ente locale (“gestione in house”, possibile solo a determinate condizioni, tra cui il capitale interamente pubblico della società affidataria). Infine, un 2% della popolazione italiana è servita da società private e l’ultimo 1% da società miste a maggioranza o controllo privato.
Negli ultimi anni sono in aumento film e documentari che hanno come tema l’ambiente, la crisi climatica, il rispetto del Pianeta, dimostrando una crescita di interesse sul tema e dando prova di come la cultura possa (e debba) essere uno strumento per portare avanti sfide ambientali e sociali del nostro tempo.
Entrando nel merito, diciamo spesso che ci troviamo di fronte a una crisi che non è solo ambientale ma “sistemica” e crediamo che anche il modo in cui si fa cultura ne sia parte integrante.
Vogliamo quindi dare voce a un settore, quello della cinematografia, che sembra faticare a darsi una direzione, partendo proprio dal momento difficile e particolare che stiamo vivendo.
Lo facciamo con Samuele Rossi, regista toscano, vincitore del prestigioso PÖFF | Tallinn Black Nights Film Festival, con il suo nuovo film Glassboy, ultimamente in anteprima al Giffoni Film Festival, appena uscito il 1° febbraio in streaming on demand sulle principali piattaforme.
Ecoló: Ciao Samuele e grazie per la tua disponibilità per questa intervista. Di recente hai lanciato un appello sui social intitolato: “le sale cinematografiche chiuse ed il terribile e codardo silenzio di un intero settore”. Da dove nasce questo sfogo?
Samuele Rossi: L’appello nasceva principalmente da una sensazione di forte smarrimento e delusione rispetto all’assenza di un reale dibattito sulla chiusura delle sale cinematografiche che è una ferita aperta non solo nella vita culturale del nostro paese, ma anche sociale delle nostre comunità. Stonava (e stona) ancor di più il fatto che questo disinteresse, questa apatica accettazione dello status quo, appartenga in primis al settore di cui faccio parte. Addirittura è difficile trovare una dichiarazione di qualche regista italiano di particolare rilievo che si sia esposto. Quest’atteggiamento, ovviamente frutto del fatto che il settore cinematografico sia stato ampiamente supportato dalla politica in questi mesi attraverso “i ristori” e la “cig” (e altre misure più specifiche), denota “una pancia piena” che ha portato, soprattutto per la grande distribuzione, una situazione di assoluta passività e di totale noncuranza del significato, del valore e del ruolo delle sale cinematografiche nel tessuto sociale.
Ovviamente i piccoli esercenti non la pensano così, vorrebbero aprire, lavorare seguendo i protocolli. Ma è ovvio che in un gioco economico così complesso e rilevante le piccole imprese rimangono purtroppo ai margini del discorso politico. Il punto non è un’apertura priva di logica, ma confrontarsi, dibattere sul problema, trovare soluzioni intermedie. Perché se alle grandi imprese questa situazione è quasi conveniente, non è lo stesso né per i piccoli esercenti, né per la piccola distribuzione, né per la produzione indipendente. Il cinema che si espone, che sta in prima linea, finisce per essere definitivamente ucciso da questa politica miope e sterile.
Ecoló: Nella crisi sanitaria e sociale in corso, come giudichi i provvedimenti di chiusura di cinema e teatri? Potevano essere trovate soluzioni alternative? La situazione è complessa e delicata.
SR: Credo che nella prima ondata non ci fossero alternative. Credo lo stesso durante il picco della seconda ondata. Le regole devono valere per tutti. Dunque se molti settori aperti al pubblico vengono chiusi, deve valere lo stesso anche per le sale cinematografiche, per i teatri. Ma oggi la situazione si muove sulla linea di una certa stabilità. Dunque ritengo che attraverso un differente confronto, un settore, quello cinematografico intendo, maggiormente attento e volenteroso e un dibattito più incisivo oggi si potrebbero attivare, attraverso gli stessi protocolli di sicurezza che erano già stati trovati nella tarda primavera del 2020, delle modalità di fruizione rivolte al pubblico. Ma non c’è la volontà. Questo è il punto.
Ecoló: Abbiamo sentito spesso alzate di voci a difesa di ristoratori e categorie economiche di ogni tipo, mentre poco o niente da parte del mondo del cinema, come mai?
SR: Perché il nostro settore, soprattutto nella distribuzione e nell’esercenza, ha goduto di interventi massicci, spesso addirittura totalmente compensativi delle perdite. Inoltre c’è una CIG significativa. Questo permette alle grandi aziende della distribuzione, che purtroppo mantengono il controllo decisionale e sono attori decisivi nel dialogo con la politica, di rimanere chiusi senza problemi e scaricare i costi sullo Stato disinteressandosi del danno che l’assenza di attività culturale produca nella società. Non voglio dire che non deve essere il sostegno pubblico (non voglio creare equivoci), ma sono allo stesso modo convinto che gli aiuti statali debbano confluire anche nella direzione di una stimolazione dell’attività, di una ricostruzione o rimodellazione di essa. Altrimenti non c’è ripartenza, non c’è progettualità, non c’è futuro. Vogliamo veramente credere che seguendo determinati protocolli di sicurezza non sia possibile, con il supporto di politiche di sostegno, riaprire le sale con presenze scaglionate, programmazioni differenziate, orari elastici? Quando nello stesso momento i centri commerciali, giusto per fare un esempio, sono aperti senza nessun tipo di specifico controllo…
Ecoló: Chi è maggiormente impattato da questa situazione e in che modo? Produttori, distributori, gestori di cinema, attori e lavoratori del settore?
SR: I produttori da una parte e i lavoratori del settore dall’altro. Distribuzione ed esercenti hanno ristori significativi e cig, tutele importanti, spesso quasi compensative in toto, che finiscono però per schiacciare la piccola esercenza che ovviamente lavora su pubblici e modalità differenti. Paradossalmente senza i grandi titoli, che in questo momento sono stati tutti rimandati a dopo l’estate, il vero problema lo avrebbero i grandi distributori e i multplex (che farebbero fatica a lavorare su titoli indipendenti o d’autore). Ecco perché è tutto chiuso.
Ecoló: Come per tante altre situazioni del nostro Paese, questa pandemia ha fatto emergere spesso criticità già presenti, di tipo strutturale, che nel momento di crisi sono amplificate e gestite con provvedimenti “tampone”, senza sfruttare l’occasione per una riflessione più ampia. È così anche per il cinema? C’è una visione di prospettiva a medio-lungo termine che possa andare a questo momento drammatico?
SR: E’ proprio così. Il vero problema è questo, come già anticipavo. Sono tutte misure rivolte al presente, anche significative, anche rilevanti. Ma sono tutte iniziative che puntano a far sopravvivere (che è già qualcosa ovviamente), ma non sono sostenute da un pensiero a medio-lungo termine. Non c’è progettualità, né viene incentivata o richiesta, pensando erroneamente che tra 8 o 12 mesi tutto riprenderà come se fossimo ancora nel 2019. Sarebbe stato opportuno condizionare certe forme di sostegno a vincoli di rinnovamento delle proprie attività, di ammodernamento delle infrastrutture o di ricostruzione di nuove forme di condivisione e fruizione. Ma se manca il dibattito come puo’ avvenire? Se il nostro settore tace come la politica potrebbe sapere?
Ecoló: Come dicevamo all’inizio, l’attenzione alle sfide ecologiche del nostro tempo sta diventando sempre più presente nella produzione cinematografica, come vedi la relazione tra cinema e ambiente?
SR: Il cinema solitamente ha sempre avuto la capacità di parlare dei temi che coinvolgono l’attualità: ecco dunque che l’ambiente è diventato di rilievo sia nel cinema documentario che nel cinema di finzione. Non solo. L’emergenza ambientale sta cambiando anche molte abitudini produttive, se non addirittura aspetti integranti del modello economico che sostiene un’operazione cinematografica. Basti pensare che ormai quasi tutti i bandi a livello europeo e nazionale che caratterizzano l’attività di sostegno al cinema da parte delle Film Commission inseriscono delle premialità laddove le produzioni cinematografiche garantiscono livelli di sostenibilità ambientale sul set (raccolta differenziata, ecomobilità…). Ovviamente non è facile, un set è “un circo” in movimento. Ma se c’è la volontà e se il lavoro di controllo è svolto bene anche i set possono diventare luoghi capaci di rispettare l’ambiente e rinnovare le proprie abitudini.
Ecoló: Tornando all’appello lanciato qualche giorno fa sui social, che risposta stai ottenendo? Hai fiducia che si possano investire risorse, non solo economiche, per un rilancio innovativo del settore della cultura, cinematografica in primis?
SR: Tanti consensi vicini, nel passaparola di amici e colleghi, una discreta attenzione in termini regionali (la Toscana, regione in cui vivo e opero maggiormente). Ma 0 risposta in termini più strutturati. Ma è normale. Per quanto faccia questo lavoro da più di 10 anni, abbia diversi film alle spalle e il mio secondo film di finzione uscito il 1° febbraio, è sempre difficile portare attenzione su temi importanti e spesso spigolosi, rompere un certo “muro di gomma”. Dovrebbero essere ben altri nomi della regia italiana a farsi carico di questa battaglia, a stimolare il confronto ed il rilancio. Ma questo non accade. Come mai? Non me lo spiego.
Ecoló: Ti ringraziamo per il tuo tempo e ti chiediamo di chiudere con un suggerimento per chi ha a cuore il cinema in sala: quale potrebbe essere un modo per sostenerlo, anche indirettamente, in attesa di poterci tornare presto?
SR: Non perdere le abitudini cinematografiche. Guardare film, su qualsiasi piattaforma possibile. E’ un modo per sostenere il cinema e la sua fruizione in questo momento che non ci sono alternative. Ma al contempo non prenderla come un’abitudine (non troppo almeno). Perché è la sala l’unico luogo dove un film possa essere realmente goduto e vissuto. E perché alla fine di tutto questo i cinema torneranno a riaprire e sarà bello ritrovarsi in fila, in attesa di comprare il biglietto, per una nuova splendida visione da condividere assieme.